“Our dead bodies must tell the tale" / Ultimo parallelo di Filippo Tuena
Era il 2007 quando Rizzoli pubblicava Ultimo parallelo di Filippo Tuena, uno dei romanzi italiani più importanti degli anni Duemila. Oggi, il Saggiatore, che aveva già ristampato il libro nel 2013, lo riporta in libreria in una versione ‘accresciuta’, che affianca al testo originale una serie di frammenti inediti e una prefazione in cui Tuena spiega come ha lavorato, e soprattutto come ha gestito la «messe spaventosa di dati» accumulati nel tempo.
Per chi oggi lo prendesse in mano per la prima volta, Ultimo parallelo racconta una storia realmente accaduta, quella di Robert Falcon Scott e degli uomini che assieme a lui, fra 1911 e 1912, tentarono la conquista del Polo Sud. I dati storici sono a disposizione di chiunque li voglia consultare, per cui non si svela niente di decisivo aggiungendo che il tentativo fallirà. Scott e i suoi arriveranno sì al Polo, ma sulla strada del ritorno perderanno la vita. Non solo. Proprio a ridosso della meta scopriranno di essere stati preceduti da un’altra squadra, quella molto più preparata e ‘performante’ capitanata dal norvegese Roald Amundsen. Doppiamente sconfitti, insomma, e non solo nello spirito.
Appoggiandosi ai diari degli esploratori, ritrovati intatti dopo la loro morte, Tuena ricostruisce il progressivo deteriorarsi di menti e corpi. Mentre con una lentezza esasperante procedono fra i ghiacci, male attrezzati e con il vento che non dà tregua, Scott e i suoi crollano letteralmente a pezzi. I muscoli si atrofizzano, le dita rinsecchiscono, la vista prima si appanna e poi scompare. Insieme, ad andare in malora sono gli animi. Più il traguardo si avvicina, più l’entusiasmo iniziale cede il passo alla consapevolezza di non essere all’altezza dell’obiettivo. I diari di Scott e compagni registrano con una lucidità disarmante le paure e i cattivi pensieri che li attanagliano, il «senso di malinconia e struggente solitudine che a volte si presentava improvviso». Ed è Scott per primo a intuire che la conclusione della loro storia è già scritta. «These rough notes and our dead bodies must tell the tale», scriverà sul suo diario, di fatto anticipando il destino suo e dei suoi uomini.
In altre parole, Tuena racconta una sorta di contro-epica, un’epica della sconfitta i cui protagonisti sono personaggi tutto fuorché straordinari. Gentlemen «che avevano qualcosa da dimenticare piuttosto che da conquistare», veterani «tornati sul continente antartico vinti dal senso del disagio che li aveva attanagliati al ritorno dalle precedenti esplorazioni», marinai «privi di mezzi che si aspettavano da questa esperienza la soluzione ai loro problemi economici». Uomini come tanti, insomma, che dietro all’ambizione di passare alla storia nascondono esistenze fragilissime. E viene in mente, leggendo, la storia raccontata nella prima stagione della serie tv The Terror, tratta dall’omonimo romanzo di Dan Simmons, che sotto le spoglie del racconto del terrore mostrava il crollo fisico e morale, oltre che lo sfaldarsi degli ideali colonialisti, dell’esercito britannico alla conquista del Polo Nord.
Ma l’interesse di Ultimo parallelo non sta solo nel rilievo dato a ciò che solitamente i testi storici tacciono, cioè la vita interiore di personaggi realmente esistiti. È significativo anche il modo in cui Tuena tratta le sue fonti, e come più in generale dà forma alla storia. A cominciare dallo stile, da una prosa che mescola senza soluzione di continuità eventi, pensieri e voci. Vale forse la pena citare per intero lo splendido incipit:
Quando splende il sole accecante indossano strani occhiali modificati in maniera empirica con frammenti di legno che fasciano le stanghette laterali per impedire ai raggi ultravioletti di raggiungere le pupille molto arrossate e doloranti oppure oscurano le lenti lasciando soltanto una sottile fessura orizzontale che riduce il panorama a una striscia di luce appena percepibile ma più spesso sono immersi nella nebbia o dentro la tempesta di vento che alza pulviscolo di neve e cancella il sole e nasconde la via e soffia contro il loro andare con una violenza che sa di cattiveria di ferocia di spietatezza e si domanda perché si stia scatenando contro di loro questa furia distruttiva e quale sia stata la loro colpa.
In un unico, lunghissimo periodo, senza punteggiatura o pause di alcun tipo, è già contenuto tutto ciò che seguirà. La fatica del procedere, l’inadeguatezza degli esploratori, il fallimento a cui la spedizione è destinata, insieme all’intuizione che le cose non potranno che virare al peggio.
Accanto a passaggi del genere, tuttavia, ce ne sono altri molto diversi. Il romanzo si compone di una serie di blocchi di testo, spesso piuttosto brevi, in cui talvolta, come in un saggio, dati ed eventi sono esposti in modo rigoroso; e come in un saggio, del resto, a fine volume sono elencati i testi che l’autore ha consultato per documentarsi. A volte sono invece occupati da citazioni, tratte sia dai diari degli esploratori che da altri testi, a cominciare dalla Terra desolata di T.S. Eliot. E poi ci sono frammenti in versi, altri in cui Tuena immagina ciò che gli esploratori si sono detti, altri ancora in cui è raccontato quanto passa loro per la testa. La quinta parte del libro, quando ormai i corpi di Scott e degli uomini con i quali ha tentato l’impresa sono stati trovati morti, consiste quasi per intero nella restituzione di ciò che uno degli esploratori sulle loro tracce prova leggendo i diari dei compagni. E l’impressione è in effetti quella di un affastellarsi di voci: quella del personaggio che parla fra sé e sé, quella che mentre legge gli sembra di percepire al suo fianco, ma anche quella degli esploratori depositata nei diari, e che pagina dopo pagina prende vita, infiltrandosi fra i suoi pensieri. Fantasmi della scrittura e della lettura, si potrebbe dire. E d’altra parte, di fantasmi è pieno il libro, a cominciare dalla prefazione, in cui Tuena ammette di avere lavorato «con fantasmi» e spiega che un fantasma gli «serviva» per dare il là alla narrazione. Peraltro, è significativo che proprio nella prefazione avvenga qualcosa di molto simile a quanto appena descritto. Mentre ricostruisce la genesi del romanzo, Tuena, a tratti, sembra guardarsi da fuori, raccontandosi cioè in terza persona, attraverso la stessa voce che agisce in passaggi come quello ricordato poco sopra. Come se la voce in questione debordasse dai limiti del romanzo per ‘contagiare’ il discorso che lo precede. O come se il testo collassasse sulla sua cornice, mettendone in discussione la pretesa ‘serietà’, il fatto cioè che una prefazione è, o dovrebbe essere, un testo immune da artifici finzionali.
E poi ci sono le immagini: più di trenta fotografie, tutte scattate dagli esploratori, che Tuena non si limita a esibire a mo’ di documento, come se si trattasse di reperti utili per illustrare quanto le parole di per sé già dicono. Non diversamente da altre opere dell’autore, e in particolare dalle Variazioni Reinach, le immagini sono tracce di una storia nascosta, che vanno interrogate per cogliere ciò che si nasconde dietro. Come nel caso di una fotografia scattata nei pressi del campo degli avversari norvegesi, la cui apparente naturalezza cela ciò che i personaggi ritratti sono per davvero: «estranei in un luogo estraneo».
Insomma, un impasto di elementi che se da un lato complica il tentativo di descrivere Ultimo parallelo, dall’altro ne fa una sorta di antesignano di una lunga serie di testi ‘ibridi’. Mi riferisco alla tendenza a mescolare forme saggistiche e narrative, a impiegare strategie finzionali per raccontare storie ‘vere’, a montare sulla pagina elementi eterogenei. Tutti aspetti non certo inediti prima del 2007, ma che dopo quella data, almeno in Italia, sono diventati una specie di norma – oltre che una specie di moda.
C’è però un aspetto che sfugge a questa lettura, e che allontana Ultimo parallelo da tanta non-fiction degli ultimi anni, e più in generale da molte di quelle opere che si collocano sul crinale fra storia e finzione. Quasi sempre, in questo genere di testi chi scrive si mette direttamente in scena, raccontandosi di volta in volta come personaggio implicato negli eventi di cui racconta, come testimone partecipe, come montatore dei materiali raccolti. Chi scrive è sempre bene in vista, le sue tracce disseminate un po’ ovunque. In Ultimo parallelo, invece, per buona parte della storia entriamo in contatto con una voce imprendibile, che è impossibile dire da dove venga di preciso. È la voce dell’«uomo in più», quella figura spettrale che gli esploratori raccontano di percepire al loro fianco mentre procedono nel cammino, e a cui allude anche Eliot nella Terra desolata. Sorta di genius loci ineffabile, l’uomo in più si fa testimone silenzioso e insieme compassionevole, che empatizza con gli uomini che ha di fronte senza mai riuscire ad attraversarli. Fino in ultimo si limita a osservarli senza intervenire, e nel momento in cui sono ormai fuori scena resta a contemplare malinconico la sua solitudine.
Paragonata a quella dei molti ‘io’ che oggi occupano il centro delle storie proprie e altrui, questa voce può apparire paradossale. Troppo defilata, troppo laconica, incapace di parlarci schiettamente e di comunicarci una verità a cui da soli non potremmo mai arrivare. Ma è probabile che la forza del romanzo stia proprio qui, cioè nell’idea che per raccontare una storia realmente accaduta l’autore si possa fare da parte, o al limite farsi egli stesso soggetto narrato, per lasciare la parola a una figura evanescente, a una pura voce. Allo stesso tempo, Ultimo parallelo sembra suggerire che il ricorso a citazioni, immagini e altri documenti non è necessariamente un modo di autenticare il racconto, di certificare, o di illuderci, che le storie raccontate siano davvero andate così. Al contrario, può essere il punto di partenza per straniare il dato storico, per portare in primo piano ciò che si nasconde sotto la pellicola fragile dei fatti.