Svevo pacifista

23 Gennaio 2025

Ci sono scrittori che sembrano quasi disinteressati alla politica e a ciò che avviene nel mondo a loro contemporaneo, di cui lasciano trasparire solo sporadici riflessi, anche se a volte significativi, in pagine che sembrano contraddire questa distanza. Svevo è uno di questi. Di Svevo politico s’è iniziato a parlare con insistenza negli ultimi anni. Se ne conoscevano le prove giovanili, risalenti al tempo della collaborazione giornalistica a «L’Indipendente», fino al 1889. Grazie soprattutto all’infaticabile lavoro di scavo di Brian Moloney il corpus è andato arricchendosi di nuovi e preziosi frutti riconducibili al periodo della svolta: gli anni di Trieste diventata italiana, il periodo che precede e accompagna la gestazione del romanzo maggiore. Si tratta di articoli e saggi che testimoniano una matura professionalità, un «secondo mestiere», per dirla con Montale.

Proprio nei mesi in cui La coscienza di Zeno prende forma, l’elemento politico prevale su ogni altro. Negli anni in cui esplodeva il caso-Svevo – ma anche dopo – parlare di lui come di uno scrittore politico era come pronunciare una bestemmia. La requisitoria contro l'industriale, l'occhiuto amministratore dei propri affari, il rentier, è stato un motivo ricorrente. La sua carriera, scrisse Bobi Bazlen in un crudele ritratto, sarebbe stata finalizzata soltanto a far soldi.

Che fosse stato influenzato dal riformismo alla Turati, è sicuro. Nel 1897 sulla «Critica Sociale» Svevo aveva pubblicato un apologo, La tribù. Bazlen nemmeno lo sapeva, ma nel buio di una cella fascista Antonio Gramsci affidava ai suoi quaderni un ricordo di quell’apologo e una staffilata contro i “sacrestani” della critica letteraria.

Una vera e propria scoperta è invece lo Svevo pacifista del 1917. Il più importante contributo di Svevo alla politica, quello da cui è inevitabile partire, è quello meno conosciuto: pochi sanno che ci è pervenuto, purtroppo mutilo, un trattato sulla pace universale. Lo si rilegge con interesse nei mesi dolorosi che viviamo, per un verso schiacciati dalle notizie che arrivano dall’Ucraina e dal Medio Oriente, ma anche impigriti da un pacifismo astratto, fatto di buoni sentimenti privo di sostanza e consapevolezza.

Sulla scia di Kant e poi degli scritti del noto pacifista Alfred Hermann Fried (1864-1921) e del giurista Walter Schücking (1875-1935), mentre infuriava il primo conflitto mondiale Svevo progetta un saggio di filosofia politica. La cosa interessante da notare è la genesi di questo saggio, parallela alla creazione della Coscienza. Quanto siano attuali queste pagine nei giorni che viviamo, travolti dal doppio conflitto a Gaza e a Kiev, lo dimostrano le prime righe del saggio: «La guerra è e resta una cosa turpe per ogni uomo equilibrato e morale. La sua turpitudine non è diminuita né dal patriottismo né dall’eroismo». E così sul tema, oggi molto attuale, del disarmo: «Nel primo anno di guerra un cittadino tedesco calcolò che se invece di fare la guerra la Germania avesse dedicati 30 miliardi di marchi alle opere pubbliche il paese si sarebbe convertito in un paradiso terrestre»

Saggio sulla pace e romanzo di Zeno per un certo periodo devono aver coabitato nella mente di chi li ha scritti. Mentre il romanzo nasce e si conclude, il saggio sulla pace rimarrà incompleto. Probabile che Svevo stesso abbia rinunziato a completarlo in favore del romanzo.  Sono pagine incompiute, disorganiche, senza un titolo certo (Sul tema della pace, La Lega delle Nazioni) quelle che si sono conservate. Secondo quanto la moglie dice nelle memorie e Svevo ci dice nella corrispondenza, il saggio fu distrutto. Nessuno ha badato a un piccolo, curioso dettaglio, che Svevo ripete nel Profilo autobiografico e in una lettera a Prezzolini in cui ricorda di essersi accinto a scrivere «un’opera quasi letteraria, un progetto di pace universale…». Un’opera «quasi» letteraria?

k

Definizione quanto mai ambigua, come spesso accade con Svevo. A quale opera pensava scrivendo al direttore della “Voce”? Al saggio sulla pace universale o alla Coscienza, il cui celebre finale può ben dirsi «quasi» politico? «Quasi» politico, «quasi» letterato Svevo è sempre stato. Nelle cose che ha scritto esiste una tensione fra la realtà della vita e il sogno della letteratura, fra il realismo e l’utopia, tra il darwinismo e la «religione dei padri», tra Machiavelli e Renan. Il romanzo di Zeno non è certo un romanzo sulla Prima guerra mondiale sul genere di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque –, ma in qualche modo lo è l’ultimo capitolo, in forma di diario, che inizia nelle «radiose giornate» del maggio 1915 In quelle pagine si trovano accenni ai saccheggi. Lucinico, dove sono ambientate le ultime pagine, è un piccolo paesino vicino a Gorizia (non lontano scorre l'Isonzo) teatro di sanguinose battaglie. Se si ripercorre a ritroso la sua produzione saggistica e giornalistica, tenendo presente la dialettica tra profetismo e politica, il finale della Coscienza riletto accanto al saggio sulla pace appare più chiaro.

Furono gli orrori della guerra, resi più concreti dalla forzata separazione dai congiunti, dall'Hermada in fiamme, dalle acque del golfo minate (l'affondamento nella baia del porto della corrazzata Wien), dalle incursioni aeree di idrovolanti, dirigibili e aeroplani a spingere Svevo ad abbandonare la filosofia politica e a indirizzarsi verso la sede più naturale del suo corpo a corpo con la vita: il romanzo. Zeno ritorna dalla frontiera servendosi dell'ultimo treno possibile e al suo arrivo trova Trieste in preda alla sommossa. La folla si vendica degli italiani, la rabbia degli austriacanti si scatena. L'oscuramento, le fughe dei renitenti, e più in generale la considerazione di un immenso cambiamento collettivo lo portano a scrivere il saggio Sulla teoria della pace: «La guerra poi non somiglia più alla lotta per la vita in natura. L’animale che lotta per il pascolo non comincia col distruggerlo ma a lotta finita lo ha intero. Invece la guerra che lotta anch’essa per le cose – in questo adagiata nello stato di natura – nel suo corso ne distrugge tante che vincitori e vinti ne risultano impoveriti e non per una ma per molte generazioni. Mentre scrivo infuria la guerra; ma io già so che nessuno pagherà degl’indennizzi. Donde avrebbe da trarli? Perciò la guerra manca al suo scopo. Le cose per cui lottò non esistono più».

Nel Profilo autobiografico, dopo aver parlato di un’opera «quasi» letteraria, confida: «Naturalmente a questo mondo non si può mai pensare niente senza arrivare al padre di ogni letteratura, l’Alighieri. Con un certo ribrezzo lo Svevo si adattò. L’opera che ne risultò non esiste più». Con l’italiano di Svevo si è sempre in difficoltà a chiarire i punti oscuri: «Non si offenda! Non voglio mica dire che Dante abbia colpa di ciò che poi avvenne».  Credo che Svevo volesse dire che Dante pacifista non è responsabile della piaga cancrenosa della Grande Guerra. A Prezzolini, che sul fronte c’era stato, ripete lo stesso concetto, ma che cosa, risalendo a Dante, intendesse per «ribrezzo» è arduo dire.

Spaventato dalle applicazioni militari della scienza, dall’uso di armi sempre più potenti è probabile che avesse in mente i versi di Inferno, X, 85-86 dedicati alla battaglia di Montaperti evocata nell’episodio di Farinata degli Uberti e che il ribrezzo nascesse indirettamente dal ricordo della Commedia: «Lo strazio e il grande scempio/ che fece l’Arbia colorata di rosso». Il «rosso fiammeggiante» del sangue spremuto dalla guerra aveva macchiato pure l’Isonzo. Nel saggio sulla pace Svevo tenta il raffronto con la dantesca «guerra Senese», in un passo  estremamente attuale, che non si può rileggere oggi senza interpretarlo come una lezione per le nostre coscienze, oltre che come embrione del finale della Coscienza: «Una teoria completa e perfetta anche se non più applicabile alle nostre circostanze fluì dalla nobile mente di Dante che per aver conosciuti gli orrori (che a noi non sembrano troppo grandi) della guerra Senese divenne un pacifista fervente. Strano che noi dopo aver assistito alla distruzione di tanta parte di vita e di civiltà, compromesso la gioia di vivere di varie generazioni e aver scoperto che l’uomo non è più come l’animale selvaggio la cui attitudine perennemente guerresca non oltraggia il destino delle razze, ma è tale oramai da saper già oggi cancellare ogni traccia di vita da paesi interi e domani forse scardinare la terra stessa, non abbiamo saputo far altro che creare una Lega delle Nazioni cui augurammo la forza senza saper darle alcuna base per farne una parte vitale e omogenea di questo mondo che sa presto eliminare tutto quello che non gli si confà» (il corsivo è mio).

Svevo lascia intendere che Montaperti e Campaldino siano piccola cosa rispetto a Caporetto, ma tanto basta a fare dell’Alighieri «un fervente pacifista». Una affermazione che rafforza la nostra convinzione che sia esistito uno Svevo politico coraggioso. Questa lettura pacifista di Dante, per quanto dilettantesca, si scontra con l’icona nazionalista che del sommo poeta si era eretta da parte degli interventisti nazionalisti prima, dai fascisti poi.

k

La fonte di questo passo è il Libro I, IV di Monarchia tutto dedicato alla pace universale, in particolare il paragrafo 2, dove si esprime l’elogio della pace: «Donde è manifesto che la pace universale è il più grande dei beni che sono ordinati alla nostra beatitudine» (I, IV, 2). Svevo era un lettore disordinato, del suo essere dilettante si vantava già in un articolo per «L’Indipendente» dell’11 novembre 1884. Dilettantesca, ma fino a un certo punto, la lettura sveviana del Monarchia, anche là dove parla del duello o della gara, come alternativa al conflitto. Ma c’è di più. Anche il cenno al duello, all’ordalia rimanda al Monarchia. Il saggio di Svevo inizia così: «[La guerra] è moralmente inferiore al duello dove il sentimento di giustizia che più facilmente penetra nelle relazioni fra individuo e individuo ci induce a consegnare le stesse armi misurate e pesate ai due litiganti nel conato di provocare una sorta di giudizio di Dio sulla superiorità di uno di essi denudato di ogni cosa che non sia lui stesso mentre nella guerra apparisce più eroico colui che ha dietro di lui fabbriche d’armi meglio organizzate» (corsivo mio). Qui siamo al calco letterale dalla pagina sul duello di Monarchia: «Per certame il giudizio di Dio si manifesta agli uomini in due modi: o con lo scontro delle forze, come accade per il duello fra campioni, che si chiamano anche duellanti, o per la competizione tra molti che cercano di arrivare primi ad una meta, come accade nella gara degli atleti che corrono per il palio» (II, 7); «E ciò che si conquista col duello è conquista legittima. Dove infatti il giudizio umano fa difetto, o perché involuto nelle tenebre dell'ignoranza o per l’impossibilità di avere ricorso a un giudice, affinché la giustizia non sia denegata, si deve ricorrere a Colui che l’amò supplire col proprio sangue, morendo, a ciò che essa reclamava […] Chiamiamo duello questo confronto, perché ha preso origine dallo scontro di uno contro uno». (II, 9)

Una secolarizzazione dell’ordalia, o judicium Dei, una procedura di risoluzione delle controversie utilizzata all’interno delle società primitive.

Eravamo rimasti fermi a un’interpretazione novecentesca di questa pagina antologizzata in decine e decine di manuali scolastici. Che si trattasse di preveggenza della catastrofe nucleare lo si diceva ai tempi della guerra fredda. Poi è venuta la pandemia e s’è detto che quell’esplosivo veniva da Wuhan. Infine, sono venute le guerre in Ucraina e in Medio Oriente e ci capita di scoprire uno Svevo in controtendenza rispetto all’icona di un Dante interventista, nazionalista e poi fascista. Lo vediamo guardare al Sommo Poeta come si guarda un fervente pacifista.

Quale possa essere un’utopistica moderna ordalia capace di rendere visibile, nei conflitti, il giudizio di Dio, Svevo non lo dice. Semplicemente del medievale judicium Dei (la procedura di risoluzione delle controversie utilizzata all’interno della società medievale) auspica una qualche forma di secolarizzazione che ne renda attuale il valore. Svevo scrittore «quasi politico» non auspica, come è stato scritto, un mondo migliore. Nel momento in cui veniva pubblicata la Coscienza, agli albori della Lega delle Nazioni, si diceva che la guerra appena conclusa avrebbe messo fine a tutte le guerre. Quale decadenza abbiano subito in età contemporanea gli organismi internazionali è sotto gli occhi di tutti. Già Svevo nutriva forti dubbi dopo la Grande Guerra, guardava altrove per rendere permeabili le frontiere. Svevo saggista politico «quasi letterario» conferirà alle ultime parole del suo libro più famoso il senso di un messaggio minaccioso, l'imminenza di altre spaventose calamità, ma temperata dalla speranza che una qualche forma di certame diplomatico possa servire a impedire inutili spargimenti di sangue.

Nota di Lettura

Le citazioni del Monarchia sono tolte dall’edizione commentata a cura di Diego Quaglioni, Meridiani, Mondadori, 2015; il trattato sulla pace è inserito in I: Svevo, Scritti giornalistici, saggi postumi, appunti sparsi e pagine autobiografiche, a cura e con introduzione di Brian Moloney, note ai testi di Nicoletta Staccioli, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 2018, pp. 273-294; in edizione a parte, fuori commercio, I. Svevo, La Lega delle Nazioni [Sulla teoria della Pace], a c. di Silvia Butto-Riccardo Cepach, Comune di Trieste, Trieste , 2014. La lettera a Prezzolini, datata novembre 1925 in I. Svevo, Lettere, a cura di Simone Ticciati, con un saggio di Federico Bertoni, Il Saggiatore, Milano, 2021, p. 997.  Stesse espressioni ritornano nel Profilo autobiografico (in Racconti e scritti giornalistici, edizione critica e commento di C. Bertoni, introduzione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 2004, p. 811.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO
TAGGED: Italo Svevo

Bollo blu Dona (Mobile)