A Swang Song. Omaggio a Peter Tscherkassky

1 Dicembre 2014

Il testo è stato scritto in occasione dell'omaggio a Peter Tscherkassky e Eve Heller che si svolgerà il 3 e il 4 dicembre a Filmmaker Festival mostrando un'ampia panoramica dei loro lavori e una masterclass presso l'università IULM. L'omaggio è a cura di Atelier Impopulaire

 

 

At this very moment in history we are being forced to face the loss of a fully developed and established artistic means of expression, that is analogue cinema. What we have come to call “modern art” came into being as art began to reflect its inner structure, its very means and possibilities – in one word, its material. Ever since, all radical art has been vitally informed by the unique potential of its medium. This is why film and digital imaging are in no way interchangeable, neither in their process nor in their projection. Only one of the many effect which both are capable of connects the two: the illusion of movement. For those who regard cinema merely as matter of moving images, the difference between the two media therefore seems negligible. But for those who are committed to working with the host of possibilities unique to film, its imminent extinction is dramatic.

 

 

Perhaps in a few years analogue cinema will be gone, replaced by digital picture processing and whatever comes next. Until then I will continue my artistic work as a swan song of film, as my farewell to the unique beauty of analogue cinema.

 

Peter Tscherkassky, 2013

 


 

È difficile descrivere l’importanza che il lavoro e la figura di Peter Tscherkassky hanno avuto nel cinema contemporaneo europeo, e non solo. Pioniere di una tecnica originale e innovativa, attuata direttamente in camera oscura con processi di incisione luminosa su pellicola, Tcherkassky ha decostruito e reinventato il lavoro sul found-footage, ampliando gli orizzonti della decennale tradizione austriaca di scuola Kubelka verso riconoscimenti, anche di pubblico, non facilmente prefigurabili. Come teorico e curatore, da più di trent’anni ha affiancato al lavoro filmico quello editoriale e storico per la diffusione del cinema sperimentale: dagli anni ’80 a oggi ha diretto festival, curato programmi e retrospettive, e fondato la casa di edizione, produzione e distribuzione SixPack Film, editando la più importante storia del cinema d’avanguardia austriaco, Film Unframed (2012).

 

 

Ma la rilevanza dell’opera si realizza nel lascito teorico e storico rintracciabile nella coerenza estrema che ha caratterizzato il suo percorso. Cresciuto artisticamente tra Vienna e Berlino in un momento di crisi per le arti sperimentali dopo l’ubriacatura degli anni Sessanta e Settanta, gli anni Ottanta lo vedono preparare il terreno per un’espansione imprevedibile, ben oltre il cinema di scuola strutturalista e di matrice sperimentale dei primi film in Super8. Quegli esempi, seppur influenzati da maestri come Kren e Frampton e debitori di un discorso d’avanguardia kubelkiano, rivelano intime e inaspettate connessioni coi lavori successivi, soprattutto in termini processuali e percettivi. La tensione verso un disvelamento del nudo corpo del film come corpo erotico è parte fondamentale di questa tensione crescente, che trova una sua perfetta chiusura nella scelta del 35mm, un’espansione fisica che sfida le rigide leggi degli small gauges, proprie del cinema indipendente, esplodendo alla fine degli anni 90 con la scelta del più dispendioso formato panoramico. Il salto dimensionale di Outer Space ha segnato uno dei momenti più importanti per il cinema d’avanguardia europeo, rendendo la decostruzione spettacolare, l’esperimento metodo, la macchina da presa superflua, l’underground overground. Solo la trilogia che ne segue chiarisce l’ambizione e la logica del salto, di questo sfondamento percettivo che risulta prezioso non in sé, ma come frammento di un discorso lungo due decenni.

 

Il cinema è immagine e materia. A farne – apparentemente – una cosa sola è la luce. C’è una luce che incide (impressione) e una che proietta (espressione). A prescindere dall’uso di una macchina da presa, il ruolo di queste due luci quasi mai coincide, e a divergere sono soprattutto le loro intensità, e le loro funzioni. La materia, anche prima di farsi immagine, contiene energie nascoste, che quasi solo la luce stessa (naturale o artificiale) può liberare. Possiamo scegliere la qualità e l’intensità di quella luce, ma anche scegliere il punto del processo in cui intervenire per inscrivere, puntualmente, nei pochi millimetri concessi dalla materia, che si presenta sempre in una forma data (il formato). Il cinema di Tscherkassky si basa su queste poche e semplici regole, e ci insegna che occorre fidarsi del buio, che non dobbiamo feticizzare la materia oltre i suoi pregi funzionali ed è deleterio innamorarci troppo delle immagini che usiamo, perché senza una luce esse non sarebbero che la possibilità irrisolta di uno scambio tra spazio e tempo (il tempo che concede spazio, e lo spazio tempo).

 

 

Nonostante la portata malinconica, lo scritto che proponiamo in apertura porta con sé, insieme a un senso di prolungata catastrofe, una visione cristallina del tempo in cui viviamo. Siamo ormai certi che un mondo intero stia scomparendo davanti ai nostri occhi, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Solo che la fine non arriva mai. Il cinema non è da meno: in questi anni abbiamo visto il super8 risorgere in forme mai viste, il 16mm spopolare fra i giovani cineasti, mentre l’industria rispolverava il 3D e Christopher Nolan la obbligava a stampare decine di copie di Interstellar in 70mm, permettendo ad artisti come Margaret Honda di inserirsi negli interstizi dei grandi laboratori di Hollywood per realizzare il suo primo film astratto, proprio in quell’inarrivabile formato.

 

In questo senso, il canto del cigno è una perfetta raffigurazione di questo paradosso temporale, perché è segno/sintomo di una fine prolungabile ben oltre all’agonia. Il punto in cui siamo ora è ancora più confuso e complesso: la tecnologia digitale avanza asintoticamente, ma il cigno del film analogico continua a cantare.

 

L’opera di Peter Tscherkassky, che qui proponiamo nel più completo omaggio mai realizzato in Italia, unitamente a una lecture sul suo metodo di lavoro e a due incontri con il pubblico, è solo l’inizio della collaborazione con Atelier Impopulaire, uno scambio che si concretizzerà nel 2015 col prossimo e ancora non finito film del regista austriaco, realizzato in parte con materiale filmico che abbiamo selezionato e mandato a lui per essere completamente stravolto e rielaborato in camera oscura.

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