Speciale

Tavoli | Patrizia Valduga

18 Marzo 2013

Il passato è geometrico, dice il tavolo di Patrizia Valduga. Ha ammaccature, bordi consumati, libri che si aprono e non si chiudono mai, fogli dalle estremità smozzicate, blackout. Laggiù, la corrente se ne va e non torna per ore, la musica si interrompe, le matite si perdono, le gomme da cancellare ingrigiscono, le lampade si spengono all’improvviso. Eppure, quando la luce colpisce il tavolo, la perfezione geometrica del passato appare intatta. Il legno della sedia non rivela nessuna screpolatura, a un libro chiuso corrisponde un libro aperto, le distanze tra i Lari sono perfettamente simmetriche, i fogli in uso sono a debita distanza dalle Vere Presenze, il Mac è un totem, e anche l’incongrua apparizione di due pesi da un chilo in posizione opposta rispetto a Flaubert non suggerisce una trasgressione dell’ordine. Anzi, in un suo modo misterioso sembra confermarlo, come se tutti gli oggetti presenti sul tavolo finissero per parlare in fondo un’unica lingua simbolica. Il tavolo compenetra i tempi, fa dialogare presente e passato, convoca la tradizione finché, con assoluta naturalezza, possa diventare parte integrante del paesaggio mentale, tanto che basta un niente: la luce giusta, lo spostamento di una penna, la presenza di un dizionario antico, per rovesciare di segno la distanza.

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