Tele-trasporto: Enrico Ghezzi e la TV

25 Febbraio 2023

Martedì 24 novembre 1987: Raiuno trasmette un classico noir di John Huston, Il mistero del falco (1941). Un film noir – forse il genere più intimamente, ovvero etimologicamente, legato al bianco e nero. Eppure il lungometraggio viene trasmesso colorizzato, in una versione voluta negli Stati Uniti dalla WBTS di Ted Turner e quindi approdata, quasi un anno dopo, anche sugli schermi televisivi italiani. Sincope d’autore: le pubblicazioni dell’epoca riportano che il regista, all’epoca ottantenne, su una sedia a rotelle e respirando grazie a una bombola d’ossigeno in seguito a un enfisema, avrebbe smesso di guardare la versione adulterata del film dopo soli sette minuti. 

La colorizzazione è oggi un fenomeno ormai dimenticato, nonostante l’apparizione determinata algoritmicamente sui social network di certe fotografie o talvolta filmati pubblicati su pagine dedicate alla Storia. Ma quando Enrico Ghezzi ne scrive, in un pezzo per “il manifesto” occasionato proprio dal passaggio del Mistero del falco su Raiuno, e ora raccolto per i tipi della Nave di Teseo nell’antologia L’acquario di quello che manca, il procedimento cristallizza un momento nel quale gli ascolti televisivi sono direttamente collegati al crinale bianco e nero / colore. «Il colore garantisce maggior ascolto medio, il bianconero (con rare sacrali monumentali eccezioni come A qualcuno piace caldo) è relegato dai palinsesti nei pomeriggi e nelle mattine nelle seconde e tarde serate, nelle notti» (p. 137). Qualche pagina, cioè qualche anno (1991) più in là, la colorizzazione diventa esplicitamente, quasi in un lapsus, o un errore di battitura, sebbene controllato, colonizzazione. Il supplemento cromatico televisivo o su nastro (VHS) è lo strumento di una «perversa oscena affascinante “democratizzazione” della storia del cinema, lanciata infatti dal tycoon della CNN, Ted Turner» (p. 149).  

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Cartello d’apertura della versione colorizzata del Mistero del Falco.

Colorizzazione/colonizzazione: nella scrittura di Ghezzi sono numerose le assonanze o consonanze che vanno a sovrapporre aree semantiche apparentemente distinte. Le declinazioni sono diverse ma uno fra gli esiti più frequenti è, come in un questo esempio, il collasso del significante tecnologico su quello politico. Sebbene gli interventi racchiusi nel libro rifuggano a prima vista la sistematizzazione, questi sono attraversati da una questione ricorrente, che si confonde con la metamorfosi dal film al video. È a partire da questa trasformazione che è infatti possibile individuare non solo un percorso ma anche una strategia di scrittura all’interno della raccolta. 

L’acquario, questo parallelepipedo rettangolo a vetrata trasparente, così simile allo schermo televisivo del secolo scorso (tubo catodico, non schermo piatto), un contenitore di immagini localizzato nell’ambito domestico. La seconda parte del titolo, “di quello che manca”, tradisce letteralmente il fine dell’operazione editoriale: nella sua introduzione Aura Ghezzi, figlia dell’autore e curatrice del volume, afferma che mancava, dopo Paura e desiderio (dedicato al “cinema” e pubblicato da Bompiani dapprima nel 1995, rivisto nel 2001), una raccolta di scritti di Enrico Ghezzi sulla “televisione”. Come per il cinema, ma forse ancora più acutamente per la televisione, scriverne non è un’operazione di sorvolo, ma al contrario incarnata. Nella succinta autobiografia dell’autore che figura sul risvolto di copertina, si può leggere nuovamente una riga emblematica, che gli appassionati hanno da tempo mandato a memoria: «enrico ghezzi [...] si occupa di cinema e televisione (o meglio – e peggio! – ne è occupato)». La posizione istituzionale (programmista Rai dal 1979) è ribadita all’interno della raccolta, sotto forma di aneddoto, digressione o, ancora più esplicitamente, come documento di lavoro: la nona e ultima sezione del libro, contiene fra gli altri programmi e proposte per la Rai ma anche alcuni fax – emblematico e desueto mezzo di comunicazione burocratica. 

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Scrivere “sulla televisione” non è, tuttavia, che la metonimia di un’operazione più ampia. Non mancano i pezzi di commento occasionati dalla produzione televisiva che gli è o era contemporanea – Il buco nell’acquario, pezzo che apre la raccolta, si riferisce direttamente al talk show Acquario di Maurizio Costanzo (1978-1979) – ma l’autore trova nella televisione non tanto un oggetto di analisi quanto una particolare configurazione di trasporto delle immagini – un vocabolo dalla polisemia significativa. «Trasporto è una bella parola ambigua. Al senso della comunicazione/spostamento di persone e merci si sovrappone (molto usato in Toscana) il “trasporto” funebre, il funerale, il tratto finale del transito terreno» (p. 100). Ma ancora, aggiunge subito nello stesso intervento Ghezzi, il trasporto è assimilato al moto di entusiasmo e si potrebbe ipotizzare, prolungando questa intuizione, come “estasi”, altro da sé. In fondo, il trasporto (o il (Tele)trasporto, titolo del brevo pezzo apparso su “Nòva/il Sole 24 ore”, 11 gennaio 2007) così come il trasferimento, secondo un’accezione tecnologica, è proprio al centro del volume.

Riunendo gli interventi, con formati, destinazioni e finalità disparate, si ottiene una specie (o allora una “cosa” – vocabolo caro all’autore) di romanzo che narra, circolarmente e non diacronicamente, le metamorfosi delle immagini in movimento. Non tanto un’evoluzione delle loro forme, quanto il continuo passaggio da uno stato, un supporto o un modo di esistenza, all’altro. Queste «possibilità “perverse e polimorfe”» (espressione che ricorre in almeno due luoghi, p. 140 e p. 448) racchiudono tanto la corruzione testuale (o la sua fine pietosa: «il cinema in televisione lo amo ugualmente perché, magari sacrificato, “crocifisso”, è l’ultima vita del cinema», p. 590) quanto il suo superamento avanguardista: «tra marchi e ricezione scadente e scannamento il film diventa (magari nel cuore della notte) uno straordinario “fantasma” di se stesso e uno spezzone di grande videoarte involontaria» (p. 148). 

Trasporto o trasferimento, oppure ancora la mutazione di un corpo (altrimenti, di un corpus): non a caso la figura tutelare, dalle risonanze quasi allegoriche, è la coppia Jekyll e Hyde. Punto di riferimento obbligato nel 1986, quando prepara La magnifica ossessione, n. 2 (un seguito del programma concepito nel 1985 per i novant’anni del cinema – ma anche un suo doppio), in quanto soggetto più «remakato» al cinema (p. 665) e coppia ideale per comprendere le polarità che non solo attraversano ma articolano la storia tecnologica del film: «muto/sonoro, bianconero/colore, cinema/TV & video» (ibidem). Che Ghezzi insegua il doppio del film non è cosa nuova. Le presentazioni doppiate, appunto, fuori sincrono delle notti di Fuori Orario ne sono la manifestazione più popolare, e il doppiaggio come riscrittura, alterazione o supplemento era inoltre oggetto di investigazione in almeno due testi di Paura e desiderio

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Ghezzi in una scena di “Gelosi e tranquilli”, l’episodio da lui diretto per il film collettivo Provvisorio quasi d’amore (1988).

Cruciale è che questo doppio sia il prodotto della stessa registrazione filmica o fonografica. Una citazione, convocata da Ghezzi nel suo discorso inaugurale all’Accademia di Belle Arti di Urbino (2005-2006), illumina l’era antecedente a quella della registrazione. L’impermanenza della voce, la sua traiettoria temporale irrecuperabile, è racchiusa nel verso folgorante di Persio, rifatto (“remakato”?) da Boileau: hod quod loquor inde estle moment où je parle est déjà loin de moi. E il dopo? Per Ghezzi è Paul Valery che tratteggia «il futuro contenuto nel cinema nello stesso tempo in cui il cinema imbalsama il passato» (p. 140), attraverso una formula che i suoi lettori conoscono bene: «So l’avvenire a memoria.» (Ma da dove viene questa riga datata 1944? Che sia presa in prestito – ma ancora, dove? – a Carmelo Bene?) 

Della citazione di Valéry, Ghezzi ritiene non solo il valore profetico, ma anche il soggetto, inteso come prima persona sperimentale. Di nuovo: il signor Hyde non è che, letteralmente, lo sdoppiamento sperimentale del dottor Jekyll. Ed è forse per la stessa ragione che la scrittura di Ghezzi trova in un altro soggetto sperimentale uno dei momenti più intensi e commossi della raccolta. L’epilogo di un intervento per “Rolling Stone” (2008) vede protagonista il bambino Adelchi, spaventato dal rumore delle frecce scoccate dagli arcieri di pietra in La Mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone di Rob Cohen. Il figlio chiede al padre di uscire dalla sala e racconta un’altra visione, sonicamente opposta al rumore digitale assordante di La Mummia, quella del classico Universal di James Whale visto il giorno prima: «l’uomo invisibile non faceva paura, perché quando cadeva nel burrone il treno e tutti i passeggeri morivano non si sentiva il rumore» (p. 537).

Il pezzo in questione appare alla fine degli anni duemila e porta il titolo Cinemalinconie. Dopo aver trascritto il commento del figlio, Ghezzi padre aggiunge una constatazione struggente: «un giorno mi dirà cosa sente e pensa quando le orme dell’uomo invisibile appaiono sulla neve. O forse me lo sta già dicendo, e io avrò paura di non veder nulla passando davanti al prossimo specchio.» In un momento in cui la frontiera fra digitale e l’analogico appare divelta, un bambino addita al padre l’origine della paura e il suo possibile antidoto. Il genitore, questo soggetto sperimentale, non puo che temere (o sperare) di esserselo definitivamente inoculato e contemplare quest’ultima metamorfosi. 

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