Il demonio dell’iconologia / Jean-Claude Lebensztejn, Figure piscianti

16 Maggio 2019

Nel 2013 Jean-Claude Lebensztejn aveva raccolto in volume una serie d’interventi disparati (e alcuni inediti) che tracciavano un perimetro d’azione a prima vista difficilmente identificabile. Vi si trattava, fra l’altro, della punteggiatura di Lautréamont, delle diverse versioni di Perdita del centro dello storico dell’arte nazista Hans Sedlmayr, della magia dell’arte secondo Diderot. Osservando il sommario si poteva essere colti dalla stessa sensazione di spaesamento suscitata da un’ideale bibliografia completa dell’autore. Che cosa riusciva, infatti, a tenere assieme quelle pagine? Tutti gli scritti del volume erano riuniti esplicitamente sotto il segno degli “spostamenti” – Déplacements, appunto, il titolo del libro. Fra i testi si poteva scorgere un contributo, centrale, sul decorum, scaturito da una rilettura della lettera (novembre 1545) di Pietro Aretino a Michelangelo. Per le brevi: l’accusa a Michelangelo era di aver dipinto figure che avrebbero dovuto stare altrove – «in un bagno delitioso, non in un choro supremo si conveniva il far vostro». Da qui, in Mauvais lieu (p. 136 e sg.), Lebensztejn ripercorreva proprio le occorrenze e possibili accezioni di “decoro” in italiano. Baldinucci (1681) l’apparentava al verosimile, mentre il teorico neoclassico Francesco Milizia ne avrebbe fatto un sinonimo di convenienza e una necessità dell’architettura. 

 

Esiste un’architettura del buon gusto? La metafora non è oziosa. Passare da ciò che è decoroso al suo opposto: in fondo è una questione di spostamenti – appunto –, di passaggi, di frontiere. Questa è la topografia scientifica di Jean-Claude Lebensztejn, un autore che sulle soglie, sui parerga (cioè, secondo la rilettura kantiana di Derrida, su tutto ciò che è al tempo stesso parte dell’opera ed estraneo a essa) ha scritto pagine di una precisione encomiabile. Ricordiamolo: negli anni settanta e ottanta sono apparsi i suoi studi sulla cornice e sulla firma (racchiusi poi in Annexes – de l’Oeuvre d’art, 1999) che sarebbe auspicabile vedere tradotti, un giorno, in italiano. Da lì si dispiega una produzione scientifica, letteraria e di ricerca, cospicua e multiforme, un lavoro che vede nelle frontiere disciplinari e nei margini il suo territorio d’elezione. 

 

L’operazione compiuta con questo nuovo saggio, Figure piscianti, si palesa proprio a partire da un celebre spostamento. Citando la pagina del New York Herald (14 aprile 1917) su Fountain di Marcel Duchamp, Lebensztejn ritrova la questione centrale del decorum evocata più sopra. Fountain, l’orinatoio rovesciato, dovrebbe stare altrove, forse in un gabinetto, ma certo «il suo posto non è in una mostra d’arte». L’indecoroso Duchamp addita così nel ventesimo secolo qualcosa che in realtà non ha sempre assunto i tratti dello scandalo né tantomeno della perversione. La storia dell’arte è popolata di figure che pisciano – questo libro ne osserva le molteplici apparizioni e gli altrettanto significativi occultamenti a partire dal 1280 fino ad oggi. 

 

Jérôme Duquesnoy il Vecchio, “Manneken-Pis” (1619), Bruxelles. Ph. Wikimedia Commons.


Figure piscianti ha già ottenuto un certo successo in Francia (dove è pubblicato da Macula) e anche grazie alla traduzione americana per i tipi di David Zwirner. Scriverne ora, al momento della sua pubblicazione in italiano (UTET, 2019; traduzione di Rinaldo Censi), permette di notare come una buona parte dell’attenzione venga dal suo soggetto, considerato tabù per un saggio di storia dell’arte. In realtà Figure Piscianti dimostra paradossalmente il contrario, specialmente nei primi capitoli. Prendendo come punto di partenza la fontana del Manneken-Pis a Bruxelles (commissione del 1619 a Jérôme Duquesnoy il Vecchio), Lebensztejn imbastisce un’indagine minuziosa sulla circolazione e la trasmissione della figura del puer mingens. In questa prima fase, la ricognizione sul motivo e sulla sua manifestazione fisica (spesso come statua di una fontana) tende a rivelare e a commentare, confrontandole, le fonti letterarie. Nel dettaglio, particolare importanza è attribuita alla simbologia contenuta nell’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna (1499), e il sogno esoterico di Polifilo, del resto, così fitto di emblemi da decifrare, non può non essere il punto di partenza ideale per questa programmatica investigazione iconologica. 

 

L’urina abbonda proprio nel repertorio figurativo del Cinquecento, diventando una sorta di catalizzatore di fonti mitologiche e sapere alchemico. Le pagine dedicate a Lorenzo Lotto vanno lette in questo senso. L’epitalamio del Met (1525-1530) mostra una complicità giocosa, posta sotto il segno dell’allegoria. Il Cupido che col suo zampillo centra una corona di mirto prima di approdare al monte materno di Venere è un tentativo di figurare la fecondità. Negli stessi anni (1524) Lotto aveva sistemato nell’oratorio Suardi a Trescore un putto visto dal basso per fargli prendere di mira, col suo getto, l’acquasantiera. Tuttavia, nota Lebensztejn, il liquido non è dorato, bensì verde come il motivo vegetale che lo circonda – verde, soprattutto, «per analogia con il leone verde, la rugiada degli alchimisti» (p. 35). Gesto inappropriato? Forse, ma l’umorismo, il divertimento basso, non annulla il sotto testo alchemico: semplicemente, i due aspetti si mescolano assieme. 

 

Lorenzo Lotto, “Venere e Cupido” (1525-30), New York, Metropolitan Museum. Ph. Wikimedia Commons.


L’indecidibilità del genere – alla frontiera del comico e dell’allegoria – pare una cifra caratterizzante della rappresentazione dei piscianti. L’aveva ben compreso Erwin Panofsky, discutendo nei suoi Studi di iconologia uno dei disegni offerti da Michelangelo all’amico Tommaso de’ Cavalieri. Un Baccanale di putti alla sanguigna (ispirato direttamente dal Baccanale del rivale Tiziano, visto a Ferrara) sul quale non è possibile pronunciarsi chiaramente: il contenuto simbolico, se c’è, è difficile da spiegare. Non è una messa in scena della lussuria; il contenuto moralistico non si addice a Michelangelo. Forse, la messa in scena delle funzioni primitive rinvierebbe a una rappresentazione della vita animale, il grado più basso della scala neoplatonica. Nel disegno, in alto a destra, un putto piscia in una coppa, ma si direbbe che l’urina sia destinata a mescolarsi col vino con cui armeggiano i bambini circostanti. Così, chiasmaticamente, in basso a sinistra, un putto viene allattato dal seno penzolante di una vecchia satiressa, mentre un altro pare accingersi a defecare sulla sua coscia caprina. A Panofsky non era sfuggita questa copresenza delle funzioni più basse, ma aveva indicato le produzioni escrementizie con una perifrasi, senza additarle direttamente: «eating, drinking (and the opposite of both)». 

 

Il passaggio è puntualmente commentato da Lebensztejn ed è da qui, da quel che Panofsky non riteneva neppure di dover menzionare direttamente, che si esplicita l’operazione di Figure piscianti: concentrare il programma iconologico sul suo stesso rimosso. Tuttavia la radicalità del progetto non è esclusivamente relativa allo spostamento verso un oggetto “basso”, quale la minzione. Del resto il topos non è stato certo alieno alle preoccupazioni della storia dell’arte classica. Piuttosto, il sistematico accumulo di pezze documentarie, l’uso raffinato della letteratura secondaria, la meticolosità nell’analisi dei dettagli visivi (che arriva fino a calcolare, con la complicità di David Monteau, p. 64, la curva del getto di piscio nell’Età dell’oro di Jacopo Zucchi, agli Uffizi) offre ai lettori qualcosa di vertiginoso. L’analisi iconologica come atto interpretativo, nel sistema di Panofsky, doveva corrispondere a uno «studio del modo in cui […] le tendenze essenziali dello spirito umano sono espresse mediante temi e concetti specifici». Spostando lo studio verso il basso, Lebensztejn svela, in fondo, la parte maledetta dell’iconologia. Ed è indicativo che il dispiego di erudizione, uno sforzo eccezionale di ricerca e precisione documentaria, si faccia dapprima proprio sugli oggetti più classici, a ribadire cioè come tutto quell’armamentario teorico in fondo potesse essere facilmente riconvertito per trattare di quel che vi è – in apparenza – di meno nobile nelle tendenze essenziali dello spirito umano. 

 

Andy Warhol, “Oxidation Painting (in 12 parts)” (1978), Pittsburgh, Andy Warhol Museum © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc.


Sull’essenziale, del resto, Lebensztejn si pronuncia esplicitamente. «Nulla è da prendere più sul serio del riso e del disgusto», si legge in una delle poche dichiarazioni programmatiche del suo saggio (p. 84). Se il riso suscitato dall’urina pare immemorabile, il disgusto si rivela invece, nel corso della lettura, come relativamente moderno. Per sprazzi e frammenti s’inseriscono così, all’interno dei capitoli più eruditi, brevi considerazioni politiche sul rimosso dell’urina, una rimozione che ha «gradualmente annullato i numerosi usi, religiosi, pratici, magici, medicinali, un tempo attribuiti all’urina». Soprattutto, per quel che riguarda la storia dell’arte, il gesto di occultamento tematico, cioè lo spostamento della rappresentazione delle funzioni corporali nell’alveo dell’indecenza, rivela qualcosa di inedito. Forse non è più dal punto di vista del soggetto, del motivo, che si debbono osservare i piscianti. Jackson Pollock ne è l’esempio princeps. Questo «figlio di fattori americani del West, abituato a pisciare all’aria aperta» piscia anche, in senso figurato (ma forse non solo), sulle tele posizionate al suolo, siglando il commiato definitivo dalla pittura da cavalletto. Eppure l’epica del gesto del pisciante astratto si rovescia ancora una volta: ad Andy Warhol il compito di eseguirne la parodia.

 

Nei primi anni sessanta così come negli Oxidation Paintings della fine degli anni settanta, Warhol urina, lui stesso, su alcune tele, in un gesto di rivendicazione autoriale singolarissimo per chi ha saputo, altrove, delegare una parte importante della produzione artistica. Nel getto di piscio si ritrova una cifra stilistica e forse, sotto le spoglie della traccia ossidata, quasi una firma dell’autore. Ed è qui che le fantasie diuretiche raccolte da Lebensztejn si chiudono, nell’incontro eloquente fra il gesto artistico e la minzione. Un ultimo spostamento: in sede espositiva, sotto il calore dei riflettori le Ossidazioni di Warhol colano – piangono come pitture sacre. Un dettaglio non da poco. Per Aby Warburg, padre dell’iconologia e maestro di Panofsky, il buon Dio stava nel dettaglio. E in queste secrezioni allora? Difficile non vedervi il rovescio ideale del buon Dio che albergava nei dettagli – nel piscio che scorre attraverso la storia dell’arte si riflette il demonio dell’iconologia. 

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