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“Totò al Giro d'Italia”, 1948 / La voce della maschera
Eccettuato il fatto, rilevante solo per gli appassionati, che con Totò al Giro d’Italia (1948) il nome del divo si ritrovi iscritto direttamente nel titolo per la prima volta, il film di Mario Mattoli non pare godere di una considerazione critica simpatetica, né tantomeno benevola. Le recensioni d’epoca si fanno notare per una certa condiscendenza, punteggiata da sbalzi di delusione rispetto al quasi coevo, e più apprezzato, Fifa e arena. Non intendo qui analizzare tali fonti, ma soltanto investigare, brevemente, le ragioni della fascinazione che è possibile nutrire per questo oggetto bizzarro, a tratti certo sfilacciato, ma nondimeno curiosissimo – e forse non solo per ragioni personali.
Mirabile visione d’infanzia: non penso di aver tuttora superato l’impatto del bislacco assortimento di caratteristi, ciclisti (Coppi! Bartali! Bobet! Magni!), diavoli e bellezze. E che dire poi di quel gusto per la mise en abyme, o almeno per lo spericolato uso dei narratori interni (di profilo elevatissimo, per giunta, con il Dante di Carlo Ninchi)? La conciliazione dell’atmosfera surreale con il disvelamento della tessitura narrativa mi permetteva probabilmente di avvicinare Totò al Giro d’Italia, nell’immaginario di bambino, a Hellzapoppin’ (H. C. Potter, 1941), altro incontenibile godimento infantile. È qui che mi rendo conto dell’impossibilità di trattare il film come feticcio cinefilo. Piuttosto, appare oggetto di speculazione, forse oziosa, ma non necessariamente faceta.
Il problema sollevato dalle critiche d’epoca è di facile individuazione. Ci sono degli sportivi, dei corpi atletici, ma che vi si ritrovano costretti a recitare “appiedati”. Ma non c’è imbarazzo, al contrario regna piuttosto una forma di divismo divertito, e ironico: si pensi alla sequenza di Fausto Coppi che si presenta alla partenza di una tappa con un sigaro dalle dimensioni ciclopiche, sperando di giungere, attraverso l’imitazione, alle prodezze del professor Totò Casamandrei, ciclista inspiegabilmente imbattibile e fumatore inveterato.
C’è poi un corpo comico, quello di Totò, appunto, così poco incline all’agonismo, come conferma l’aneddoto del regista Mattoli: «Mentre i ciclisti erano abbastanza disciplinati (a loro piaceva correre presto la mattina), Totò non si alzava perché aveva cercato di stabilire come suo diritto quello di alzarsi tardi. Diceva che l'attore è abituato ad andare tardi a cena, tardi a letto, e la mattina non può alzarsi presto».
Infine, a completare un ideale trittico, c’è una terza tipologia di corpi in scena, quella femminile, che apre (dopo l’incipit dantesco) il lungometraggio. Totò si ritrova, infatti, nella giuria che presiede all’elezione di Miss Italia (era l’ottobre 1948 a Stresa, e il principe de Curtis si trovava davvero nella giuria del concorso). In questa rozza tassinomia di corpi all’opera nel film di Mattoli, una sequenza in particolare – che si potrebbe definire marginale – pare degna d’attenzione, per la capacità di portare l’accento su una gestualità al tempo stesso inquietante e irresistibilmente comica.
Dopo essersi esercitato con il suo allenatore (Mario Castellani), nel vano tentativo di apprendere in fretta i rudimenti del ciclismo per vincere il Giro d’Italia (si ricordi che è questa l’impresa da compiere per ottenere la mano di Doriana, interpretata da Isa Barzizza), Totò rincasa nella notte, accompagnato da un coro di voci dissonanti che riecheggiano l’esortazione esasperata dell’allenatore: «Una maniera [per vincere] ci sarebbe… provi a vendere l’anima al diavolo!». Turbato e sedotto al contempo, Totò accelera il passo per essere infine accolto dal fidato maggiordomo. Ed è qui che, dopo un rapido scambio di battute, comincia a intonare “Una voce poco fa”, dal Barbiere di Siviglia.
L'aria di Rosina, come anche i meno melomani sanno, è universalmente considerata uno dei punti apicali del bel canto, un vero e proprio manifesto della coloratura. Adattata dalle sue molteplici interpreti, la cavatina passa dall’essere appannaggio del contralto al divenire repertorio del soprano (o del mezzo-soprano) in ragione di una popolarità immensa. E che cosa ne fa Totò? In principio vi opera un’inversione di genere, non solo, ovviamente, nel timbro, ma anche nel testo («Io sono docile, son rispettoso… »), per poi passare bruscamente, dopo essersi schiarito la voce, a mimare la prossemica di un’interprete femminile osservando il fraseggio vocale dalle tonalità sempre più acute. Tuttavia, non siamo dalle parti di quelle figure comiche che vedono nella congruenza dinamica e musicale un fulcro interpretativo, una prodezza d’attore (esempio lampante: Chaplin barbiere sulla Danza ungherese n° 5 di Brahms).
Nella sequenza di Totò, in questo corpo comico improvvisamente dotato di una doppia voce lirica, vi è invece qualcosa di difficilmente decifrabile, che rende la sequenza apparentabile forse a un Mistero, nel senso teatrale della parola. D’altronde, il soprannaturale, in questa crasi assurda di modelli letterari disparati (dalla prima cantica dantesca al Faust, per nominare i più significativi), è da subito parte integrante di Totò al Giro d’Italia – strano, anzi, che Ninchi/Dante e Catoni/Nerone non si siano concessi la boutade scopertissima: «Dai gironi al Giro».
Da dove viene questa voce? Qui sorge il primo interrogativo: dato che il maggiordomo pare sorpreso dal fare del padrone di casa è lecito pensare che Totò si stia adoperando in un esercizio eccezionale? È una scena frequente in casa Casamandrei? Ma queste non sono che domande meramente diegetiche, e presto dimenticate. Piuttosto, si osservi questo posticcio pizzetto mefistofelico – eppure il professore è ancora così “puro”! – mentre l’espressione del viso turbina incessantemente fra l’aggressione e il flirt, fra la solennità trionfale del baritono e l’isteria del soprano.
Totò oscilla dal maschile al femminile, manifestando in questo andirivieni frenetico, qualche cosa che pertiene tanto alla logica del mito (passare dall’uomo alla donna, e viceversa, come con un rapidissimo schioccare del bastone di Tiresia), quanto alla narrazione nevrotica (che il professor Casamandrei sia la versione partenopeo-lombarda – altra variazione deliziosamente ossimorica – del presidente Schreber?). Ignoro le fonti che abbiano informato il tutt’altro che sprovveduto Mattoli, o lo stesso Totò, e mi contento di questa eccezionale, diabolica performance, che pare concentrare in sé tutta una tradizione del comico. La maschera Totò, della quale, in questo senso, si è ampiamente dibattuto, si rivela qui in un prodigio fonografico: corpo “parlato” dalla registrazione operistica, medium instabile ma agilissimo della cavatina di Rossini. In queste smorfie che si fanno tramite del bel canto, si trova la strumentazione fisica della maschera e vi si rivela la sua funzione ultima: “Una voce poco fa”, portata da Totò, diviene, sardonicamente, una voce dal profondo.
È proprio questa relazione congiunta fra la maschera, il teatro e il mondo dei morti che Giorgio Agamben non manca di mettere in luce, in un recente e brillante scritto attorno al Pulcinella di Giandomenico Tiepolo, Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi. Nell’antica Roma «larva è tanto lo spettro del morto che la maschera e Petronio chiama con questo nome uno scheletro d’argento […] – una marionetta, dunque, una specie di Pinocchio». Ne consegue che «il teatro – almeno a Roma, ma forse dovunque – implicasse una relazione con la sfera di morti, che la scena fosse una porta da cui affioravano i morti». Non riesco a non pensare, osservando Totò al lavoro in questa sequenza operistica, che la sua stessa maschera abbia come funzione di farsi viatico per l'oltretomba. E non è forse un caso, allora, che il tutto avvenga in questa singolare sincronizzazione fonografica, dove la maschera si lascia portare dal canto registrato in precedenza. Il confronto – o meglio l’alleanza – fra la maschera e il disco, in ragione di questo legame stringente con gli inferi, pare qui inevitabile.
È la sequenza finale, con la sua ripresa della stessa aria, poi rapidamente accantonata in favore di uno stravagante arrangiamento canoro dell’ouverture del Barbiere, a fornire la possibile conferma di queste intuizioni. Vi ritroviamo Totò (sbarbato), circondato da tutti i ciclisti che sono riusciti, grazie all’aiuto della sua mamma, a sconfiggerlo all’ultima tappa, una volta rotto l’incantesimo diabolico che gli avrebbe fatto vincere il giro (e perdere l’anima). Il telefono squilla, il “buon diavolo” Pippo Cosmedin (Carlo Micheluzzi) porge la cornetta al padrone di casa. «Una voce poco fa nel telefono squillò»: si tratta dei risultati della corsa. A questo punto s’imbastisce un coro divertito attorno al destino imprevedibile della maglia rosa, «quella cosa che mai non riposa».
La sistemazione smaccatamente teatrale dei convitati non pare dovuta solo a mere esigenze sceniche, e lascia intravvedere un elemento di scenografia non irrilevante. Sul lato sinistro dell’inquadratura, posto di sbieco vi è una tavola imbandita, con calici di cristallo, libagioni e vivande. Gli ospiti hanno appena terminato il banchetto? Si tratta forse di un rovescio parodico dell’Ultima Cena? (Come Hitchcock nello stesso 1948 allestisce, sotto altri auspici, in Nodo alla gola?). E se il tavolo non fosse tale, ma piuttosto una cassapanca, o ancora un sepolcro? Sempre Agamben ricorda come Pulcinella sia ritratto, nell’antiporta del Divertimento di Tiepolo, nell’atto di guardare il suo stesso sepolcro: «Egli vive accanto alla sua morte, è in luogo della sua morte, forse, il sepolcro che contempla non è né vuoto né pieno: Pulcinella è, insieme, dentro e fuori di esso».
Osservo gli ultimi, meccanici gesti della marionetta Totò, mentre passa ancora dai vocalizzi acutissimi ai toni più gravi, prima corrucciato poi sbeffeggiante, con un’aria impertinente, il volto che pare teatro di una battaglia dei contrari. In questo esercizio canoro e mimico è difficile non vedere la consapevolezza fondamentale di un corpo che non è mai stato umano. E quando il carrello finale si avvicina al suo volto estatico a fianco di quello di Isa Barzizza, ho l’impressione di osservare, mentre la scritta “Fine” appare in sovrimpressione, non certo la soddisfazione del seduttore Casamandrei, ma l’ultimo sguardo, vacuo e oltreterreno, di una maschera che, per ragioni oscure ha scelto di farsi, almeno per la durata di un lungometraggio, uomo.