Tolkien conservatore? No grazie

12 Novembre 2023

È corretto definire Tolkien un ‘conservatore’? Sembrerebbe una domanda scontata. Secondo una vulgata diffusa, non c’è dubbio che Tolkien fosse un tradizionalista, un reazionario, o più semplicemente un uomo con un atteggiamento ‘conservatore’ sulla politica, e sulla vita in generale. Tolkien è spesso descritto come fosse un gentiluomo di campagna, affezionato al mito della ‘Vecchia Inghilterra’; un paladino dell’Occidente e dei suoi ‘valori’, dominato dalla nostalgia di una perduta società cristiana e dal rimpianto per la cultura medievale, da recuperare e ‘restaurare’ appunto con la sua “epica inglese” (cf. Lettera 180). Ovviamente c’è del vero in queste narrazioni, ma come sapeva Chesterton ogni frammento di verità rischia di diventare un errore se viene esasperato e separato dalla totalità della verità, che nel caso di Tolkien è molto più complessa, ampia e profonda. 

Nonostante il termine fosse già in uso comune al suo tempo, nel ricco epistolario tolkieniano troviamo in realtà solo due occorrenze del termine ‘conservative’: in un caso (Lettera 294a) è usato da Tolkien per segnalare la propria identità cattolica nel dibatto conciliare (Lettera 144), nell’altro per riferirsi alla posizione degli Elfi di Rivendell (i ‘conservatori’ per eccellenza come vedremo), da distinguersi sia da quella “distruttiva” del satanico Sauron che quella “povera” di Tom Bombadil, che ha rinunciato a qualunque tentazione di controllo (in contrasto alle prime due).

Per essere precisi, dovremmo considerare separatamente queste due occorrenze, e affrontare la questione del conservatorismo da due punti di vista distinti, (1) l’uomo e (2) l’opera, e cioè (per usare termini chiave della poetica tolkieniana) (1) il punto di vista ‘primario’ (o reale, biografico) e (2) quello ‘secondario’ (o sub-creativo, interno alla finzione letteraria). Questa distinzione è d’obbligo: per Tolkien la grande letteratura non è mera espressione del pensiero del suo autore, o il prodotto di un suo progetto intellettuale.
Innanzitutto, come ripeté ostinatamente, il suo lavoro creativo aveva origine in una pura e gratuita ricerca estetica, e soprattutto linguistica. Le storie di Tolkien si svilupparono infatti a partire dalla creazione linguistica, un “vizio segreto”, che aveva come scopo il “suo piacere personale” (Lettera 144). Come scrisse in risposta ad una recensione sul New York Times (Lettera 165) Il Signore degli Anelli non era altro che “un saggio di linguistica estetica … che non trattava di nulla se non di sé stesso”.

Tolkien
 

Sul piano narrativo la dimensione ‘euristica’ ed ‘estetica’ del lavoro creativo di Tolkien si riflette nella sua percezione di non star inventando nulla ma semmai che scrivere era per lui “scoprire”, “riconoscere”, “fornire un resoconto”, aspettando “finché mi sembra di sapere cosa è successo veramente. O finché non si scrive da solo” (Lettera 180, cf. also Lettera 91). Per questo Tolkien dichiarò di non avuto “nessuna intenzione particolare, cosciente e intellettuale in alcun momento” (Lettera 163) nello scrivere Il Signore degli Anelli e che quindi poteva benevolmente accettare le diverse interpretazioni dei suoi lettori, anche se non coincidevano con la sua, con l’unica eccezione delle letture allegoriche. La famosa antipatia di Tolkien per l’allegoria è anch’essa radicata nella sua aversione a qualunque riduzione della sua opera a ventriloquo di idee, valori, dottrine autoriali. Semmai l’autore è uno ‘strumento’ (Lettera 328), scelto per tradurre in imperfetta parola letteraria qualcosa che “non ha nulla a che fare con lui” (Lettera 163n), e trascende qualunque sua intenzionalità, e può dunque generare in lui stupore ed amore. Non a caso la metafora che Tolkien usò per descrivere il rapporto con il proprio romanzo è quella della donna partoriente (Lettera 263 “le doglie del parto”) che dà alla luce un “figlio che non gli appartiene” (Lettera 328).

Per Tolkien l’opera non può essere identificata con l’autore anche in un altro senso: il mondo del Signore degli Anelli integra tanti personaggi con visioni molto diverse tra loro, e nessuna di questa coincide con quella dell’autore. A proposito del personaggio dell’Ent Barbalbero, per esempio, Tolkien sottolinea che si tratta di “un personaggio della mia storia, non io; e sebbene abbia una grande memoria e una certa saggezza terrena (…) ci sono molte cose che non sa o non capisce.” (Lettera 153).

Fatta questa debita distinzione, mettiamo alla prova il conservatorismo di Tolkien, sul piano primario/biografico (brevemente) e poi secondario/letterario.

1. Tolkien uomo ‘conservatore’

Al di là della sua occasionale auto-identificazione come ‘cattolico conservatore’, membro di una ‘minoranza reazionaria’ (cf. Lettera 52), il conservatorismo di Tolkien sembra essere suggerito innanzitutto dalle sue antipatie per il socialismo (Lettera 194a) e qualunque tipo di ‘pianificazione’ in generale (Lettera 181), e più precisamente per i comunisti spagnoli durante la guerra civile (Lettera 83) e per quell’“assassino assetato di sangue” di Stalin, inviso a Tolkien anche al tempo della conferenza di Teheran (ibidem); e inoltre, e forse più importante di tutti, da quell’esplicito disprezzo per l’ideologia progressista, attaccata nella sua poesia Mythopoeia: “Non marcerò con le vostre scimmie progressiste, erette ed evolute. Innanzi a loro s’apre lo scempio nero a cui son condannate a men che Dio arresti un tal progresso”. 

Queste osservazioni sono però controbilanciate da tanti elementi contrari che mettono in discussione qualunque interpretazione univoca e semplicista: tra questi il dileggio di Churchill, ‘grandissimo ruffiano’ (Lettera 53), l’ostilità verso l’Impero britannico (ibidem) e l’imperialismo anglosassone in generale (Lettera 100). Si potrebbero poi anche citare il netto rifiuto dell’antisemitismo e del razzismo (Lettere 29 e 30), non scontato nella sua epoca, che contribuirono a far fallire il progetto di una traduzione dello Hobbit in tedesco.

Anche in campo religioso il conservatorismo di Tolkien è problematizzato da commenti contro tendenze teologiche reazionarie (“immoderate”, Lettera 254a) e soprattutto dal suo rifiuto per qualunque posizione di passatismo religioso, dato che la Chiesa “non è stata concepita (…) per essere statica o rimanere in una perpetua infanzia; ma per essere un organismo vivente (…), che si sviluppa e cambia” (Lettera 394). Non è un caso che Tolkien fosse stato cresciuto nella comunità oratoriana di Birmingham fondata da John Henry Newman, autore di un saggio fondamentale sullo “sviluppo della dottrina cristiana”, e ormai riconosciuto come uno dei grandi profeti e maestri del Concilio Vaticano Secondo.

Sul piano più strettamente politico ancora più indicativo è un passo dalla Lettera 52, che avrebbe bisogno di un commento ben più articolato: “Le mie opinioni politiche si orientano sempre più verso l’Anarchia (intesa filosoficamente, nel senso di abolizione del controllo e non di uomini con i baffi e le bombe) – o verso la Monarchia “incostituzionale”.

Dovrebbe bastare questa rapida panoramica per capire come Tolkien sia difficilmente riducibile ad un’etichetta, e come il concetto di ‘conservatore’ al massimo può descrivere solo un aspetto di una complessa personalità, il cui l’unico tratto dominante sembra essere l’ostilità verso qualunque progetto egemonico (anche in campo letterario).

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Resta il fatto però che almeno sul piano esistenziale il conservatorismo tolkieniano sembra essere confermato dalla pervasività di quella che si potrebbe definire come ‘narrativa del declino’: una visione già tipica del mondo classico, da Esiodo in poi, incentrata su un inevitabile processo di decadimento, da un’archetipa età dell’oro a un presente corrotto. Nelle lettere tolkieniane possiamo intravedere questa narrativa nei riferimenti a un Eden anelato da ogni uomo (Lettera 96), nella sua proclamata maestria nell’evocare “il senso straziante di un passato svanito (Lettera 91), e nella sua visione della storia come una “lunga sconfitta” (Lettera 195), espressione che nel Signore degli Anelli è significativamente attribuita alla dama elfica Galadriel. A questo punto è però tempo di lasciare il piano primario ed addentrarci nel mondo secondario di Tolkien, ancora più complesso della personalità da cui ebbe origine.

2. Il conservatorismo nella Terra di Mezzo

Certamente la ‘narrativa del declino’ è presente nell’opera tolkieniana, insieme a un atteggiamento ‘conservatore’: se la storia è un declino inevitabile, non c’è attività più nobile che conservare o nei migliori dei casi restaurare valori del passato. Questa visione è presente in Tolkien, ma non è l’unica: semmai, si tratta di una visione parziale, nel senso etimologico, una parte all’interno di un mondo più ampio. In Tolkien il conservatorismo è infatti ‘focalizzato’, si direbbe in termini narratologici. Il focus a cui mi riferisco è quella degli ‘elfi’, i ‘conservatori’ per eccellenza, il cui motivo principale appunto è quello di “prevenire o rallentare il decadimento (cioè il ‘cambiamento”, percepito come cosa deplorevole), la conservazione di ciò che è desiderato o amato” (Letters 131). Il conservatorismo elfico traspare nella loro ossessione per la memoria, nella loro tipica tentazione “imbalsamatrice” (Lettera 154), nello sforzo di preservare l’“età dell’oro” in appartati loci amoeni, tra cui soprattutto la terra senza tempo di Lórien (appunto “il Bosco d’Oro”), il cui status è garantito dal potere ‘conservativo’ dell’anello di Galadriel.

Gli Elfi sono certamente i personaggi più caratteristici del mondo tolkieniano, e quelli da lui più amati, oggetto della sua immaginazione creativa fin da ragazzo. Allo stesso tempo – e questo è il passaggio fondamentale – Tolkien non condivide completamente la posizione degli Elfi, che “non sono del tutto buoni o nel giusto” proprio perché “cercavano di fermare il cambiamento e la storia” (Lettera 154). Per Tolkien il conservatorismo elfico, per quanto comprensibile, rivela una Weltanschauung “parziale” e imperfetta, dato che “il mero cambiamento in quanto tale non è rappresentato come ‘male’: è lo svolgersi della storia e rifiutarlo è ovviamente contro il disegno di Dio. Ma la debolezza elfica è, in questi termini, quella di rimpiangere naturalmente il passato e di non essere disposti ad affrontare il cambiamento (Lettera 181) 

Secondo Tolkien, i cambiamenti portati dal tempo, per quanto drammatici e traumatici, non sono quindi catastrofi da evitare o da deplorare, ma piuttosto “la legge del mondo sotto il sole” (Lettera 131), cioè il misterioso svolgersi della Storia, da abbracciare con speranza e coraggio. Cercare di arrestare questo svolgimento, rifiutare di impegnarsi nel cambiamento, è una tentazione da superare; non a caso la redenzione degli Elfi nel Signore degli Anelli segue la loro accettazione di rinunciare al potere dei loro Anelli e accettare lo sviluppo della storia, come vediamo nel caso di Galadriel che alla fine del romanzo abbondonerà la sua amata Lórien.

Nella grandiosa visione tolkieniana non c’è spazio per l’idealizzazione di alcun particolare, e infatti anche gli hobbit (altri personaggi ‘conservatori’ per natura) “non sono una visione utopica, né sono raccomandabili come ideale nella loro epoca o in qualsiasi altra. Essi, come tutti i popoli e le loro situazioni, sono un incidente storico (…) e, a lungo termine, sono temporanei. Non sono un riformatore né un “imbalsamatore”! (Lettera 154).

Lettere Tolkien

3. Conclusioni: tra mondo primario e secondario

In conclusione, Tolkien certamente accoglie l’atteggiamento conservatore nella sua opera, ma la integra in un quadro più ampio, focalizzandola attraverso personaggi “parzializzati” all’interno di una Totalità che è superiore alle parti. All’interno del grande mosaico tolkieniano le singole parti sono accolte senza censure (e questo spiega anche la diversità dei suoi lettori, che trovano nella sua opera una varietà di accenti e sensibilità) ma al contempo nessuna di esse può essere idealizzata o esasperata. La parte degli Elfi ha certamente una posizione di rilievo, anche perché riflette una dimensione importante della complessità personalità tolkieniana, ferita dalla perdita precoce dei genitori, dall’orrore della Prima guerra mondiale e, in generale, dal trauma della fine catastrofica della Belle Époque, che tolse a un’intera generazione “il senso e l’immaginazione di qualunque sicurezza” (Lettera 306).

Ma se la tentazione conservatrice era certo un elemento della sensibilità tolkieniana, sarebbe un errore identificarla con la totalità della sua esperienza, e ancora più della sua opera, entrambe temperate da sentimenti opposti, da una visione più ampia della storia. Infatti, scrive Tolkien in uno dei momenti più bui del Ventesimo Secolo: “una piccola conoscenza della storia ci deprime con il senso dell’eterna massa e del peso dell’iniquità umana: vecchia, antica, tetra, infinita ripetitiva immutabile incurabile malvagità. (…) E allo stesso tempo si sa che c’è sempre il bene: molto più nascosto, molto meno chiaramente percepibile, che raramente irrompe in bellezze riconoscibili, visibili, di parola o di azione o di volto (...) (Lettera 69).

Tolkien considerava dunque “parziale” anche la propria naturale inclinazione conservatrice, anch’essa esorcizzata e trascesa all’interno della sua opera letteraria. Alla radice della potenza narrativa tolkieniana c’è proprio questa ampiezza e profondità di visione, che trascende qualunque idiosincrasia autoriale e resiste a qualunque possibile riduzione e stereotipo. Questo spiega anche come mai l’unico approccio legittimo a Tolkien sia quello aperto alla complessità, diversità e polarità, che solo la grande letteratura è capace di creare. 

Giuseppe Pezzini è Fellow al Corpus Christi di Oxford, e membro fondatore di un research network su Tolkien dell’Università di OxfordÈ Tolkien Editor per il Journal of Inklings Studies e autore di una monografia sulla teoria letteraria di Tolkien, in uscita per Cambridge University Press nei prossimi mesi.

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