Toti Scialoja: diario di un pittore
Si conosceva il Giornale di pittura di Toti Scialoja grazie a una prima selezione di quelle pagine di diario curata dall’autore stesso e uscita per gli Editori riuniti nel 1991 con la prefazione di Gillo Dorfles. Nel corso di questi trent’anni quel libro ha partecipato come poco altro alla ricostruzione di una certa sensibilità nell’arte italiana postbellica, confluendo in un riassetto storiografico che ha avuto come fonte di pari importanza solo le carte di Carla Lonzi.
Ancor maggiore, non è difficile prevederlo, l’impatto della monumentale edizione Quodlibet uscita ora. Il materiale è più che raddoppiato e copre l’intero decennio di scrittura (1954-1964): edizione monstre di oltre seicento pagine filologicamente ordinate da un team di curatori (Maria De Vivo, Laura Iamurri, Onofrio Nuzzolese, Angelandreina Rorro) e chiuse da un indice dei nomi che – volendo partire dal fondo – costituisce il più nitido indicatore della peculiare posizione di Scialoja. Per fare solo un esempio, viene fuori il profilo di un artista romano che tra anni cinquanta e sessanta, tra furibonde e un po’ sterili polemiche tra astrazione e figurazione, formalisti e realisti, non fa mai il nome di Renato Guttuso e quasi mai quello di Venturi o di Argan.
È che la sua testa e i suoi pensieri volano altrove. Scialoja ragiona sulla pittura attraverso la pittura, non attraverso i sistemi della critica o i paraventi ideologici. Ha in uggia i moralismi dell’Italietta alle vongole; pensa piuttosto allo spazio di Paolo Uccello o al colore di Tiziano; ammira Alberto Burri perché se lui se ne fotte del pennello e delle retoriche connesse («La pennellata è il modo tradizionale della pittura intesa come tecnica riproduttiva; distrugge la presenza della materia di superficie perché riduce tutto il tangibile e visibile ad un unico metro», e tanti saluti alle pagine ampollose di Brandi – altro fantasma piuttosto deriso tra queste pagine).
Tra Biennale 1954 e cruciale 1956 (Mondrian a Milano e Roma, più ancora che i carri sovietici a Budapest) Scialoja intensifica i suoi ragionamenti. Sono elucubrazioni di un quarantenne desideroso di fare i conti con un’intera tradizione europea vissuta perlopiù di riflesso: «questa mia faticosa storia di pittore – scrive – è inevitabilmente legata alla mia storia di uomo, di adolescente antifascista che aveva vent’anni sotto l’“impero”». Impressionismo, Cézanne, cubismo, i surrealisti dell’infelice passaggio veneziano, l’astrazione geometrica. È insofferente di grafismi, scritture e gestualità “autre”, come delle crosticine dell’informel – le considera «un grande compiacimento di sé, una golosità squisita, un immobilismo da nobiltà decaduta, una malinconia da narcisi invecchiati». Sogna per sé misure ampie, ambisce a un fare grande, impregiudicato, che aggredisca lo spazio. Scrive, già nel 1954, qualcosa che appare come una pietra tombale per tanti realismi: «da quando ho cominciato a dipingere lo spazio e non più nello spazio, il senso esaltante di sentirmi nella realtà».
Scialoja lascia sullo sfondo i grandi vecchi. Morandi «mio primo maestro», De Chirico, Carrà sono evocati a guisa di ectoplasmi, gloriosi relitti di una storia trascorsa ma ora irricevibile. Guarda piuttosto agli americani, com’è ovvio, iniziando da quelli che passano per quella magnifica e assolata Roma da vacanza (una volta però compare la neve). Conrad Marca-Relli gli parla di Pollock, De Kooning e Kline, che lui un po’ da tenero provinciale li chiama già «Jackson, Bill e Franz». Però così mette a verbale: «il loro individualismo si esaspera in una incessante ricerca del nuovo, dell’inedito, del mai visto dell’assoluto originale. Essi corrono all’impazzata, come dannati, e non possono conoscere sosta ma solo perpetuo caos e convulsione».
A se stesso confida la catastrofe malinconica data dal torpore romano e dal sonno cattolico. Serve un reagente. A un certo punto Ettore Colla riceve una telefonata in cui Pollock biascica qualcosa circa un passaggio in Italia; loro farneticano di serate da trascorrere insieme sui colli di Frascati, poi però non succede nulla. È uno scherzo che col suo inglese Piero Dorazio tira loro. Ma l’anno dopo Scialoja se ne va davvero in America. La porta d’ingresso è quella usata da quasi tutti della comunità italoamericana. Il pittore Marca-Relli, lo scultore Costantino Nivola, la gallerista Catherine Viviano; una faccenda che meriterebbe una storia a sé.
Nel viaggio di ritorno stende un riassunto frettoloso di idee e impressioni, «prima che dileguino». Ne viene fuori un dattiloscritto, e questo un po’ colpisce. Un pittore insomma che se ne sarebbe andato a New York portando con sé la macchina da scrivere. Chissà se le cose siano andate davvero così – queste in fin dei conti sono minuzie filologiche – ma piace pensare a Scialoja che già pensa al suo secondo mestiere.
Le riflessioni sul soggiorno americano scandiscono settimane e mesi successivi, in un intreccio esuberante e inquieto, irriducibile a sintesi. Ma sarà il caso almeno di menzionare i ragionamenti su Gorky e Calder, prima ancora che l’ammirazione per Pollock e De Kooning; e lo studio fondamentale condotto su Mondrian prima e su Rothko poi (un Mondrian molle, lo aveva definito una volta Briganti, mi pare). Chiarezza, essenzialità, economia. «La pittura – la pittura vera – non è mai stata altro che pittura pura. Non significa niente. È solo intensità».
Dietro gli esiti dello Scialoja pittore vi è la salda convinzione di volersi inserire in una storia europea prima e americana a quel punto. Tali le ragioni uniche della modernità. C’è un appunto del luglio 1959 in cui lo riconosce con molta chiarezza: «La mia disgrazia in Italia deriva da questo: che io sono moderno. Ora la pittura moderna, cioè la pittura europea della prima metà del Novecento è stata questa raccolta e continuata a New York, e la mia pittura è americana in questo: che è veramente ed ancora attivamente europea. La mia pittura è europea secondo la ripresa e ripetizione americana, cioè secondo quell’unica scuola che ha saputo veramente intendere e raccogliere la visione di Kandinsky, di Mondrian, di Mirò, dell’automatismo psichico».
Difficile dire le cose in maniera più semplice e conseguente, e pazienza se qualche corifeo/a della global art history invocherà qui un insopprimibile rigurgito di autocoscienza bianca, maschia e (appunto) europea. Tutti quelli/e sono piuttosto invitati alla lettura di tante sugose pagine dove le ragioni della storia e il rovello di esistenze che non dovremmo avere la presunzione di ricomprendere nelle categorie attuali lasciano spazio a questioni forse più frivole – ma cos’è poi la storia dell’arte contemporanea o la critica d’arte senza il pettegolezzo?
Così trapelano piccole e grandi invidie, gelosie, ribaltamenti di fronti, balzi repentini: essendo ogni diario luogo della verità confessabile come della mistificazione possibile. Ecco allora che mentre Scialoja si confronta con un affranto Leoncillo, che non sa ancora come uscire dal “realismo” delle sue ceramiche policrome («un po’ fricassea, un po’ peperonata», secondo il cattivissimo Longhi), lascia cadere un giudizio un po’ così su Afro, sua «la gran bontà di certi cani intelligenti che dimenticano subito le busse», per poi virare sul pruriginoso. Afro e Marca-Relli che tornano dall’America, «dove han fatto vita comune per sei mesi danno uno spettacolo penoso di stupidità, vanità, grettezza comportandosi come signore rispettabili, tenendo le distanze, graduando i rapporti, parlando solo di denaro e di automobili di gran lusso». C’è anche questo: un pittore per tante buone ragioni ammirevole come Afro appare qui come inconsistente e passivo, «incapace di giudizi e di impegno morale, senza memoria del passato, senza futuro, in un presente fatto solo di trasparenza». Si può anche non essere d’accordo con questo giudizio e ritenere che sia stato dettato da invidia o malafede. Ma sono parole che fra le mille dai toni dolciastri e, queste sì, inconsistenti e passive di tanta critica attuale, si leggono soltanto qui, nel flusso un po’ logorroico di una scrittura che fa capire quanto in realtà sia impervio pensarsi artisti moderni, anziché recitarne semplicemente la parte.
Sarà prima o poi il caso di studiare comparativamente i diari degli artisti italiani del Novecento come genere letterario a sé: accostare dunque al Giornale di pittura di Scialoja il Diario di Renato Birolli (Einaudi 1960: ma quante differenze!), per risalire più all’indietro ancora, al Giornale di bordo di Ardengo Soffici (Libreria della Voce, 1915), che sin dal titolo appare come modello possibile (e certo, all’epoca inconfessabile) di scrittura introiettata e rapinosa.
Il Giornale di Scialoja pittore finisce mentre inizia lo Scialoja scrittore. In realtà è lui a riscoprirsi poeta, grazie alle letterine illustrate che dal 1961 invia al nipotino. Non è un’altra storia, ma è una storia diversa. È stata raccontata molto bene da Eloisa Morra in Un allegro fischiettare nelle tenebre (Quodlibet, 2015). Dinanzi alla paura del reale, è bene fischiettare, come fanno i bambini al buio. E canticchiare nonsense, scoprendo che, proprio come la scrittura diaristica, sono una cosa facile e insieme difficile; sono enigma e risoluzione, cabinet privato e infine arena pubblica.
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