Umberto Boccioni. Vita di un sovversivo
Centinaia di opere tra dipinti, disegni, incisioni e sculture in una quindicina d’anni di lavoro, guerra compresa. Decine di mostre, compresa una tournée europea iniziata in gloria a Parigi e finita così così. Sei manifesti firmati a proprio esclusivo nome (uno dedicato alla scultura e uno rivolto ai pittori meridionali); tutti gli altri condivisi con il gruppo storico. Un libro di sintesi teorica, ma in realtà di oltre trecento prolisse pagine, pagato da Marinetti in persona. Esposizioni e “conferenze”, in realtà: performance di dubbio gusto, in un improbabile francese presso alcune capitali europee; molte altre pirotecniche serate perlopiù in provincia.
Testi teorici sui giornali dell’epoca (solo sulla mirifica rivista fiorentina “Lacerba” sono sette in pochi mesi). Poi vi sono molte altre noterelle e cronache artistiche. Diari giovanili e scritti letterari “in libertà”, a volte anche troppa. Polemiche un po’ con tutti, da Picasso a Guillaume Apollinaire, quando andava bene, a Francesco Cangiullo o Ricciotto Canudo negli altri casi.
Il dinamismo di Boccioni non sta soltanto in certi suoi quadri del periodo futurista. Sembra il dato essenziale di un’esistenza erratica, inizialmente perplessa, a volte un po’ randagia. Le acquisizioni documentarie degli ultimi anni, una storiografia un po’ meno agiografica e ora la biografia di Rachele Ferrario (Umberto Boccioni. Vita di un sovversivo, Mondadori) ne stabiliscono il profilo.
Giovane, è caricaturista dal segno abile e salace, ma non gli basta; ambisce all’arte alta, ma gli sfugge la misura. Concepisce spaventose allegorie di gusto wagneriano e nicciano. Aveva un’economia grafica da illustratore e un’eleganza liberty dono dei tempi: col futurismo perse una cosa e l’altra; guadagnò il sospirato lignaggio di artista e la soddisfazione di un “posto”.
Tuttavia, mentre Picasso diventò Picasso piazzando cinque puttane in pose classiche e col viso stravolto dalle maschere africane, Boccioni diventò Boccioni piazzando la figura matriarcale e pettoruta della madre davanti alla terrazza di casa, con il tram che passa dietro e chiamando il tutto “simultaneità”.
Eppure per Boccioni l’ingresso nel futurismo corrispose all’ingresso in un mondo maschile. Si identificò con una causa, acquistò amicizie virili che prima lamentava di non avere, uscì dall’isolamento e da un complesso di inadeguatezza. Il prezzo che dovette pagare fa l’accantonamento di una sfera affettiva verso il mondo femminile, che i taccuini documentano bene, e l’adeguamento, perlomeno esteriore, al marinettiano disprezzo per la donna.
Boccioni divenne finalmente adulto dopo qualche anno di futurismo. A un certo punto smise di dipingere o di modellare figure matronali. Prese un’amante, la cambiò con un’altra, e un’altra ancora; si profuse in carteggi sentimentali; mise da parte le ingombranti allegorie del “moderno” che la letteratura marinettiana aveva imposto; volle confermarsi pittore di figura e accarezzò l’idea di poter divenire quello che in fin dei conti ambiva sin dall’inizio: il ritrattista di una società.
“Il calore di un pezzo di ferro o di legno è ormai più appassionante, per noi, del sorriso o delle lagrime di una donna”, aveva spiegato Marinetti nel Manifesto tecnico della letteratura futurista. Boccioni provò a renderlo evidente con il dettaglio di una lamina di metallo ripiegata, sopra la spalla sinistra del busto della madre modellato in gesso.
Tuttavia, lo studio della cinetica del corpo umano comportava la perdita della psicologia, almeno quanto l’uso di materiali reali nelle sculture polimateriche (la “realtà bruta” opinata da Papini nella ben nota polemica) comportava il rischio di un esaurimento o di un “suicidio” dell’autore nella natura indifferenziata. Non era facile venirne a capo. Il problema è che intorno al 1913 nessuno aveva idea di cosa stesse diventando l’arte moderna.
Non di rado Boccioni diffuse segni d’un arcitaliano millantatore, suadente, mammone. Il suo temperamento oscillava tra egocentrismo e autocommiserazione. L’estetismo gestuale si alternò a una retorica scomposta. Talvolta rasentò vette d’irragionevole entusiasmo bipolare e una rissosità goliardica. Smagrito, tisico, forse sifilitico, sempre elegante, ci teneva alla piega dei pantaloni, e la mamma d’altra parte faceva la sarta, e ancora non si sapeva quanto questo ménage diventerà costitutivo di una certa flebile immagine dell’artista italiano del Novecento.
Due settimane a Parigi gli bastarono per credere, da buon provinciale, di aver capito il mondo, e di averlo tra le mani. Nelle lettere agli amici calava contumelie e battute sui difetti fisici, ma sdilinquì dinanzi a scrittrici e principesse. Non nascose il proprio opportunismo con chi era più ricco e famoso di lui – cioè molti, se non tutti. Sentimentale con le femmine, cazzottaro, almeno a parole, coi maschi. Paternalista con i più giovani, cui dispensò consigli di vita. La sua.
La partenza per la guerra gli apparve quasi come un periodo di riposo. E in un certo modo lo fu, in effetti. Ma come si sa durò poco, fino all’agosto del 1916.
Da pittore che conosceva un po’ le cose, Severini lo commemorò su «SIC», una di quelle magnifiche riviste del tempo, con poche parole. “Per lui, come per tutti i veri artisti che non si curano di cogliere il reale apparente, la realtà era l’espressione vivente di ciò che non cade sotto l’azione visiva.” Lo tratteggiò come pittore e scultore capace, al pari di critici e poeti, di condurre a una tesi unica, “parfois discutable”, gli elementi della propria cultura.
Per Severini l’opera di Boccioni aveva un valore immediato e si era pienamente realizzata nel presente. Non poteva costituire una promessa per il domani: “Perché il valore ‘qualitativo’ di Boccioni si esprime con forza nell’insieme della sua arte più spesso in modo indipendente dai sistemi ai quali purtroppo diede in misura un po’ eccessiva il suo appoggio. Tengo ad affermare che questa arte vale più di ogni sistema, e che il suo genio plastico ha trovato modo di affermarsi al di fuori di qualsiasi scuola o tendenza.”
Le parole sono apprezzabili, ma il suggerimento restò inascoltato. Dopo la morte prese infatti forma il mito di Boccioni. Solo nei manifesti ufficiali (gli oltre quattrocento dell’edizione procurata da Luciano Caruso) il suo nome comparve migliaia di volte, secondo solo a quello del fondatore, che però era ancora vivo e accompagnò il movimento fino alla sua patetica coda finale. Dalle stigmate di una morte falsamente eroica scaturirono profili mitopoietici.
Col tempo la sua breve vita fu intesa come precorritrice di cose molto diverse tra loro: lo squadrismo, il surrealismo, la tipografia moderna, l’aeropittura.
Fu ricordato come “creatore della plastica moderna”, predicatore di “modernolatria”, eccitatore di giovani, misogino par excellence, propulsore di esperienze oniriche. Fortunato Depero progettò una Galleria Boccioni a Milano. Incontrollabili le ricorrenze lessicali di “genio creatore” et similia. Parole che in certi anni contavano molto, ma che non aiutavano a capire.
Entro il genere della biografia romanzata tra referto operativo, diario di viaggio e taccuino amoroso il libro di Rachele Ferrario offre molti spunti di riflessione. E anche qualche osservazione. La lingua un po’ iperbolica di questo specifico genere letterario può essere certo utile per restituire un racconto capzioso. Non tutto però è sempre “capolavoro”; non tutto è sintomatico di qualcosa o profezia del genio a venire. Lettere, diari e memorialistica sono fonti molto utili, ma non sempre pienamente attendibili. Il profilo antropologico che ne esce resta tuttavia intatto: ed è un tracciato eloquente.
Boccioni fu un artista che offrì agli altri artisti un modello credibile di azione: se non pienamente autentico, però autenticamente carismatico. Boccioni imparò e insegnò che il pubblico era disposto a seguire chi dimostrava di credere fino in fondo a se stesso, e che era perfino disposto a pagare per ammirare qualcuno che saliva sul palco, o riempiva di opere una galleria d’arte, armato essenzialmente della propria incrollabile autostima.
L’azione in sé diventò il modello operativo dell’artista. Era un agire frenetico, bruciante, impulsivo, un’accumulazione primaria di stimoli e di risposte immediate agli stimoli. Era certo un modo di agire rischioso, che già anni fa la destra italiana ha fatto proprî, spingendosi a fare di Boccioni l’eroe di una atroce fiction (I colori della gioventù, Rai 2005). Ma l’attenzione quasi maniacale con cui Boccioni volle stare al passo dei tempi, misurarsi caparbiamente con gli accadimenti dei principali centri artistici, confrontarsi quasi ossessivamente con i più temibili competitori, comprendere la loro agenda e, per quanto possibile, provare a dettarla a sua volta, e costantemente rilanciare, è ancor oggi ammirevole.