Il sublime in America

28 Aprile 2024

A eccezione di un pugno di stucchevoli ritrattisti dell’alta società bostoniana, un “artista” nell’America di cent’anni fa era considerato poco più di un manovale e poco meno di un alcolizzato cronico. Il confronto tra Jean-Léon Gerôme e Thomas Eakins che Leo Steinberg presentò in Other criteria resta memorabile quanto impietoso.

Poi però le cose presero a cambiare abbastanza rapidamente. 

Se a fare da detonatore non fu l’esposizione dell’Armory Show, caduta troppo presto (1913) e in modi sensazionali per non andare molto al di là del mero successo di scandalo, ve ne fu un’altra, tenuta nella vecchia Europa, destinata a deplorare l’avanguardia – si tratta naturalmente dell’Entartete Kunst di Monaco di Baviera, 1937 – che paradossalmente riuscì nel risultato opposto, e cioè convincere gli americani a difendere, tra le altre cose, anche il primato di un’arte pura, non compromessa con cause di regime, paga della propria libera autonomia formale anziché ridotta, così Clement Greenberg, a «vessels of communication» e cioè a propaganda. 

E dunque, mentre in Europa opere di Nolde e di Klee, di Barlach e di Beckmann venivano quando andava bene vendute in Svizzera per finanziare l’industria bellica e quando andava male distrutte negli autodafé, negli Stati Uniti l’avanguardia si collezionava, si insegnava e si studiava. Di ritorno dall’Europa non pochi artisti, fotografi e cineasti seppero sfruttare i benefici del G.I. Bill per completare studi lasciati interrotti o per intraprenderne di nuovi. Pittori e scultori ottennero il titolo dalle School of Fine Arts e non pochi di loro guadagnarono lauree nelle Humanities. Era la prima generazione a raggiungere questo livello di formazione e di considerazione sociale. È dunque vero solo in parte, o comunque in modo piuttosto diverso rispetto al capzioso titolo, che New York abbia rubato a Parigi l’idea di arte moderna, come recitava la seminale monografia di Serge Guilbaut (recensita a dovere proprio da un artista, Thomas Lawson, su un «Artforum» di quarant’anni fa). 

Ecco, allora, che non sorprende osservare l’autorevolissimo Erwin Panofsky, il più ammirato e rispettato storico dell’arte tedesco del Novecento, riparato a Princeton dal 1933, l’Oppenheimer del metodo iconologico, a un certo punto impancarsi in una polemica con il pittore americano Barnett Newman.

Il pretesto era davvero tale (la presunta errata grafia del termine latino sublimis) e la risoluzione non priva di aspetti pedanti e oggi facilmente rubricabili per quello che erano – sterili polemiche accademiche. Se non fosse che in gioco vi era molto di più che il padroneggiamento di una lingua, come infatti spiega Pietro Conte nel volumetto che raccoglie i materiali di questa storia (Il sublime astratto, 2024). 

Ben di là dai toni puerili colpisce la sicurezza di Newman nella disputa con Panofsky: il suo argomentare volendosi collocare alla pari, senza timori reverenziali, fortificato oltre che da un’incrollabile fiducia nel proprio lavoro anche da quello status di accettazione sociale dell’arte d’avanguardia, e segnatamente dall’arte astratta, impensabile senza la mediazione culturale condotta vent’anni prima da critici (Greenberg), collezionisti (Guggenheim) e storici dell’arte (Alfred Barr). Tutte persone che avevano fatto il tragitto opposto rispetto a quello di Panofsky: dalla natia America alla vecchia Europa, per poi riportare queste esperienze entro le strutture di mediazione (musei, università, gallerie) rese formidabili dal primato economico di superpotenza industriale e militare: e pazienza se si inciampava nel latinorum. 

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Per il vecchio Panofsky in realtà si trattava, abbastanza semplicemente, di malcelata incompatibilità con i linguaggi della pittura moderna. Non soltanto la risoluzione astratta (un’idiosincrasia condivisa da buona parte della cerchia warburghiana, Gombrich in testa) che in fin dei conti depotenziava il fondamento stesso del metodo iconologico; quanto la volontà e il desiderio, equivocati a sterile presunzione, di rintracciare le proprie radici di artisti moderni, e in quei modi, nel cuore stesso della gloriosa elaborazione estetica europea.

Il sublime promulgato da Barnett Newman sin da un articolo del 1948 (The Sublime is now) non era soltanto il tentativo di smarcarsi da quella meccanizzazione del mondo raccontata da Lewis Mumford. Era anche la rivendicazione dell’eredità di una storia di artisti europei e liquidazione del loro fardello: un’ipotesi di rinnovamento di pura plasticità a fronte dell’incapacità di pervenire al sublime «dovuta al suo cieco desiderio di esistere all’interno della realtà sensibile» – cioè del mondo oggettivo della figurazione delle cose, per quanto stravolte dalle sensibilità dell’avanguardia.

Ci vorrà del tempo per tradurre le intenzioni in immagini, ma quello è quanto avvenne nel quindicennio successivo nel lavoro di Newman, di Rothko, di Clyfford Still. E quando si poterono vedere un po’ tutti, questi lavori, comparve un giovane storico dell’arte statunitense, Robert Rosenblum, che volle ragionarci un po’ sopra, tirando fuori questa categoria di «sublime astratto». 

Era in fin dei conti un modo per stabilire una possibile connessione con alcune grandi esperienze del romanticismo europeo, da Turner a Friederich, il cui confronto con le estese diafane campiture di colore degli americani era reso plausibile, anche se per l’interposta via di molte cautele («si rivela affine», «sembrano frutto», «sembrano celare», «non si può far altro», «sostanzialmente lo stesso»). 

Cautele che vennero meno nel programmatico volume con cui nel 1975 Rosenblum raccontò questa storia con un titolo divenuto memorabile (Modern Painting And The Northern Romantic Tradition: Friedrich to Rothko) e subito criticato da alcuni sussiegosi critici parigini per la formula sbrigativa che ricordava loro un volo intercontinentale: il che è vero. Ma era un viaggio che però andava fatto, un po’ come quell’altro viaggio, da Manet a Pollock, con cui Greenberg aveva aperto la storia del modernismo americano. 

Ma poiché in conclusione è sempre bene andare al di là delle polemiche, anche quelle condotte con Panofsky, è pur vero che di lì a poco, nell’ottobre 1962, la mostra The New Realist alla galleria di Sidney Janis orientò il tracciato dell’arte americana verso quella che tutti chiamano pop art. Tutto stava cambiando, ancora una volta. 

A fronte di quei new vulgarians painters cosa restava allora della rarefatta atmosfera del sublime? Cosa delle emozionanti spaziose partizioni colorate di Newman? 

La risposta è chiara: è il fondo eterno del trascendentalismo di Emerson e di Thoreau. Per rendersene conto, a quel punto, era necessario uscire dalle gallerie e raggiungere gli earthworks disseminati dai più giovani artisti lungo il suolo americano.

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