Tra cuore e cervello

28 Aprile 2014

Il governo del mondo


Nessuna delle strutture che l'umanità si è data oggi per decidere sul suo futuro ha una capacità di analisi e di rappresentatività – cioè di diritto della decisione – che veramente si riferisca agli individui e in particolare alle prossime generazioni. Con l'unica eccezione sul piano politico dell'Unione Europea, hanno tutte una base nazionale. Dato che i beni comuni globali che contano (energia, acqua, ambiente, le questioni di genere, quelle generazionali etc.) sono tutti sovranazionali ci troviamo oggi nella situazione di una crisi non governata. Lo vediamo nella finanza, nell'occupazione, nell'immigrazione. E nel caso della sicurezza alimentare: abbiamo un sistema che non funziona, l'abbiamo da trent'anni e continuiamo a non cambiarlo.


Il bilancio è palese: non abbiamo strutture di governance adeguate ad affrontare le sfide urgenti del presente e soprattutto quelle dell'immediato futuro. Peggio, con l'eccezione di qualche movimento di protesta, non ce ne accorgiamo nemmeno, non esiste un progetto alternativo.


I criteri che un sistema di governance internazionale dovrebbe rispettare dovrebbero essere evidenti: innanzitutto dovrebbe essere democratico. Uno è uno, come sancito dalla dichiarazione universale dei diritti umani che dice che siamo nati tutti uguali, cioè abbiamo tutti gli stessi diritti. Anzitutto dobbiamo convincercene: lei è convinta di avere gli stessi diritti di Obama? Io sono convinto di avere gli stessi diritti di Papa Francesco, dato che sono cattolico? Questo articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani è davvero qualcosa di sentito o si manifesta soltanto nella protesta?


Non possiamo delegare le decisioni a singoli gruppi. Se ci sono delle organizzazioni economiche che governano alcuni beni comuni globali, come i sistemi finanziari, che ritengono che ciò che conta sono la crescita economica e il reddito pro capite, devono dare i dati, i dati devono essere trasparenti, accessibili a tutti, in modo che sia possibile ragionare in maniera informata. Poi però devono essere altri a decidere se davvero vogliamo una crescita economica continua, o se per esempio vogliamo una migliore qualità della vita, o un maggiore indice di felicità – modelli che non sono basati sulla sola crescita economica.


Quindi dobbiamo considerare che ci sono dei limiti allo sviluppo, un altro pianeta non ce l'abbiamo. Non possiamo pretendere che ogni persona al mondo abbia diritto di fare una o due docce al giorno consumando duecento litri d'acqua, se quei duecento litri d'acqua moltiplicati per sei miliardi di persone non esistono.
Tre sono dunque gli elementi fondamentali: people (quindi democrazia), profit (cioè definire che tipo di modello economico vogliamo, di crescita, di partecipazione), planet (cioè i limiti del pianeta).

Modello Galtung, ad esempio


Per quel che riguarda il primo principio, gli esperti di democrazia del futuro hanno trovato dei modelli che si potrebbero sperimentare. Per esempio quello proposto da Galtung: un'assemblea che sostituisca o che si affianchi alle Nazioni Unite (rappresentativa soltanto dei governi), dove ogni rappresentante venga eletto dai popoli: ogni milione di persone, un rappresentante alla radice quadrata. Adesso alle Nazioni Unite abbiamo San Marino con 50mila abitanti che ha un voto e la Cina con un miliardo e trecento milioni che ha un voto. È chiaro che nessun condominio al mondo potrebbe funzionare su queste basi. Con un sistema alla Galtung il popolo italiano (60 milioni di abitanti), avrebbe sessanta rappresentanti alla radice quadrata, cioè 7.5-8; la Cina 33. Quindi avremmo un'assemblea dove i rappresentanti di Italia, Francia e Germania equivarrebbero a quelli della Cina. Questo è un sistema di bilanciamento: tutti i popoli con meno di un milione di abitanti dovrebbero associarsi per arrivare a un milione, alla radice quadrata fa sempre uno, e quindi anche i popoli piccoli sarebbero rappresentati.


È un modello, ce ne sono tanti altri: l'importante è stabilire che, se siamo tutti dipendenti, radicalmente dipendenti da questi beni comuni globali, dobbiamo avere dei sistemi di decisione davvero comuni, globali, e non delegati oggi al G8, domani al G20, dopodomani alla Banca mondiale o al Fondo monetario internazionale.

Inconsapevoli


Nelle grandi trasformazioni dell'umanità del passato la consapevolezza è stata condicio sine qua non senza la quale non si esegue il cambiamento. Si pensi al razzismo o al problema della violenza sulle donne. In questa materia purtroppo la consapevolezza non c'è. Perché in larga parte del mondo l'informazione è controllata dai governi e le persone si informano soltanto in una lingua. Inoltre l'informazione è sì disponibile oggi, ma non è facilmente reperibile: in rete si possono trovare miliardi di dati ma non organizzati in modo da rendere agevole comprendere i fenomeni.


Un'altra ragione dell'insufficiente consapevolezza è che non c'è una vera scelta da parte dei governi di investire in uno strumento fondamentale di questo cambiamento che è l'educazione: si continua a fare un'educazione basata sul passato, sulla storia. La storia è importantissima, poi però l'educazione deve ex ducere, tirare fuori le persone dall'ignoranza. Ex ducere non vuol dire alfabetizzare in un alfabeto, ma far capire che esistono altri 600 alfabeti e che esistono altre 600 culture nel mondo, altri modi di vivere insieme. Non si può continuare a tenere la differenza lontana, con delle muraglie, o prendere il resto del mondo a cannonate e usare il nostro Mediterraneo come una grande muraglia cinese.


Una cosa fattibile subito e che forse non costerebbe neanche molto è (un po' come un tempo si faceva con la leva militare) obbligare, o comunque incentivare fortemente gli individui, nel momento in cui diventano adulti a capire il mondo: ci vorrebbero delle leggi che non riconoscano la maturità, o almeno la laurea, se non si passa almeno un anno in un Paese diverso da quello in cui si è nati, possibilmente in uno più povero perché sono la maggioranza. Nel giro di un anno avremmo una nuova generazione in grado di capire tutta questa complessità.
Il problema è urgente, ma il senso di urgenza non l'ho trovato né nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, né nell'Assemblea, né nel G8, né nel Parlamento europeo. Io sono il primo nonno che può decidere che mio nipote non avrà spazio per vivere bene. Sono responsabilità enormi.

Imparare a gestire la conoscenza


La rivoluzione deve incominciare nelle scuole, perché non basta trasferire la conoscenza come si fa adesso, all'antica, sia pure con smart tv o tablet. La conoscenza è disponibile in Google. Quello che serve è saper gestire la conoscenza, comprendere la diversità, sapere analizzare le problematiche. È a questo che bisogna abituare i cervelli.


Se l'attuale specie umana è homo sapiens, cioè persona saggia, sapiente, dobbiamo imparare ad applicare quanto sappiamo, così da prenderci cura dell'umanità intera. E della prossima umanità. Da homo sapiens dobbiamo diventare homo sollicitus, cioè uomo, persona, umanità sapiens abbastanza, intelligente abbastanza da prendersi cura del proprio futuro.


In maggioranza i sistemi educativi di massa continuano a educare persone incapaci, inadeguate, impreparate a comprendere questa complessità. Così, nella confusione dei sistemi socioeconomici da cui derivano molte delle crisi che stiamo vivendo, la persona si trova persa, ed è ovvio che torni alle certezze di base: l'amore di mio papà, l'amore di mia mamma, l'amore per mia moglie, l'amore per i miei bambini. Si chiude nel privato, e non perché per principio non voglia tutto il resto, ma perché non capisce, non si trova a proprio agio. Allora le persone si trovano impreparate, e abbiamo il boom della depressione.


Esistono esempi alternativi: reti di formazione e gruppi di giovani in varie parti del mondo, dove l'innovazione, il thinking outside the box come si dice in inglese – pensare fuori delle categorie abituali – viene utilizzato come priorità. Ci sono sistemi universitari dove non importa stare in classe, o fare il compito, ascoltare la lezione, ma risolvere problemi; università online (attraverso i Moocs – Massive Online Open Courses, ndr) che già in questi primi tre anni di attuazione hanno un boom importante , dove un professore può fare una lezione non con 5mila persone (massimo successo di una volta) ma con 300-400mila persone che lo ascoltano. Questo permette poi di creare decine di migliaia di gruppi di lavoro tra i giovani che interagiscono sul blog o il forum di quella particolare lezione, tematica, o disciplina universitaria, e incominciano a lavorare tra di loro alla soluzione del problema. Questo cambierà, spero riuscirà a cambiare il sistema educativo nei prossimi anni: perché praticamente tutti, il settore privato, quello politico (alcune imprese e multinazionali globali già lo fanno) non chiederanno più il pezzo di carta, la laurea firmata, gli Yale, Oxford o Bocconi, ma andranno a verificare la conoscenza effettiva, la capacità di risolvere i problemi. È questa competenza che dovrà essere certificata, attraverso i gruppi di peers, dei compagni, dei conoscitori della materia.

Ho insegnato in un'università internazionale che si chiama Asian Institute of Technology, la seconda più grande università internazionale al mondo, dopo la United Nations University: siamo le uniche due università di proprietà di 60 Paesi, con professori da 90 Paesi, alunni da oltre 100 Paesi. Lì si vedono giovani che magari vengono da un villaggio isolatissimo di una minoranza etnica del Myanmar, che vivono in un campo di rifugiati al confine con la Thailandia, cui sono stati negati nazionalità e diritto allo studio, e che grazie a borse di studio internazionali frequentano un'università come la nostra. Succede spesso in aula che di fronte a un problema che per me è un rompicapo, questi improvvisamente vengano fuori con una soluzione innovativa. Perché per fortuna al mondo ci sono cervelli che non sono ancora stati strutturati nel nostro modo classico di pensare le cose. L'innovazione è fondamentale: di fronte a problemi nuovi ci voglio soluzioni nuove, non si può continuare a cercare nel passato.

Il sapere essenziale in un mondo globalizzato


Se sia stato giusto fare la globalizzazione o no è una discussione che non serve a nulla. Ormai, di fatto, il mondo è globalizzato. Però non è compreso globalizzato: in questo siamo diventati degli analfabeti. Mia nonna, che era analfabeta, nel suo paesino andava assolutamente tranquilla, sapeva dove stava il carbone, dove stava l'acqua potabile, qual era il medico migliore, l'avvocato meno pulito, il prete di cui ci si poteva fidare, dove si trovava la carne fresca di buona qualità eccetera. Cioè aveva una conoscenza  di tutto l'essenziale per la sua qualità della vita. Noi oggi questa conoscenza l'abbiamo perduta. Dobbiamo ricostruirla, dando alle persone degli strumenti per conoscere la globalità. E questo si chiama intercultura, interculturalizzazione, cioè comprendere un pochino quello che è diventato il villaggio globale. Ognuno di noi dovrebbe potervi girare con la stessa tranquillità e conoscenza che aveva mia nonna in una differente situazione. Questo sembra un sogno, in realtà è possibilissimo: perché a dover essere comprese sono cose semplici, come la differenza fondamentale tra una cultura a base individualista e a base di responsabilità personale come quella di origine cristiana rispetto a culture che hanno invece altri fondamenti filosofici, come la cultura buddista e in generale tutte le culture asiatiche – confrontare queste cose, capire la differenza ed essere entusiasti di questa differenza, invece di essere sospettosi come oggi siamo in gran parte. Questa ignoranza della diversità sta uccidendo l'Occidente, perché non capendo cosa sta succedendo nel resto del mondo reagisce in forma inadeguata. Pensiamo se domani il cambiamento del clima provocasse un'accelerazione della desertificazione o del riscaldamento globale nella fascia del Sahel o del Sahara – si tratta di una ventina di Paesi, quasi 200 milioni di persone che potrebbero non poter più vivere in quell'area. Li lasciamo morire tutti? Spariamo, come ha proposto un partito di pazzi in Italia, a tutti quelli che si avvicinano con i barconi?

Oltre alla cultura dell'innovazione e all'intercultura, la terza grande componente di un'educazione che possa trasformarci in homo sollicitus è – diciamo – ristrutturare il ponte scomparso tra il nostro cuore e il nostro cervello. Conosciamo praticamente quasi tutto ciò che è creato, ma lo amiamo troppo poco: amiamo troppo poco il pianeta, il resto dell'umanità, e alla fine, come dimostrano alcuni fatti di cronaca drammatica, amiamo troppo poco noi stessi. E questo distrugge (io sono biologo) il fondamento dell'ingegneria dell'essere umano, che trova la sua dopamina, il suo stare bene soltanto nello stare insieme. La socializzazione è la base della felicità.

 

Sandro Calvani è attualmente Senior Adviser on Strategic Planning, Mae Fah Luang Foundation, Bangkok.
Nel testo si fa riferimento all'ASEAN Center of Excellence on United Nations Millennium Development Goals (ARCMDG) presso l'Asian Institute of Technology (AIT) di Bangkok, centro da lui diretto tra il 2010 e il 2013.
In precedenza ha lavorato (in ordine cronologico) per Caritas (in Italia e a Bruxelles, come rappresentante delle ong italiane); World Health Organization, fondando il WHO Pan-African Center for Disaster Preparedness (Addis Abeba) e come direttore dell'area subsahariana (Brazzaville); per le Nazioni Unite come direttore dei programmi contro droga e crimine in Bolivia, per l'area caraibica, per il Sud-est asiatico e il Pacifico, e per la Colombia. Ha diretto il United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute e presieduto la Global Agenda Council on Illicit Trade (quest'ultima un'iniziativa del World Economic Forum).

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