Tutti profughi
Giovedì pomeriggio 15 dicembre, autostrada Bergamo-Milano, poi tangenziale est per immettermi sulla Milano-Genova: sono diretto a Pavia, dove si proietta “Piazza Garibaldi”.
Ascolto Fahrenheit, come faccio sempre quando sono in macchina, e cerco di capire meglio quello che è successo fra sabato 10 a Torino, il pogrom della Cascina Continassa, alle Vallette, e martedì 13 a Firenze, nei pressi del mercato di San Lorenzo, dove Gianluca Casseri ha ucciso Samb Modou e Diop Mor.
C’è Marco Revelli alla radio, è stato lui il primo a usare la parola pogrom sul Manifesto: nella sua voce, oltre l’amarezza e l’indignazione, avverto qualcosa di nuovo, un tono quasi spaventato, o forse smarrito, quello di chi ha speso anni per avvertirci dei rischi d’incendio, con tutta quella benzina distribuita dagli “imprenditori della paura”, e vede ormai alzarsi le fiamme fra le pareti di casa, la nostra. Devo ammettere di aver sentito un brivido scendere dalla nuca e fermarsi fra le scapole, per qualche secondo, come in cerca del suo posto.
Quel pomeriggio a Pavia, un mezzo disastro: pessima la proiezione, inadeguati i mezzi tecnici, risibili le scuse dell’organizzatore. Quello che però mi sconcerta di più è un commento sentito in sala, in mia assenza, durante la sequenza del film girata a Castel Volturno, dove eravamo andati per ricordare la strage di camorra del 18 settembre 2008: le parole riportatemi da persona degna di fiducia erano state “ma cosa c’entrano i neri con Garibaldi?”. In effetti, qualcosa poi nel dibattito viene fuori, frasi tipo “per voi forse un domani ci potranno essere pavesi congolesi, io però la penso diversamente…”, robe così.
Situazione sgradevole, come ho detto, e quindi fuga anticipata dalla città natale.
Mi ributto nella nebbia verso casa, riaccendo la radio. Reportage da Budapest, quella sera su Radio3 Suite: si dà conto delle ultime scellerate scelte del governo populista di Viktor Orban, della nomina alla direzione dell’ente teatrale di stato di un noto pubblicista antisemita. Il conduttore del programma si collega telefonicamente con Giorgio Pressburger, che vive a Trieste ma è ungherese di nascita, la sua voce sembra arrivare da molto lontano, un sussurro accorato: gli amici di Budapest, racconta, mi hanno dato una terribile notizia, qualcuno s’è preso la briga, notti fa, di defecare sulle scarpe di bronzo che ricordano le uccisioni di massa degli ebrei ungheresi sulle sponde del Danubio, avvenute fra l’autunno del ’44 e le prime settimane dell’inverno successivo.
Quel brivido pomeridiano fra le scapole comincia ad assomigliare ad un crampo: su quel memoriale voluto dalla città nel 2005 e realizzato dallo scultore Gyula Pauer, a trecento metri dal palazzo del Parlamento, ci avevo portato gli studenti anni fa… Che succede in Ungheria? Qualche giorno dopo avrei trovato conferme e aggiornamenti su Repubblica. Ma quella sera, tornando a casa nella nebbia delle strade di Lombardia, mi sono messo a fare propositi di divorzio da questi italiani (e ungheresi) che fanno sentire profugo e impaurito anche me. E con questi brutti pensieri, a notte fonda, arrivo a casa e mi metto a letto, senza pace.
La mattina dopo, però, il cielo è limpidissimo e la nebbia dissolta. Anche il crampo doloroso della sera prima è svanito. Bene, cosa chiedere di meglio per iniziare la giornata? Così rinfrancato, durante la lezione di storia a scuola, mi viene in mente Nicolò Amaglio, un amico di mia figlia, che da tempo assiste i profughi africani arrivati in Italia la scorsa estate dalla Libia in guerra. Erano stati smistati in tutte le province, ricorderete l’imbarazzante dibattito politico e mediatico, e in sessanta o settanta erano stati accolti in Valle Seriana, fra le montagne della bergamasca: a Cene, a Lizzola e a Fino del Monte. E’ qui che abita Nicolò che quest’autunno, ai primi freddi, ha messo in moto la raccolta di indumenti caldi per i gruppi di Lizzola e di Fino. Eravamo stati in molti a svuotare gli armadi, avevo poi saputo. Il governo d’altronde, tramite le prefetture, paga le spese di vitto e alloggio, di tutto il resto si disinteressa.
A Fino del Monte, che conta poco più di mille abitanti, non era detto che tutto andasse liscio, con questi ventidue africani a spasso per il paese senza niente da fare tutto il giorno e ospitati, ironia della sorte, all’Hotel Libia. Qualcuno ha mugugnato, naturalmente, ma quelli che si sono rimboccati le maniche hanno dato a tutti l’esempio giusto. Sono passati quasi tre mesi e il gruppo di nigeriani, ghanesi, somali, della Costa d'Avorio, Mali, Burkina Faso, Ciad, Gambia, Niger, Camerun più un sudanese del Darfur, è ancora qui. Ci sono anche due libici: si tratta di Aicha e Sara, le piccoline del gruppo, quattro anni la prima e un anno e mezzo la seconda. La speranza è di inserire Aicha nella scuola materna, ma è dura.
Chiamo Nicolò e mi faccio aggiornare: Aicha è partita con la mamma la settimana scorsa, adesso sono in Belgio. Sarà più semplice trovarle una scuola. Gli altri sono rimasti a seguire corsi di italiano e di informatica di base, pagati con il dieci per cento della diaria versata dalla Prefettura all’albergatore, come concordato fra quest’ultimo e i mediatori. E anche questo non era detto che potesse accadere. Quando il tempo è bello, c’è qualcuno del paese che li accompagna a camminare in alta montagna, verso i rifugi del CAI. A febbraio iniziano però le settimane bianche e le stanze dell’albergo, già prenotate, dovranno essere svuotate. Ma ci penseremo a febbraio, conclude Nicolò.
Questo succede oggi, 30 dicembre 2011, nell’Alta Vallle Seriana, in provincia di Bergamo, Italia.
Nelle foto che seguono le belle facce di questa storia. E la nostra piccola speranza.