1922-2022 - II parte / Ulisse. Entra in scena la vita oscena

9 Febbraio 2022

Nell’estate del 2012, mentre sta portando a termine la traduzione dell’Ulisse di James Joyce per conto della casa editrice Einaudi, Gianni Celati pubblica sul supplemento domenicale del “Sole-24 Ore” una sorta di resoconto a puntate sugli anni trascorsi a combattere con “il disordine delle parole” del romanzo, che uscirà nel marzo 2013. Sei di quelle sette puntate – con l’ultima, la più lunga, spostata all’inizio a mo’ di introduzione – sono in seguito state ristampate sul n. 40 di “Riga” (Quodlibet, 2019) dedicato a Celati. In occasione del centenario della pubblicazione del capolavoro joyciano, avvenuta appunto il 2 febbraio 1922, abbiamo deciso di riproporle senza modifiche (qui le prime due), per ricordare Gianni Celati e rendere omaggio al suo lavoro di traduttore.

 

I primi episodi dell’Ulisse, dedicati al giovane Stephen, sono scritti con la tecnica narrativa del naturalismo: tecnica sempre un po’ congelante per il suo meccanicismo. Nella seconda parte però si cambia stile, perché inizia la vicenda di Leopold Bloom, personaggio di grande simpatia, con una specie di candore nella sua diversità (essendo di stirpe ebraica tra faziosi irlandesi). Al tempo stesso, Bloom è l’uomo moderno, senza dogmi, con molta curiosità per tutto quello che ci avvolge, e inoltre uomo sensuale che si concede volentieri alle pulsioni voluttuose. La sua presenza altera la meccanicità iniziale, rendendola incerta, per le continue variazioni d’argomento dei suoi pensieri, fino a confondere i giudizi del lettore. La sua presentazione inizia con una rassegna dei suoi gusti culinari, seguita da cenni alla sua concupiscenza appena posa gli occhi su qualche attrattiva femminile, compresa la biancheria intima di sua moglie. Già qui si intravede la caratteristica di questo personaggio e del libro che parla di lui, dove compaiono molte oscenità ufficialmente condannate, che però l’uomo moderno evoluto considera effetti della nostra natura di esseri sessuati. 

 

Ora cito alcune scene che riguardano lo scandaloso Bloom. All’inizio c’è la sua andata di corpo mattutina, leggendo il giornale, con un elaborato metodo di defecazione. Poi Bloom va a lavarsi in un bagno pubblico, dove si perde in fantasie amorose con una sconosciuta, poi osserva il suo genitale moscio nell’acqua, concludendo che quel pezzo di carne floscia è il padre di tutti i nati.

Più tardi, al tramonto, arriva sulla spiaggia di Sandymouth, dove una ragazza allargando le gambe gli lascia vedere la propria lingerie intima, al che Bloom si masturba per l’emozione. 

Nella serata, arrivato nel quartiere dei bordelli, trova molti fantasmi che vogliono condannarlo per le sue svergognate imprese (è accusato di assalto a una serva), poi in un postribolo è risucchiato in una visione onirica con cui forse sconta tutti i suoi desideri sordidi o fantasmatici, in una specie di Valpurga parodica (dal Faust di Goethe). Un’aggiunta da non dimenticare è quella nell’ultimo episodio del libro, dove entra in scena la carnosa moglie di Bloom, Molly, cantante lirica. Questa, nella notte, pensa a suo marito e ai suoi vizi da noioso Don Giovanni: è stanca di lui, lo considera un cappello che si è troppo usato, e rimugina sui virili amplessi del suo amante e su altre copulazioni da lei desiderate (le piacerebbe andare a letto col papa), finché con improvviso slancio sembra accettare le cose come sono, senza più pretese, ripetendo un “sì” che abbraccia tutta la vita.

 

James Joyce in compagnia di Sylvia Beach


Questa abbondanza di oscenità è il motivo per cui l’Ulisse è stato messo al bando, e in seguito condannato da moltissima gente, e infine offuscato da studiosi joyciani che evitano tutto quanto non c’entra con gli ultimi prodotti dell’accademia. Le oscenità che troviamo nel libro di Joyce sono divertimenti che ci richiamano al carattere corporeo e sessuato, sensitivo e sognante, dell’individuo umano. Ma sono anche segnali di qualcosa di diverso rispetto al genere romanzesco moderno. Con tutte le sue stravaganze, parodie semiserie, imitazioni di linguaggi o gerghi d’ogni tipo, l’Ulisse fa pensare ad antichi generi comici o semiseri. Il libro più famoso che riassume varie forme bizzarre, imitative, piene di divertenti oscenità, è la grande opera di François Rabelais, Gargantua et Pantaguel (1534), il quale a sua volta si ricollega alla tradizione italiana del poema maccheronico, e in particolare al poema di Teofilo Folengo, Baldus (1517). Cinquant’anni fa, un critico irlandese, Vivian Mercier, ha pubblicato uno studio sul rapporto tra Joyce e la tradizione chiamata maccheronica, ossia scherzosa, comica e fantasiosa (James Joyce and the Macaronic Tradition, in Twelve and a Tilly, a cura di J.P. Dalton e C. Hart, 1966). Tutto questo è ormai lontano, ma può essere un modo di rileggere il libro di Joyce con altri occhi, con un’altra attenzione: quella delle forme verbali molto sonore, che si devono leggere ad alta voce, come erano i libri che ho appena citato.

 

Nazionalismo per l’Irlanda che fu (19 agosto) 

 

Nell’Ulisse, a ogni episodio si cambia stile narrativo e linguaggio. E ora, giunti a un episodio memorabile, comico-folkloristico, la vicenda è narrata da un anonimo personaggio, che parla con tipico gergo da ghenga maschile, tracotante e triviale. È un personaggio da pub, che ha come unico ideale ciò che una ballata popolare chiamava “il boccale traboccante” (cruiskeen lawn), ossia una pinta di birra irlandese. Ma la figura centrale in questo episodio è un’altra, molto più burbanzosa: è il reduce di vecchi scontri con gli invasori britannici, ora chiamato “il cittadino”; titolo d’un eroe nazionalista, cultore del mito d’una Irlanda antica e paradisiaca, a cui vorrebbe tornare. All’inizio del brano c’è un bellissimo passaggio, quando l’ignoto narratore e un amico si avviano verso il pub per incontrare il “cittadino”. D’un tratto si passa a un linguaggio antico, che esalta il primitivo paesaggio irlandese (chiamato Inisifald), come un paradiso terrestre pieno di pesci e alberi e di leggiadre fanciulle e di eroi che vanno là in cerca di dolcissime spose. Tale nostalgia di un’Irlanda arcaica e incantata porta con sé l’idea che la patria irlandese sia decaduta per colpa degli stranieri che l’hanno invasa, tra cui ci sono anche gli ebrei (chiamati “giudei” o “circoncisi”). È per questo che il pacifico Mr Bloom, capitato per caso nello stesso pub, andrà incontro alle furie del “cittadino”; il quale lo accuserà di aver messo Cristo nella schiera degli odiosi israeliti. Tutto ciò è raccontato con un fine tono parodico, e molte deviazioni su vari argomenti, con discorsi del sentito, pettegolezzi e scemenze che animano la chiacchiera da pub. 

 

Richard Hamilton, The Transmogrifications of Bloom, 1983-84


Dialoghi difficili in un bordello (26 agosto) 

 

Ai tempi di Joyce, non lontano dal centro di Dublino, c’era il quartiere dei bordelli, popolato per lo più di notte. Nel quindicesimo episodio dell’Ulisse, quel quartiere è evocato con una serie d’apparizioni spettrali, tra luminarie e fuochi fatui. Qui appaiono e scompaiono come visioni oniriche miriadi di personaggi, tra i quali c’è il nostro vagante Mr. Bloom. 

Rispetto agli altri episodi del libro, questo adotta una forma narrativa insolita, sul tipo d’un copione teatrale – ed è una forma imitata (e parodiata con molte bizzarrie) dal celebre dramma di Goethe, il Faust

L’altra cosa del dramma goethiano che interessa a Joyce è quella parte chiamata “la notte di Valpurga”. Si tratta della visione d’un sabba, dove le streghe con le loro arti magiche mostrano agli uomini i loro vizi e debolezze. 

Qualcosa del genere toccherà a Bloom nel bordello in cui viene risucchiato e dove subirà un processo per i suoi vizi – un processo con magiche mutazioni che lo trasformano in animale e femmina, bestia da offrire a maschi bramosi come lui. Ma tutto questo rimarrà come un sogno che lo sfiora, senza fargli capire l’essenza dei suoi desideri. Una risposta a questo verrà nell’ultima pagina del libro, pronunciata da Molly, moglie di Bloom. 

 

Cade il muro del pudore (2 settembre) 

 

Ultimo episodio dell’Ulisse. È tarda notte, la moglie di Bloom, Molly, sta rimuginando sulla propria vita matrimoniale e altre cose. Pensa alla stancante sessuomania di suo marito, alle pene sofferte dalle donne, alle proprie voglie amorose, al suo attuale amante, e al giovane Stephen, da cui è attratta. 

Nei precedenti episodi, i pensieri dei protagonisti (Stephen o Bloom) non andavano oltre brevi cenni ai loro ricordi o riflessioni. Invece nel monologo di Molly affiora qualcos’altro, veramente speciale: è la caduta di quella barriera che blocca desideri, fantasie o pensieri ritenuti inaccettabili (nei termini freudiani si chiama “rimozione”). Infatti questo capitolo parla di qualcosa che raramente affiora nei romanzi o racconti: un’apertura condannata al silenzio, ripudiata e considerata “sporcizia” dai benpensanti. 

 

Tale apertura sfocia in un finale dove Molly pensa alla sua giovinezza mediterranea, passata sul promontorio di Gibilterra, e dove Bloom era andato a conquistarla come un cavaliere antico. Ripensando al “mare a volte mare rossastro altre volte come un fuoco e il fulgore del tramonto e i fichi nei giardini dell’Alameda e il giardino di rose e gelsomini e gerani e cactus e Gibilterra quand’ero ragazza”, non domina più in Molly il sentimento d’un io chiuso in se stesso, bensì il sentimento “d’un Io illimitato”, che Freud definiva “oceanico”.

È un slancio senza più pretese, in un momento di felice inconsapevolezza, dove si trasforma l’intero senso del libro, con un “sì... sì... sì” che abbraccia tutta la vita. 

Ma in questo monologo c’è qualcos’altro su cui bisogna attirare l’attenzione del lettore. Perché qui le parole scorrono senza punti o virgole o altri segni che scandiscono le pause. Dunque il lettore deve abituarsi a saltare da una frase all’altra, ma sentendo nell’orecchio una voce che scorre senza arresto e senza pause, soltanto con modulazioni, cioè con variabili aleatorie, come potrebbe essere un brano di free jazz.

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