Speciale

Un Celati anni '70. Intervista con Cerritelli / Contro le Avanguardie

18 Aprile 2016

Avviandosi a concludere la sua tesi di laurea con un’appendice costituita da varie interviste ad artisti, storici dell’arte e intellettuali operanti a Bologna, Claudio Cerritelli (1953) incontra il suo professore del Dams Gianni Celati raccogliendo alcune riflessioni intorno al concetto d’avanguardia.

 

Claudio Cerritelli : Mi rendo conto che non è semplice venire qui a chiederti cose specifiche che mi siano direttamente utili. Mi hai già fatto presente la tua difficoltà dicendomi che hai spesso atteggiamenti critici irrazionali. Questo potrebbe interessarmi di più. Perciò non rinuncio a chiederti quali sono le tue idee intorno a tutto un universo avanguardistico, sia quello storicamente già concluso, sia quello che ancora sta marciando. Come vedi questo fatto, riferito anche alla tua esperienza

 

Gianni Celati: Non so come lo vedo; anzi, soprattutto, non mi interessa vederlo, avere una cosa definita. Dal punto di vista delle cose che mi sono girate intorno mi sembra che ci sia un punto di riferimento fisso: l’irruzione della Pop Art. Mentre in fondo tutte le avanguardie storiche (a cominciare da Baudelaire fino a Benjamin, Sanguineti etc.) esprimono il discorso che l’avanguardia tende al museo, e quindi hanno presente sempre questo dramma infinito che c’è sempre tra l’invenzione e il museo; l’irruzione della Pop Art è una proposta di continua ‘museificazione’, di tutto; della merda che incontri per la strada, del gelato che ti casca, del modello della Ford T, cioè di una museificazione universale. Questi artisti parlano appunto di ‘archeologia istantanea’. Nel quadro attuale, mi sembra che poi alla fine si possano distinguere, bene o male, ancora una linea idealistica e una linea materialistica, grosso modo. Da una parte, la linea idealistica è, e non c’è niente di male, un fatto ancora di illusione di trovare nuove vie, nuovi sistemi, nuovi mezzi all’interno di istituzioni artistiche; dall’altro, c’è un problema di recupero brutale dei processi di museificazione, che si fa poi praticando qualunque genere. Ecco, questa è un po’ la discriminante. Allora, in questo senso, l’avanguardia in Italia è sempre stata una faccenda un po’ dubbia, perché fino a che non si è scontrata con la realtà politica del ‘68, che poi l’ha mandata in vacca, essa era vissuta sulle basi di un programma che era quello del rinnovamento culturale, come aggiornamento, come nuova proposta, come portare in Italia tutto quello che non c’era stato prima, etc. Dal punto di vista storico, tutto questo è finito proprio come un fenomeno di aggiornamento, di transizione generazionale tranquilla. Quello che io non ho sentito in Italia, mentre invece l’ho sentito molto in Francia, in Inghilterra e in America, e l’ho sentito e vissuto, è proprio questo problema dell’oggetto che diventa per forza merce, oggetto di scambio, prodotto. Pensiamo una cosa abbastanza banale: le scritte sui muri delle università. Queste sono una ‘cosa pop’ per eccellenza: ma ‘pop’ vuol dire che alla fine non c’è transizione tra la critica politica e la critica pubblicitaria, cioè tra la scritta che inneggia la merce e lo slogan che inneggia ad un tipo di azione. Questo è un tipo di pianificazione ideologica che fa parte del grosso scoppio del mercato; secondo cui alla fine non hai più degli slogan puri, hai solo degli slogan di tipo pubblicitario. Allora, per esempio, all’interno dell’università, in questi tipi di dibattiti sulle scritte, sentivo tornar fuori dei vecchi discorsi: alcuni paragonavano le scritte a quelle della réclame del ‘dash’, e dicevano invece che altre potevano andar bene. Questo è un po’ il fatto dell’intellighenzia di sinistra, che poi è anche l’intellighenzia d’avanguardia, il liberalismo della nostra cultura che, a certi livelli, non smette mai. Queste irruzioni, io le ho sentite proprio come questo tipo di passaggio: prima di tutto, scoppio della Pop Art attraverso l’arte, ma passaggio attraverso il cinema; poi finalmente irruzione nel discorso politico di questa grossa faccenda che si parla per stereotipi, per slogan, per oggetti mercificati e morti. Quindi è sempre nell’ambito di una museificazione della parola e di tutto che devi procedere; ed è anche quella la gioia delle merci, tutto sommato.

 

CC: A questo punto, credo che tu possa dirmi qualcosa sul concetto di avanguardia, anche come concetto che contiene certamente una qualità politica discutibile. 

 

GC: Per quanto riguarda il concetto di avanguardia, mi interessa puntualizzare nel modo seguente. Il concetto d’avanguardia ha, da una parte, un tipo di origine probabilmente positivistica, scientifica (cioè la sperimentazione d’avanguardia con tutte le mitologie del ricercatore incompreso di tradizione ottocentesca); dall’altra parte, il concetto d’avanguardia visto come fatto politico, quindi il gruppo d’avanguardia in una classe. Da questo punto di vista, secondo me, il concetto d’avanguardia si vede in un film di Eisenstein (Alexander Nevskij); questo film è una favola di uno smantellamento del nemico fatto attraverso un triangolo, e questo triangolo è fatto a punta di diamante; in testa c’è l’eroe splendente, il capopopolo, il leader: sulle ali ci sono i suoi fidi; e dietro la plebaglia. Quella era la metafora tipica dell’avanguardia di tipo ‘stalinista’, o insomma il tipo bolscevico, che come fatto di triangolo sfonda il fronte unitario reazionario. Io credo che questo fatto della punta di diamante si riproponga nel caso del gruppo del surrealismo. Il surrealismo si pone appunto come una setta privilegiata dove questa punta di diamante deve essere mantenuta ortodossa, intatta; quindi più va avanti, più è fatto di scarti: si caccia via Artaud, si caccia via Bataille, si cacciano via tutti quelli che sono aderenti a questo tipo di processo per aver trasgredito la ‘linea giusta’. E, secondo me, non cambiano le cose se questa punta di diamante è concepita nei termini di ‘avanguardia operaia’, per esempio, che è un caso abbastanza tipico di un gruppo piccolissimo che dovrebbe proporsi come questa punta di diamante dietro la quale procede una massa di gente che ha capito che quelli hanno capito. Ci sono altri tipi di situazione come quelle artistiche, dove le varie punte di diamante sono, non so, body-art o procedimenti estremizzati vari di produzione artistica. In sostanza il modello è sempre quello; è un modello dove c’è questo fatto del triangolo magico che sfonda il fronte compatto del sistema borghese.

 

CC : Accettiamo pure la metafora di Eisenstein. Non ti sembra che tale modello oggi si sia dissolto nella struttura del mercato capitalistico. Non ti sembra che queste punte oggi non fanno più male a nessuno, e che sono anzi funzionali? Non credi che l’esistenza di una avanguardia artistica oggi possa forse essere colta non all’interno dei circuiti istituzionalizzati, ma fuori di essi? Probabilmente sono falsi problemi. Esiste comunque la possibilità che il pensiero negativo recuperi una reale capacità di incidenza sui fatti culturali, intesi nell’accezione più completa? 

 

GC: Ecco sì, probabilmente questo è il vero punto. In questo momento siamo in un momento di dissoluzione di questo modello, e per fortuna. Le ‘punte’ si moltiplicano tanto che non c’è più un riconoscimento. Il congresso di ‘Lotta Continua’ mi sembra che sia un caso abbastanza bello; anche le dichiarazioni di Sofri, alla fine, esprimono il senso di dissoluzione di un tipo di ideologia della ‘punta’. Sul piano politico questa dissoluzione si vede e si sente molto nettamente; e soprattutto si sente anche il caos del fatto che non sappiamo vivere diversamente: questo è un nostro momento di decomposizione.

 

Probabilmente questo è proprio un fatto della decomposizione dello stato borghese, delle istituzioni, di una serie di paradigmi formali che poi sono continuati ad esistere attraverso tutte le rivoluzioni politiche. Sul piano politico, chi milita capisce che il momento attuale ha questi caratteri. Sul piano delle arti, invece, non se ne parla neanche. Il tipo di associazionismo che c’è sul piano delle arti è ancora determinato da questioni di mercato con tutta una serie di falsificazioni continue; per cui uno è più avanti, uno è più indietro; che son tutte poi delle balle. Ma sul piano artistico nessuno ha sentito ancora il fatto che c’è una necessaria e finale dissoluzione di questa idea di essere più avanti. Secondo me, è tutta una questione un po’ delicata; ora cerco di spiegartela. Le avanguardie post-storiche di tipo neo-critico (il Gruppo ‘47 tedesco, il Gruppo ‘63 italiano), dove la componente critica e culturalistica avevano una grossa parte rispetto a un certo tipo di azione snodata è non teoricamente organizzata (vedi dada): in queste avanguardie nuove di tipo letterario e visivo c’è sempre questo tipo di falsa alternativa che è sempre proposto: chi è più avanti e chi è più indietro: cioè chi è più furbo e chi è più ingenuo. Chi è più avanti è quello che ha visto più cose e ha capito più cose, e ha capito la nuova linea di sfondamento; chi è più indietro è quello che s’illude su una linea di sfondamento che quelli più avanti hanno già capito che non funziona.

 

Questo è per me la falsa alternativa di tutte le avanguardie e proprio la falsa alternativa di tutto questo tipo di mondo, di tutta la merce culturale, etc. Il modo di pensarla all’opposto è per me il livello pianificatorio, cioè: siamo tutti uguali, siamo tutti ingenui o furbi uguali, siamo tutti avanti e indietro uguali, siamo tutti soggetti ad un mercato. E nessuno venga a raccontarmi che è più furbo di un altro o ha più ragioni critiche rispetto a un altro. Chi è che non vede una cosa, chi è che non ne sente un’altra? Io direi che se il fatto ‘negativo’, criticistico (in termini hegeliani) è il fatto distintivo dell’avanguardia, appunto come sfrenato hegelismo, se questo è vero, per me dopo la controcultura, dopo la Pop Art, questa è la cosa che è andata a remengo. Non c’è più un problema di progresso, c’è invece un problema di certe positività che passano o non, di certe fughe di gioia che ci sono o non ci sono, che non hanno niente a che fare con la critica, e neanche con il fatto culturalistico. Quello che proprio è caduto è il fatto criticistico come tale, il fatto di star lì a pensare che questo può andar meglio di quello, invece di beccare al volo i movimenti e gli spostamenti, i terremoti sociali, i punti di fuga e di soluzioni che sono sempre fatti positivi.

 

CC: Nella controcultura, per esempio.

 

GC: Sì. Per questo il partito comunista e tutta la sinistra europea non ha fatto altro che dire che erano gente che pensava solo a questioni individualistiche, che non hanno capito niente di politica. Ma per forza: perché nella controcultura dominavano dei punti di fuga abbastanza incontrollabili, che erano punti positivi. Lì funzionava una gioia, e quindi non c’era più questione di arte e non arte, di estetica o non estetica. Funzionava la gioia di come ti organizzi un momento di esistenza. È quindi un fatto di azione rivoluzionaria sulla tua esistenza, non in generale sulla linea del mondo e sul corso dello spirito umano. No, questo no. Tutte le linee criticistiche per forza devono tener conto del corso dello spirito umano. E il corso dello spirito umano è il corso del capitale, in poche parole.

 

CC: E tu come individuo, come persona che ha scritto e scrive dei libri, dei romanzi (se così mi concedi di chiamarli), insomma tu che posizione hai?

 

GC: Io mi muovo nel mio parziale, come tutti. Quello che posso dire io sulla mia parzialità dipende dalla mia parzialità. Quindi a livello del discorso che ho fatto prima, le cose che faccio io sono estremamente limitate, banali, abbastanza quotidiane e stupide, su cui ho fatto degli investimenti di gioia, nel senso che queste cose le ho fatte perché mi davano piacere e nient’altro. A parte questo, una delle cose che a me interessava, che per esempio nell’avanguardia non è mai venuta fuori (e che invece in America – nella controcultura – è venuta fuori), è il fatto di reinventarsi degli artigianati scaduti. Sapendo che è un artigianato e che è una cosa per vendere, tutto sommato. Parlo però di cose fatte con le tue mani nel senso della tua separatezza, della tua mancanza di mezzi di produzione, etc. Nell’ambito di quello che ho fatto, io ho cercato di inventarmi, di fare un artigianato che si vedesse che era un artigianato, una cosa fatta in casa senza usare grossi effetti, senza usare la lingua ‘grande’. Anche lì c’è un fatto di parzializzazione estrema dove, appunto, la divisione del lavoro mi viene dentro netta. Mai riducibile al fatto di pensare che quella sia la linea giusta: è soltanto l’artigianato che mi è capitato di scegliermi. Non l’intendo come fatto artistico né come fatto estetico.

 

CC: Di fronte alla tua visione ‘parziale’ delle cose mi ritrovo un disorientato, un po’ dubbioso. Se oggi tutta la produzione culturale è d’avanguardia (per così dire), che posto può avere tutto ciò che direttamente non è avanguardia? Come qualcuno ha detto, che cosa ce ne facciamo del pittore di paesaggio o di fiorellini, del poeta non sperimentale, e così via? Il recupero di una complessità ormai frantumata mi sembra difficile. Che rapporto può invece esserci tra posizioni così lontane? Anche questo è un problema da masturbazione o tocca degli aspetti reali?

 

CG: Io penso che sia tutto un mare di anonimità in cui viviamo tutti; questa è l’immagine che io prediligo; la fine della storia, secondo Benjamin, dovrebbe essere questa totale anonimità di tutti quanti, quindi ognuno nella sua anonimità. Secondo me, non è una questione di modelli più avanzati o meno; quello che fa i fiorellini e le vedute e quello che fa il ‘concettuale’. Ci sono dietro investimenti culturali maggiori o minori. Concependolo però nell’orizzonte di un’enorme anonimità generale, direi che non c’è differenza. C’è differenza solo con riferimento alla teoria: nel mondo moderno, dal gioco degli scacchi alla politica, alla letteratura, o a fare un quadro, è sempre una questione di comprendere un campo teorico. Negli scacchi non c’è una mossa che tu non faccia se non preordinata da un certo tipo di scelta teorica: al limite anche quello che fa i fiorellini ha un problema del genere. Semmai, potremmo dire che in un campo più generale, da una parte c’è una scelta teorica che è più funzionale rispetto al mercato, non necessariamente rispetto ai soldi che ci guadagna, ma rispetto ai funzionamenti reali dei gangli organizzativi. La cosa che io noto, e l’hanno notato in tanti, negli ultimi anni è l’infinita moltiplicazione dei campi teorici.

 

CC : Mi puoi fare degli esempi? 

 

GC: Una volta un campo teorico era la psicanalisi. Nell’ambito della psicanalisi c’è una moltiplicazione enorme di campi teorici. In poche parole, qualunque tipo di esperienza sul quotidiano diventa un campo teorico; altrimenti non si potrebbe capire il fatto che il lavoro politico dei negri è diventato un campo teorico; che il lavoro politico delle femministe è un campo teorico; il lavoro dei matti è un campo teorico; e il lavoro degli psichiatri è un altro campo teorico. C’è un’estensione enorme dei fronti dei campi teorici per cui alla fine salta fuori il ‘nomadismo teorico’ e quindi il nomadismo assoluto. Al giorno d’oggi, se dovessi pensare a uno ‘specialista’, lo farei solo con enorme schifo. Non mi va quello che crede che il suo campo teorico abbia una certa importanza rispetto agli altri. Allora quello che è interessante non è tanto il fatto dello sforzo sul tuo campo teorico, ma sono invece interessanti le fughe fra i vari campi teorici. Come era possibile pensare che Marx e i matti c’entrassero qualcosa, che ci fossero rapporti tra capitalismo e schizofrenia. Al giorno d’oggi questo avviene perché c’è un fatto di continue fughe da un campo all’altro. In questo senso allora, quel signore che dipinge i campi verdi, probabilmente, generalizzando, è espressione di fatti di fuga teorici che interessano quanto o egualmente il caso dell’arte concettuale. Secondo me tutta questa questione non è mai preordinata perché non è interessante lo sforzo su un campo teorico, ma sono interessanti le fughe, le fughe di lato. Tu mi indichi il paesaggio; io direi anche il poliziesco, la comicità più banale; anche queste rientrano nella cosiddetta scala ‘bassa’. Più che pensare di tenere una scala ‘alta’ che si distingue dalle scale basse, a me interesserebbero i fenomeni in cui si scappa dal basso in alto e soprattutto si intende questo fatto di parificazione. I cretini che fanno l’arte concettuale, cretini come sono, e col tipo di puttanate e volgarità intellettuali e culturalistiche che ci cacciano dentro, non credo che sfigurino accanto al pittore domenicale da un punto di vista banalissimo di vita quotidiana. Non sfigurano per niente: fanno più schifo loro, con la loro snobberia, arroganza e furberia.

 

CC: A questo punto, l’occasione è troppo gustosa per rinunciare a chiederti qualcosa intorno ai tuoi rapporti con certe esperienze d’avanguardia, col Gruppo ’63 per intenderci. Come è questa faccenda?

 

GC: La faccenda dei miei rapporti con tutto questo campo d’avanguardia è sempre stata abbastanza straziante e derisoria, nel senso che ho alcuni ricordi non certo felici. Una volta, ad un congresso, Gillo Dorfles ha sentito che leggevo delle mie cose ed è venuto su scandalizzato dicendo: ah! ma questo vuol far ridere sul serio.

 

Evidentemente che cosa vedeva? Una fuga verso il basso. Un altro diceva: ma allora tiriamo in ballo il Corriere dei piccoli. Eccetera. In poche parole: i miei rapporti con questo mondo dell’avanguardia ‘saputa’ sono stati sempre abbastanza disastrosi dal punto di vista psicologico. Soprattutto una cosa mi è rimasta continuamente in mente: che era gente che ti vuol sempre far capire che tu non hai capito delle cose e che ci sono dei punti più avanzati da conquistare, ai quali tu non sei ancora arrivato. Nel Gruppo ’63 io ho sentito il continuo ‘terrorismo’ di questo genere: era un ambiente terroristico come l’ambiente umanistico: la gente si scannava per questo tipo di stupidaggini hegeliane. La stessa cosa si rivelava nei rapporti con la mia casa editrice: sempre questo fatto di essere tirati per le orecchie perché non avessi scivolamenti o cose del genere. Il risultato di queste esperienza di rapporti è che non ne voglio più sapere e non voglio più avere a che fare con nessun uomo che fa cultura di professione. Avendo smesso per sempre di scrivere, spero di smetterla finalmente di fare delle cose per conto mio, e di lavorare in gruppo, in una vera anonimità di gruppo. Nel Gruppo ’63 c’è stata un’atmosfera di ‘vedette’, di terrorismo delle ‘vedette’. L’idea e il problema fondamentale di lavorare in gruppo credo che sia il vero problema politico di come si capiscano le dinamiche di gruppo, e di come ci si dissolve. Ritengo positivo il fatto dissolutivo dell’io, della personalità, del nome, etc. Questa è la mia esperienza.

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