Abbiamo soltanto la vita / Quando ho visto Nel corso del tempo

6 Maggio 2016

 

 

Ricordo solo vagamente dove ho visto per la prima volta Nel corso del tempo. Ma ricordo bene che ero andato al cinema con una donna separata dal marito proprio in quei giorni, molto nervosa, che trovava tutto insopportabile. Ho capito subito che non era il film  per lei. Infatti quando siamo arrivati alla scena dove Rüdiger Vogler va sulla sponda d’un fiume a defecare all’aperto, e si vede la merda uscire dal suo culo, lei si è alzata dicendo: “Io ne ho già abbastanza della vita", poi ha infilato la porta e ho dovuto inseguirla. Voleva dire, credo, che ne aveva abbastanza della vita nei suoi aspetti meno edificanti, come quelli che stava affrontando col marito. La sua frase mi è rimasta in mente perché nel film di Wenders trova una risposta, quasi come una morale: “Abbiamo soltanto la vita”.

 

La seconda volta che ho visto Nel corso del tempo ero da solo, e il film mi ha assorbito in una lunga rimuginazione. Mi ero fissato sulla scena con Rüdiger Vogler e Lisa Kreuzer nel cinema di provincia, a tarda notte. Lei racconta che in quel cinema un uomo e una donna facendo l’amore erano rimasti incastrati: la donna aveva avuto uno spasmo vaginale e avevano dovuto portar via i due con l’ambulanza, ancora incastrati uno nell’altro. Poco prima, in una scena nello stesso cinema, si vedeva il proiezionista stava masturbandosi nella penombra mentre guardava il film porno. E naturalmente questa  mi rimandava al precedente già visto, dove Rüdiger Vogler defecava all’aperto.

 

 

In un film sottotono come questo, i punti più sorprendenti erano vedute dell’umano che il cinema evita sempre. L’umano visto nelle sue funzioni fisiologiche, come le escrezioni anali, contraddice le idealizzazioni con cui siamo stati educati a tenere in piedi le proiezione dei nostri desideri. E quando Lisa Kreuzer parla dello “spasmo vaginale” che ha bloccato quei due, riassume questa storia moderna di desideri paralizzati perché non si riesce più a idealizzarli. È l’idea che si ha vedendo quella scena nel cinema, soprattutto per il tono dolente dell’attrice - l’idea d’una epoca del mondo in cui pare impossibile poter ancora credere alle proiezioni dei propri desideri, soprattutto di quelli erotici.

 

L’altra questione in gioco nel film è il declino delle sale cinematografiche di provincia, dove ormai si proiettavano soltanto film porno. Il breve spezzone pubblicitario che Rüdiger Vogler monta per scherzo, riassume questo nuovo mercato delle eccitazioni. C’è una donna assaltata da un uomo, mentre una voce ripete all’infinito: “Azione! Sensualità! 90 minuti che la televisione non ha mai mostrato!” È un modo sintetico per dire come nella storia dell’occidente il desiderio e la macchina siano diventati la stessa cosa: perchè l’eccitazione e il meccanismo eccitante non sono più disgiungibili, presi in un loop dove  il desiderio meccanizzato produce il vuoto dell’abulia.

 

Il film di Wenders è una reazione a tutto questo, ma solo nella penultima scena diventa un’aperta denuncia. Nel resto del film la reazione prende un altro aspetto, semplificando al massimo i modi di visione: con riprese frontali oppure riprese laterali ad angolo retto, quasi sempre a macchina ferma, con nessun primo piano stretto. Sono modi di ripresa che creano uno sguardo “raffreddato”, come  in Antonioni. E fanno pensare a un’astinenza dalle proiezioni fantastiche: perché collocano cose o persone nella distanza del vedere, come entità figurali straniate, con cui è difficile identificarsi.

Un effetto simile ha lo stile dei dialoghi, che sono radi e mai ad effetto: piuttosto col senso della difficoltà di sintonizzarsi con gli altri. Sono dialoghi dove i due protagonisti restano confinati nella loro estraneità, e soltanto nell’estraneità possono incontrarsi. Intanto intorno a loro prende corpo un panorama di provincia dove si incontrano soltanto persone abuliche o smarrite, dolenti o ammutolite. Ed è come se viaggiassimo sul confine di un mondo alieno, connotato da una pesante disaffezione dei luoghi, che si nota in ogni dettaglio. Di qui quei vasti panorami con un’aria da luoghi di fantascienza: la visione del confine con la DDR, il filo spinato, le torri di controllo,ma tutto vuoto.

 

Un aspetto di questa alienità è la casamatta americana dove i due viaggiatori si rifugiano a dormire. E nella scena che segue Hanns Zischler accenna a qualcosa che mi sembra un pensiero di fondo del film: dice che prima di imparare a scrivere i bambini vedono nelle lettere dell’alfabeto delle figure fantastiche, ma in seguito quelle fantasie sono dimenticate, oppure diventano disturbi nello scrivere. Io associo questo discorso a due scene precedenti, che ci ricordano come il pensiero infantile sia intimamente legato a figurazioni immaginarie, le quali più o meno soccombono alla alfabetizzazione. È un motivo implicito nell’episodio dei fumetti ritrovati nella casa materna, mentre è molto esplicito nella scena delle ombre comiche dietro lo schermo cinematografico della scuola, con i bambini che si ritrovano nel loro elemento, mentre il maestro guarda lo schermo con aria intontita.

 

 

Di qui si direbbe che il cinema sia un punto di collegamento con il pensare infantile per immagini, o per figurazioni immaginarie, come quelle dei fumetti o delle ombre comiche - quasi una cura a quella specie di ottundimento dell’adulto per effetto dei suoi sistemi di parole scritte. Direi che c’è un pensiero del genere in questo modo di usare le immagini, con un gusto dell’inquadratura che lascia cose e persone in un loro spazio, senza avvicinamenti invasivi. È un calmo dispiegarsi delle immagini  che ci richiamano a un’idea del cinema come arte essenzialmente visiva, figurale, come si è affermata soprattutto con Antonioni  - ed è la risposta di Wenders all’invasione dei film porno.

 

L’eccitazione porno non dipende dal dispiegarsi di figure, bensì dalla loro contrazione in un unico oggetto, l’oggetto “vulva”, centro dell’eccitazione meccanica che elimina ogni volo immaginativo. La passione di mostrare oggetti di desiderio o di repulsione attraverso un’invadenza descrittiva che li fissa come nudi reperti, in una “oggettività” fotografica, è propria del realismo o naturalismo: ed è da questi due modi di narrare ottocenteschi che si sviluppa in linea diretta la pornografia. Per contro, l’attenzione non più portata sulla nuda evidenza degli oggetti realistici, ma su figurazioni dove è implicito il lavoro immaginativo e affettivo delle nostre proiezioni, è il nuovo modo di concepire le immagini cinematografiche che Gilles Deleuze ha chiamato “l’immagine-tempo”

 

Il film di Wenders è uno degli esempi più metodici di questo nuovo modo di concepire il cinema: un film più vicino a una forma documentaristica che a quella del cinema di consumo, e che sostiene la tensione delle scene più con la presa delle immagini che con gli sviluppi dell’azione. Ed è un modo di narrare “raffreddato”, ossia con un deciso abbassamento della soglia di intensità: il che permette finalmente un pensiero per immagini, cioè senza il disturbo delle eccitazioni spettacolari. Questa è l’idea che mi sono formato a partire dalle poche scene che ho detto, cominciando quando ho visto il film di Wenders per la seconda volta, nell’anno 1978. Ma aggiungo che senza la prima volta che l’ho visto, in un cinema  di Parigi che non so più dove fosse,  e senza la frase di quella donna che mi aveva accompagnato, forse non si sarebbero avviate queste rimuginazioni.

La frase di quella donna denunciava la scena della defecazione, perché non serviva per distrarla dai suoi guai. Infatti è una scena dove non succede niente; come nei tempi morti di Antonioni: momenti che non rimandano a nessuna azione né ad alcuna attesa, e ci invitano soltanto al guardare per un certo tempo le immagini del film, senza altre promesse. Ciò implica che in quei momenti il nostro punto di riferimento non è più quello fictional dell’azione o della trama, bensì quello non-fictional del tempo che passa durante il nostro guardare, o come dice il titolo di Wenders, Im Lauf der Zeit, Nel corso del tempo. Il che vuol anche dire che il dispiegarsi figurale e il pensare per immagini sono la stessa cosa. Le immagini o le figurazioni immaginarie non sono qualcosa di alternativo al pensiero, come una cultura scolastica ha a lungo creduto: al contrario, sono funzionamenti per mettere in moto il pensiero, per sostenere la sua tensione, e infine per agganciarlo al suo terreno di formazione, che è il tempo che passa, come origine di tutti i pensieri e di tutte le proiezioni emotive possibili.

 

 

Ultima cosa. Ho rivisto il film di Wenders pochi anni fa e mi sono venuti in mente altri pensieri. In quel periodo rileggevo le storie dei cavalieri della tavola rotonda, raccontate di Chrétien de Troyes e Wolfram Von Eschenbach; e mi è diventato chiaro che quello era l’impianto immaginativo nel film . I suoi due viaggiatori sono come i Galahad, Perceval, Lancillotto cavalieri in perpetua erranza, sempre votati a un’impresa: e sullo sfondo d’una “terra desolata”, cioè colpita da un’incanto maligno che cesserà solo quando i cavalieri ritroveranno il santo Graal. Nel film di Wenders le campagne vicino al confine con la DDR, con quegli abitanti che paiono sprofondati nell’abulia e lo smarrimento, hanno un fascino simile, un fascino da favola o da fantascienza, e sono ciò che dà senso al vagare dei due protagonisti. Voglio anche dire questo: che il fascino raro del film di Wenders dipende dal fatto che non ha alle spalle l’impianto immaginativo della fiction romanzesca, ma qualcosa di molto più antico e di più favoloso. Al tempo stesso è una struttura molto riconoscibile, anche se uno non ha letto le storie di quei cavalieri. Perché non esiste nessuna immagine che si chiuda in sé, nella propria “oggettività” realistica; dietro ogni immagine ce n’è un’altra, che a sua volta si collega ad altre già viste; e ciò che forse determina la loro durata d’effetto, è la permanenza d’una loro riconoscibilità, in cui si concentrano ere di figurazioni immaginative. Questa è l’immagine-tempo di Deleuze   

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