Un cinema da inventare
La storia di Milano 55,1, il film collettivo sull’ultima settimana di campagna elettorale a Milano che ho curato con Luca Mosso, non è solo la storia di un singolo film, una case history e un esempio di produzione dal basso, partecipata e, appunto, collettiva.
Questa storia, fatta di atti di volontà, entusiasmo e coinvolgimento, suscitato certamente dal momento che tutti stavamo vivendo, contiene infatti, in trasparenza, anni di pratiche virtuose e sotterranee, e fa parte di quella storia materiale della cultura italiana che un giorno forse andrebbe scritta. È la storia di quella particolare cultura, o sottocultura se vogliamo, costituita dalle pratiche documentarie nella città di Milano.
Si parla spesso della lontananza da Roma, del modo diverso di “produrre cinema” a Milano, del fare, come dice Marina Spada, “il Cinema con le telecamerine”. Ma al di là di una retorica del miserabilismo, di una riduzione ai minimi termini del fenomeno, è indubbio che si tratta di una cultura dell’utilizzo della realtà che ha retto e orientato molto cinema “lontano da Roma”, molto cinema milanese. E se da un lato Milano ha fatto di necessità virtù, dall’altro, e forse in modo più deciso e trasparente (per chi aveva questa chiarezza), ha trovato un modo per far uscire dagli stretti confini nazionali le visioni degli autori. Nel confronto tra i grandi festival internazionali e i festival milanesi sembra esserci stato un travaso di autori e sguardi che ha fondato un modo di fare nuovo, che, non per coincidenza, incrocia in questi ultimi anni autori prodotti dall’associazione Filmmaker con partecipazioni a festival come Cannes, Venezia, Locarno, Toronto, riportandone premi e riconoscimenti. Perché a Milano negli ultimi vent’anni sono arrivati grazie ai festival sguardi da lontano, grandi autori che hanno aperto nuove dimensioni di racconto, e tutte, o quasi, si rivolgevano alla realtà.
È questo patrimonio culturale, umano e professionale che ha consentito a Milano 55,1 di fare il giro dei festival internazionali, di uscire in sala e di essere riconosciuto come uno dei film italiani importanti per questo fine 2011.
Questo è stato possibile grazie ad uno sforzo congiunto delle esperienze accumulate e quelle ancora in formazione, che hanno un forte desiderio di realtà e di raccontare in città, la città. Esperienze che venivano dalle produzioni dell’associazione Filmmaker, dalla Scuola Civica di Cinema Televisione e Nuovi Media, dal master “Il documentario come sguardo” IED che io dirigo e che ho inventato con Silvio Soldini e dalle diversamente gloriose esperienze del passato che hanno formato, a Milano, più generazioni di cineasti molto legati alla realtà.
Per questo io credo che Milano dovrebbe dotarsi di un luogo aperto, che forse potrebbe essere la Scuola Civica di Cinema Televisione e Nuovi Media, o forse no. Forse no perché la Scuola, qualsiasi “scuola”, deve ripensarsi profondamente per poter affrontare le sfide che propone un mercato dell’audiovisivo internazionale, ma anche e soprattutto la sfida posta da una nuova (anest)etica del lavoro e dalla diffusione così capillare e invasiva di “linguaggi” audiovisivi spesso inutili e ambigui, quando non evidentemente oppressivi e lenitivi, anestetici, appunto. La scuola che immagino deve diventare luogo aperto per la città. Aperto a contributi sporadici e diversi, aperto alle spinte che vengono dai suoi utenti: quelli che vengono per “imparare”, quelli che vengono ad “insegnare”, quelli che vengono semplicemente per “fare” (metto tutte queste virgolette perché i rapporti tra queste pratiche devono essere aperti, bilaterali, produttivi, diretti e non gerarchici, né teorici).
Bisogna smettere di pensare alla scuola come un istituto professionale, bisogna produrre risultati immediati e concreti, creare film più che esercitazioni, dare la possibilità di arrivare al pubblico, di intervenire nella società, stimolare (anche in un deserto “del reale” come quello in cui ci troviamo) la voglia di raccontare e raccontarsi. Agevolare la formazione di gruppi che possano fare la loro “carriera” non nel punitivo mercato del lavoro milanese, ma in Europa e nel mondo, rendendo le persone che frequenteranno questa scuola capaci di confrontarsi con l’esterno, partendo dalle storie che rappresentano il loro mondo. Penso ad un luogo multilinguistico, aperto ad ospiti internazionali e a pratiche di racconto chiaro, ai linguaggi delle scienze e della filosofia, della cronaca e della storia, dell’antropologia e del pettegolezzo; penso al cinema come al terreno nel quale questi linguaggi trovano una sintesi, uno sbocco di racconto.
Ho detto in una riunione sul cinema milanese che Milano avrebbe bisogno di un esercito di interpreti, e penso che questo deve avvenire in una nuova scuola del cinema, in questo luogo aperto. Tradurre, con le immagini, i racconti che sono possibili in questa città che ha tanto da raccontare (non fosse altro perché Milano è la provincia più ricca d’Europa, ricca di cose ed eventi, ricca di architettura, design, moda...) e fare di un magazzino di telecamere e di computer una serie di occasioni per raccontare il mondo così com’è, così come lo desideriamo; il cinema, ha detto Andrè Bazin, è il modo di accordare la realtà ai nostri desideri.
Venite – sarebbe bello poter dire – venite a Milano, c’é un luogo che chiamiamo scuola, ma a volte archivio, a volte anche laboratorio, dove non si parla quasi per niente prima di aver visto un’immagine, dove quelli che si chiamano docenti chiedono sempre e solo, perché? Perché racconti questo e non quello, perché in questo modo e non in altro? E le risposte arrivano solo con immagini e suoni, inquadrature e azioni filmate, riflessioni in movimento e non improbabili quadrature del cerchio teoriche o per sentito dire dove tutto vale per tutto e viceversa, e il cinema diventa un mito fatto di cattive abitudini, oppressive e condizionanti. Venite – sarebbe bello e buono poter dire - qui a Milano, ogni giorno, si inventa, di nuovo, il cinema.