Un "Comandante" tra stereotipo e ambiguità
È un film fascista, il Comandante di Edoardo De Angelis? Domanda provocatoria. Lettrici e lettori possono stare tranquilli: qui non si vuole sostenere una (improbabile) nostalgia per il Ventennio da parte del regista, del co-sceneggiatore Sandro Veronesi o del protagonista Pierfrancesco Favino. Tanto più che l’oggetto della domanda non è l’epiteto fascista, ma la definizione di film fascista. Affascinante, ben scritto e spesso efficace, soprattutto nelle sequenze belliche, Comandante sembra riproporre costrutti retorici e narrativi propri del cinema italiano del Ventennio.
Contrariamente a quanto credono in molti, infatti, la cinematografia d’epoca fascista – almeno quella di finzione – non manifestava finalità espressamente propagandistiche, ma presentava una complessità e una contraddittorietà che si ritrovano anche in Comandante. Nonostante De Angelis e Favino abbiano presentato il film come una vicenda incentrata su “un atto di disobbedienza” e su un gesto umanitario dettato dalla preminenza della “legge del mare” sulla “legge della guerra”, questo film (ri)presenta una serie di topoi e dispositivi narrativi che permettono di interpretarlo come un esercizio di recupero “filologico” della cinematografia fascista di guerra. Se, in un ideale gioco di manipolazione del testo stesso, virassimo il film del 2023 in bianco e nero e sostituissimo Favino con una versione generata dall’AI di un divo della Cinecittà dell’epoca – un Amedeo Nazzari, un Osvaldo Valenti oppure un Fosco Giachetti – ecco che il film di De Angelis potrebbe sembrare un perfetto prodotto di intrattenimento dell’Impero, sia pure di straordinaria modernità.
La trascendenza verso una metafisica che supera l’individuo, in cui ambientazione e contesto storico risolvono il soggetto in una dimensione superiore, dove il privato si fa collettivo(o Stato) e il cittadino si fa eroe; l’elogio di una comunità omosociale che, con l’esclusione del leader (leggi: del Duce), si sfalda e si rimodula in un personaggio plurale, incarnazione di una spiritualità nazionale; una rappresentazione della donna come strumento a disposizione del maschile, ancorata a una visione del femminile come elemento sacrificabile (o da sacrificare) della narrazione; una rarefazione che all’analisi della Storia o delle psicologie sostituisce il primato dell’Azione: sono queste caratteristiche a fare di Comandante una sorta di (involontario?) reboot del cinema di regime.
Ripercorriamo brevemente la trama. Siamo nel 1940: Salvatore Todaro (Favino), comandante della Regia Marina rimasto parzialmente invalido a causa di un incidente aereo, rifiuta il congedo e viene assegnato al comando del sommergibile “Cappellini”, con l’incarico di compiere incursioni nell’Atlantico ai danni della flotta britannica. Il cuore della narrazione riguarda la vicenda del mercantile belga “Kabalo”: la nave, a dispetto della proclamata neutralità, apre il fuoco contro il sommergibile. Todaro risponde all’attacco e li affonda; subito dopo, nonostante gli ordini contrari dei superiori e le difficoltà materiali, decide di accogliere i naufraghi a bordo e di salvare loro la vita. Alcuni prigionieri tentano un sabotaggio, ma vengono presi a ceffoni da Todaro e da entrambi gli equipaggi. Il resto del viaggio salda la comunità dei marinai e si creano momenti di fraternità tra naufraghi e carcerieri. Approdati nelle neutrali Azzorre, il comandante fa sbarcare i prigionieri; quando il capitano belga gli chiede le motivazioni del suo agire, il protagonista risponde: “Perché siamo italiani”.
De Angelis fa dell’Oceano il vero protagonista del film, ventre allo stesso tempo terribile e magnifico che accoglie il sottomarino. L’immersione del sommergibile è una discesa verso un “altrove” in cui si manifestano i caratteri peculiari dell’equipaggio, celati sulla terraferma dietro i riti e le convenzioni della socialità. Allo stesso tempo, questo luogo “altro” consente ai personaggi di elevarsi al rango di eroi. Emblematico è il caso di Vincenzo Stumpo (Gianluca di Gennaro), umile pescatore meridionale che si offre di tagliare le catene di una mina che sta bloccando il “Cappellini”. Il sistema di respirazione subacquea non regge e l’uomo fa appena in tempo a salvare la vita all’equipaggio prima di annegare. Il suo cadavere viene mostrato mentre si allontana verso il buio abissale in una ripresa estetizzante: lo stesso estetismo che caratterizza le riprese sottomarine del film.
Le connotazioni metafisiche dell’ambiente e il trascendere del singolo nella comunità sono tipiche del cinema di regime. Nel film di Augusto Genina Lo squadrone bianco (1936) le dune diventano la cornice quasi astratta di una trasformazione antropologica del personaggio principale, che da abitante “corrotto” dalla modernità si trasforma nel degno erede del suo superiore, il capitano Santelia (Fosco Giachetti). In un modo non troppo diverso, il mare di De Angelis tramuta la concretezza dell’ambientazione acquatica in un paesaggio dello spirito che permette la sublimazione dell’umano. La voce over di Stumpo prosegue anche dopo la sua morte: l’atto eroico lo ha reso immortale, proprio come il bambino squadrista di Vecchia guardia, vero e proprio epos del cinema di regime, diretto nel 1934 da Alessandro Blasetti; ma anche come (e siamo nell’immediato dopoguerra) l’equipaggio protagonista di Fantasmi del mare (1948) di Francesco De Robertis, regista e capo del Centro Cinematografico della Regia Marina durante gli anni del conflitto.
Come l’uomo trascende il paesaggio, così l’individuo trascende se stesso: le differenze geografiche che animano iniziali contrasti interni tra i marinai, sottolineati da usanze particolari o dall’utilizzo di dialetti locali, si amalgamano nel corso del film nell’autocoscienza dell’appartenenza alla comunità nazionale, ribadita e manifestata dalla battuta finale del protagonista. Comandante ripropone una concezione di italianità che supera le differenze e quasi riprende il motto mussoliniano di un popolo di “santi navigatori e poeti”, con tanto di momenti culinari e musicali a bordo del sottomarino.
L’unico personaggio a conservare una forte individualità, alimentata da contraddizioni risolte però nel paradigma eroico, è proprio Todaro, interpretato con vigore e passione da Favino. Il comandante del “Cappellini” è un personaggio bigger than life, schiavo per necessità degli antidolorifici, tendente a una dimensione superiore in quanto appassionato di mistica e di esoterismo, dedito con lo spirito e con il corpo (ferito) al dovere, ma anche abbastanza superomistico da contravvenire agli ordini dei superiori. Come i protagonisti del cinema fascisti erano alter-ego del Duce, così Todaro può essere considerato un alter-ego mussoliniano: spiritualista e allo stesso tempo materiale, leader irrispettoso di procedure e gerarchie, spietato e paterno (davanti alla ribellione dei prigionieri belgi, Todaro li castiga come si farebbe con dei figli un po’ vivaci: con una buona dose di schiaffoni).
Come Mussolini, Todaro ama le donne. La funzione del femminile si limita al conforto sessuale e spirituale del maschio: Rina, moglie di Todaro (Silvia D’Amico), e le crocerossine diventano idealizzati oggetti di nostalgia. Non appena il sottomarino abbandona il porto, le donne però scompaiono dal film. Non sapremo mai le risposte di Rina alle lettere che il marito le scrive: le sue apparizioni sono confinate nelle fantasie del protagonista. Una traiettoria identica a quella del cinema coloniale di regime che prevedeva appunto la “scomparsa”, l’allontanamento o la “redenzione” del personaggio femminile: gli esempi sono numerosissimi, dai già ricordati Lo squadrone bianco e Sotto la croce del Sud a Giarabub (1942) di Goffredo Alessandrini, nel quale la co-protagonista (Doris Duranti) diviene “accettabile” soltanto come infermiera, alla quale viene demandato il lavoro di cura dei soldati feriti.
Al di là delle caratteristiche che abbiamo osservato, è un altro l’aspetto problematico di Comandante, probabilmente quello decisivo. Il film di De Angelis non dice assolutamente nulla del contesto della guerra dell’Asse. La regia non mostra mai ritratti di Mussolini o altri emblemi fascisti, né lo stesso Todaro viene mai apertamente qualificato come fascista (nemmeno nei cartelli finali!). Al contrario, nel suo primo discorso all’equipaggio, il comandante tiene a rimarcare come il Duce non sarà con loro una volta lasciato il porto – anche questa, a voler ben vedere, è l’ennesima somiglianza con il cinema di regime, nel quale Mussolini era una figura pressoché assente: al massimo appariva come ritratto su un muro.
Anche i personaggi di origine belga sottolineano questa indeterminatezza, sostenendo che inglesi e fascisti si equivalgono: la matrice ideologica scompare di fronte agli uomini. I personaggi, del resto, non si interrogano mai sulla dimensione valoriale della loro partecipazione alla guerra, come ha riscontrato in una recensione lo storico Fabio De Ninno: ogni loro esitazione si risolve in un’azione dettata dalla cieca obbedienza agli ordini e ai gesti del comandante. Seguendo la stessa logica, il film rinuncia a dare un volto, o anche solo una qualche corporeità, agli Alleati, limitandosi a mostrarli fugacemente nel corso di un attacco aereo o nei momenti di sospensione del conflitto: una “metafisica del nemico” coerente con la propensione alla trascendenza che caratterizza il film.
Insomma, a dispetto delle intenzioni dei suoi artefici, le scelte di regia e di sceneggiatura rendono Comandante diabolicamente affascinante quanto ideologicamente pericoloso. “Meglio porco che fascista”, dichiarava orgogliosamente il protagonista di Porco rosso (1992) del grande Hayao Miyazaki. De Angelis e Favino sembrano voler dire il contrario: è meglio essere un “fascista buono” che una cattiva persona. L’afflato umanitario del film, rivendicato a più riprese e caratterizzato da una generica quanto stereotipata nozione di “italianità”, dimostra però come un approccio ostentatamente a-ideologico possa comunque portare con sé il germe di una rappresentazione populista e conservatrice.