Speciale

Intervista con Jeannette Ehlers / Under a different sun

4 Novembre 2016

Per Why Africa? EX NUNC presenterà una serie d’interviste con artiste africane e delle Diaspore, partecipanti al progetto curatoriale UNDER A DIFFERENT SUN. Il programma espositivo e performativo, che avrà luogo a Venezia a Dicembre 2016, si concentrerà su storie perdute e memorie negate, riviste attraverso prospettive femminili e diasporiche. UNDER A DIFFERENT SUN è un progetto ideato e curato dalle co-direttrici di EX NUNC, Chiara Cartuccia e Celeste Ricci, nel più ampio contesto della terza edizione di Venice International Performance Art Week | Fragile Body-Material Body, curata da Verena Stenke e Andrea Pagnes.

 

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English Version

 

La seconda intervista della serie vede la partecipazione dell’artista multimediale, danese d’origini caraibiche, Jeannette Ehlers. Ehlers sceglie, quali temi centrali nella sua ricerca, narrative storiche precarie e marginalizzate, moderne e antiche: tratta degli schiavi, nuovi e vecchi colonialismi vengono scandagliati dall’artista attraverso un’acuta pratica performativa.

 

EX NUNC - La tua pratica artistica abbraccia argomenti molto ben definiti, quali la commemorazione, il recupero di narrative storiche dimenticate, e la rimessa in discussioni di problematiche legate a razzismo e colonialismo. Da artista danese, ma di origini afro-caraibiche, qual è il tuo specifico modo d’affrontare questi temi?

 

Jeannette Ehlers - Sono particolarmente interessata a dare la giusta visibilità a questi argomenti, che sono normalmente avvolti dall’ignoranza, dall’incuria e dal silenzio, specialmente nell’ambiente danese. Nel mio lavoro cerco sempre di stimolare domande complesse, in modo creativo e sottile. Il mio approccio è spesso personale ed è importante per me che la mia pratica rifletta questa caratteristica, pur avendo risonanza in un discorso globale.

 

Jeannette Ehlers, Atlantic (Endless Row), 2009.

 

EXN - Parlando di colonialismo, l’ampio coinvolgimento della Danimarca nella tratta atlantica degli schiavi è un fatto quasi sconosciuto, per un pubblico non danese. In quale maniera cerchi di sensibilizzare l’opinione pubblica su questi temi, in Danimarca e all’estero?

 

J.E - Sì, abbiamo a che fare con un’incredibile amnesia coloniale scandinava. È un dato particolarmente significativo, e riflette la mentalità di molti abitanti della regione. Il mio lavoro tratta queste questioni su vari livelli, tanto nei lavori video quanto nelle performance. Sento la necessità di continuare a investigare ostinatamente e cercare di smuovere la coscienza circa l’impatto che le strutture razziste, costituire durante l’era coloniale, hanno sulla società contemporanea. C’è ancora moltissima strada da fare, ciò non di meno ho notato un crescente interesse per l’argomento, nei media e nel pubblico. Un dato questo che trovo sicuramente confortante.

 

Ho una vasta rete internazionale di collaboratori e partner, che sono stati e sono di grande ispirazione per me. Sono stata coinvolta diverse volte nell’organizzazione dell’evento de-coloniale BE.BOP (Black Europe Body Polics), fondato dalla curatrice Alanna Lockward. Questo è solo uno dei molti modi in cui tento di accrescere la consapevolezza sui temi del colonialismo. Mi dedico in modo saltuario anche all’insegnamento, un’attività che trovo molto fruttuosa e appagante. I giovani hanno una mentalità aperta, si dimostrano desiderosi di imparare e di attivare un cambiamento. Sono rassegnata per quel che concerne la mia generazione e le precedenti, ma ho ancora fiducia nelle generazioni più giovani. L’apparato coloniale è “solo” una sovrastruttura, eppure guardate dove ci sta portando. Il mondo sanguina. No, le cose non devono rimanere come sono…

 

EXN - Il video The Invisible Empire vede tuo padre quale narratore di una storia complessa. Il lavoro connette la storia personale della tua famiglia, nel contesto della tratta atlantica degli schiavi, e il traffico di esseri umani che avviene ai giorni nostri. Sembra affrontare la questione dell’oralità, come modo diverso e nuovo di raccontare la Storia e le storie. Puoi dirci qualcosa di più circa questo lavoro?

 

J.E - The Invisible Empire ha come oggetto la moderna schiavitù e penso sia cruciale fare diretto riferimento a questo problema, quando si parla di questioni coloniali. Una linea precisa connette le due questioni. Nel video uso mio padre, diretto discendente di schiavi africani, come protagonista, in modo tale da connettere il personale al globale e legare la schiavitù trans-atlantica al traffico d’uomini di oggi. Entrambe le cose affondano le radici nello stesso sistema, quello capitalista.

 

Jeannette Ehlers, Black Bullets, 2012. 

 

EXN - La serie fotografica Atlantic (Endless Row) è stata ispirata da un viaggio in Ghana. Quest’opera è un esempio pertinente della maniera in cui costruisci i tuoi lavori, attraverso un processo di sottrazione, piuttosto che d’addizione. In Atlantic (Endless Row) crei una potente immagine performativa, includendo solo pochi elementi visuali. Puoi dirci di più a riguardo?

 

J.E - Come già accennato, nel mio lavoro miro a ottenere un’espressione visuale discreta che al tempo stesso implichi una significativa complessità. In Atlantic (Endless Row) l’immagine viene manipolata, così da cancellare alcuni elementi molto importanti. Le foto, scattate su una spiaggia in Ghana, mostrano sulla riva il riflesso di una fila di persone che camminano verso l’acqua. L’unico elemento visibile è il loro riflesso.

 

Cancellando la presenza fisica di queste persone, punto il dito alla storia coloniale danese, che è stata dimenticata e cancellata. Ciò nonostante le strutture coloniali sopravvivono. Hanno funzionato come fondamenta per l’industrializzazione della società moderna. Cancellare i protagonisti della foto significa anche sottolineare la dis-umanizzazione sistematica che la schiavitù implica. Ogni cosa viene portata via: famiglia, identità–tutto! Il trauma collettivo della diaspora africana riveste un grandissimo interesse per me.

 

EXN - Un altro lavoro di grande impatto visivo è il video Black Bullets. In quest’opera l’elemento sonoro gioca un ruolo fondamentale. Cosa comunica il suono in questo pezzo in particolare, e come lo usi nella tua pratica artistica?

 

J.E - In Black Bullets l’elemento sonoro è fondamentale. Una serie di figure nere si muovono in una sequenza ripetitiva, attraversando un orizzonte argentato, al battito di un suono/ronzio pesante e ipnotico. Black Bullets è un tributo alla rivolta ed è ispirato all’insurrezione di schiavi africani di Santo Domingo, sotto la guida dell’ex schiavo Toussaint L’Ouverture, evento che ha aperto la strada all’instaurazione dello stato indipendente di Haiti nel 1804. La Rivoluzione di Haiti è iniziata come una cerimonia voodoo, a Bois Caiman, Haiti. La colonna sonora di Black Bullets evoca uno stato di trance, che esprime forza e persistenza. Sono una persona attratta dalle sonorità, e uso il suono come uno strumento in grado di creare narrative ed enfatizzare l’immagine.

 

Jeannette Ehlers, The Invisible Empire, 2010.

 

 

EXN - Circa la tua peculiare chiarezza visiva, sembra che tu traduca questa stessa attitudine anche nella tua pratica performativa. Nella performance Whip It Good concentri una complessa storia di schiavitù in un solo, violento gesto che diviene creativo. La performance vede la partecipazione del pubblico, ai cui membri è chiesto di prendere il tuo posto e frustare la superfice bianca. Qual è stata la risposta dei diversi tipi di pubblico che hai incontrato fino ad ora?

 

J.E - Ho principalmente avuto esperienza di persone molto coinvolte emotivamente nel pezzo – anche nel caso scelgano di non intervenire direttamente. Frustare è un’azione molto brutale e il pubblico ha varie motivazioni nel decidere se interagire o non farlo. Sicuramente possono esserci differenti interpretazioni del pezzo e, più importante, percezioni assolutamente contraddittorie, a seconda di chi sia a tenere la frusta. Ho presentato Whip It Good in diverse contesti, e ogni luogo è diverso. Ho notato impressionanti contraddizioni tra l’esperienza di esecuzione di Whip It Good a Copenhagen, davanti a un pubblico composto a larga maggioranza da danesi bianchi, che non si sono tirati indietro nello sferzare la tela, a quella di Città del Capo, con un pubblico misto di bianchi e neri, dove solo le persone nere prendevano in mano la frusta. Questo contrasto mostra la consapevolezza e la connessione con l’eredità coloniale di queste due nazioni. E mette in forte evidenza il totale scollegamento dei danesi al loro passato (e presente) coloniale.

 

EXN - Credi che la pratica del performativo possa stimolare un cambiamento nella comprensione dei passati storici, e nella ridefinizione dei modi della storiografia?

 

J.E - Credo che la pratica della performance possa avere un grandioso impatto sulla comprensione della storiografia e del presente. Un lavoro aggressivo come Whip It Good è in grado di accrescere la consapevolezza. Le esperienze del pubblico sono molto inquietanti o piuttosto liberatorie. Ancora una volta, dipende da molti fattori: ragioni personali e contesto storico, che è così strettamente legato al pezzo. È, per esempio, un uomo bianco o una donna nera a tenere la frusta? Quanto è consapevole il partecipante? E così via. Ma, dopo tutto, credo che questo confronto possa veramente aprire gli occhi; perché genera nuove riflessioni e inedite consapevolezze sulla colonialità. 

 

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