Università: docente oratore o designer di esperienza?
L’esperienza della pandemia nell’Università ha fatto emergere le contraddizioni e i problemi del modello di didattica a cui per anni siamo stati abituati.
Innanzitutto, la differenza tra frequentanti e non frequentanti fondata sulla presenza, cioè sulle variabili spaziali e temporali. Era frequentante chi era in aula, chi poteva scegliere di esserlo per volontà, possibilità economica (pensate ai costi di trasporto, di vitto e alloggio) e condizioni di vita (pensate a studentesse e studenti lavoratori o disabili o genitori o caregiver). La frequenza era fondata su una sincronia dei corpi, sull’esperienza di vita in un ambiente comune.
Abbiamo scoperto nell’esperienza della didattica online o ibrida la frequentazione della lezione da parte di persone che non avremmo comunque avuto in aula. Con la difficoltà di ritagliarsi nella routine della vita il tempo di seguire i corsi. Anche in modi bizzarri. Abbiamo avuto chi seguiva nelle ore di ufficio tenendo le cuffie e portando avanti il proprio lavoro sulla scrivania. Chi dal cellulare mentre consegnava pacchi trasportati in auto o moto attraverso la città. Ma anche, la maggioranza, che da casa viveva la routine domestica e i suoi spazi inserendo i ritmi delle lezioni che punteggiavano la giornata. Frequenza diventava così un’esperienza asincrona, che metteva in gioco i corpi in spazi diversi, salvando l’unità di tempo e flessibilizzando quella di spazio.
Abbiamo anche imparato a confessare a noi stessi che il modello della lezione-conferenza su cui molte e molti di noi sono cresciuti non era l’esperienza più desiderabile. Lo abbiamo scoperto in particolare di fronte ai quadrati neri e silenti dei profili utente su Zoom, Meet o Teams mentre parlavamo al nostro schermo del computer. Il bisogno di interazione non era pienamente soddisfatto dalla minoranza che faceva domande in chat, attraverso qualche audio acceso o, addirittura, accendendo la webcam e facendoci entrare nella loro intimità domestica. L’Università pre-pandemica con le sue aule pollaio saturava il bisogno di interazione della presenza dei corpi, nella possibilità di intercettare sguardi, nell’attività del mostrarsi, nell’illusione di interattività che il dispositivo classe produce. È vero che, come ci dice la letteratura – e molte e molti di noi lo hanno sperimentato – l’online aumenta le interazioni possibili perché le persone sentono meno la pressione degli altri, del gruppo di pari, ma il modello di scalabilità dei numeri dei presenti (online o offline che sia) riproduce comunque la legge di Pareto: su 100 presenze 20 saranno reattive, le altre faranno da spettatori. Forse il principio 80/20 andrebbe rivisto nel nostro caso perché a fronte di una lezione in un cinema con 500 persone la dispersione del contatto abbasserà la quota dei partecipanti.
So che molte colleghe e colleghi potrebbero parlarmi delle loro eccezioni e della straordinaria capacità partecipativa delle loro studentesse e dei loro studenti, dei metodi di didattica innovativa che si possono mettere in gioco, della possibilità di usare la metodologia della classe capovolta o di utilizzare tecnologie come Wooclap che consentono di rendere interattiva la classe attraverso lo smartphone. Ma si tratta, appunto, di eccezioni non di come funziona “normalmente” la nostra Università. Non l’Università di massa. Se il dispositivo didattico di massa è trasmissivo allora è facile che si finisca per generare spettatori: ci sono studi che mostrano come l’attività cerebrale di uno studente sia la medesima quando segue una lezione frontale o quando guarda la televisione.
Abbiamo, infine, imparato che la tecnologia in classe può essere complice dell’apprendimento e che questa esperienza è gestibile da ogni docente. Ognuno a suo modo, nel momento del bisogno. Ma è forte la pulsione alla restaurazione dell’esperienza originaria quando le condizioni si normalizzano. Anche perché la pressante esigenza con cui è stata implementata la virtualizzazione dei corsi non è stata accompagnata da una pianificazione accurata, non ha avuto la possibilità di un tempo di adattamento e non è stata supportata da un accompagnamento pedagogico (e spesso tecnologico) tale da consentire di passare dall’insegnamento a distanza di emergenza a un’istruzione online di qualità. Se pensiamo che la didattica online o blended sia quella che abbiamo sperimentato negli anni scorsi, allora partiamo da una convinzione sbagliata.
Eppure, molte delle nostre aule sono oggi attrezzate per gestire con semplicità lo streaming, con touchboard con 4 microfoni panoramici, telecamere che seguono il docente… i fondi per questa tecnologizzazione sono arrivati dal MUR a tutte le Università. Questa tecnologia oggi è lì, presente a ricordarci le potenzialità che possiamo decidere di mettere in gioco o meno.
Qualsiasi dibattito sul presente dell’Università post-pandemia non può che partire dall’esperienza dell’apprendimento e dalle condizioni – dai bisogni – di vita di studentesse e studenti: deideologizzando la distinzione frequentanti/non frequentanti, conciliando l’esperienza del singolo con quella dell’Università di massa, considerando che il dispositivo-aula trova nel digitale una forma di abilitazione e potenziamento nuova.
Per farlo occorre innanzitutto uscire dal binomio che ha caratterizzato la didattica di trasmissione frontale-verifica dei risultati di apprendimento attesi a fine del percorso e uscire anche dall’esplorazione sperimentale delle strade dell’innovazione didattica (la letteratura è ampia così come le pratiche implementate sperimentalmente in molti Atenei) per farla diventare un’attitudine mentale, un punto di tensione cui tendere naturalmente in ogni corso che si progetta. Occorre cioè uscire dalla progettazione dei contenuti per entrare nella progettazione dell’esperienza di apprendimento; passare cioè dalla figura del docente oratore (secondo il modello della lectio medievale) a quella del docente come designer esperienziale, come suggerisce il Metid del Politecnico di Milano che ha sviluppato uno strumento di progettazione didattica per l’apprendimento attivo anche per classi numerose denominato Rete dell’apprendimento. Il nucleo di questa metodologia, descritto nel volume Progettare l'innovazione didattica, è che le esperienze in grado di fare da catalizzatore dell’apprendimento dipendano da una condivisione della conoscenza tra le persone: ogni singola studentessa e ogni singolo studente unitamente ai suoi colleghi e alle sue colleghe attuali ma anche quelli degli anni precedenti, gli insegnanti e i loro collaboratori o colleghi, i soggetti esterni come autrici e autori di libri adottati o di ogni risorsa digitale disponibile, ma anche le famiglie, gli attori esterni culturali, istituzionali, ecc. Tutti questi nodi agiscono in un ambiente specifico e sono collegati tra loro grazie a canali comunicativi attraverso i quali produrre e scambiare contenuti, formando così la rete in cui le esperienze prendono forma. Modalità come queste, capaci di ripensare l’apprendimento a partire dai risultati di apprendimento attesi e che utilizzano le tecnologie già disponibili o implementabili nelle classi fisiche e online per costruire una dimensione attiva e riflessiva, sono già alla portata delle Università. Vanno pianificati percorsi di accompagnamento dentro questa realtà di innovazione didattica in cui i docenti sono hub di risorse intellettuali e competenze e, vale la pena ribadirlo, designer di apprendimento.
Resta il tema di chi non può frequentare in presenza le aule. La risposta non può rimandare alla sola esistenza delle Università telematiche. Non può essere una risposta che rimanda l’apprendimento ad una scelta di canale trasmissivo, trasmissivo-orale vs trasmissivo-online. La studentessa o lo studente non frequentante è in realtà non presente spazialmente ma è parte, comunque, di un’unica classe: si tratta di disegnare la sua esperienza e di come possa essere messa in rete con le altre.
Qui ci possono aiutare le tecnologie di connessione presenti in aula (ricordate: gli investimenti del MUR), le piattaforme di streaming (che abbiamo imparato a frequentare e usare) e i sistemi di Learning Management System (come, ad esempio, Moodle) se riusciremo a disegnare esperienze didattiche a prescindere da una ideologizzazione che vede l’Università “vera” come solo quella in aula fisica e fondandole sui bisogni di vita di studentesse e studenti. Sembra di ripercorrere i pregiudizi del dualismo digitale fondato sulla convinzione che online e offline siano realtà separate e distinte, quando dovremmo partire dall’unitarietà dei risultati di apprendimento che ci aspettiamo e come ottenerli in un design ibrido dell’Università.
Occorrerà lasciare maturare la riflessione negli ambienti accademici di quali modelli economici potranno supportare questa realtà ibrida; come cioè tener conto delle esigenze del corpo studente, dei costi dell’istruzione, delle realtà economiche delle città in cui le Università risiedono, ecc. Ma il vero punto è che la redditività economica delle Università è messa in discussione a causa del calo demografico che ci attende nei prossimi anni, come mostrano i dati sulle proiezioni della popolazione giovanile 18-21 anni di Istat che indicano come questa sia destinata a diminuire fino al 2042, e da un basso ritorno sull’investimento che spesso deriva dalla ricerca. Per questo ci sembra importante aprire una riflessione su come le Università si debbano allontanare dalle posizioni più istituzionali e concentrarsi sul loro ruolo pubblico e civico per costruire una loro posizione più sostenibile, aprendosi alla dimensione locale, alla comunità di stakeholder e alla progettazione di “università per gli altri”, guardando cioè ai bisogni di apprendimento e di competenze delle imprese, delle scuole, dei servizi pubblici e delle comunità nelle loro vocazioni territoriali, come ci ricordano Ian Matthias e Mike Boxall, rispettivamente head e expert higher education alla PA Consulting. Da questo punto di vista dovremo guardare con sempre più interesse anche le esperienze dei MOOC (Massive Open Online Courses) aperti a tutti e tutte e con una vocazione civica pluralista.
Le Università dovranno poi anche sempre più aprirsi condividendo risorse e collaborando con i “concorrenti”, costruendo veri e propri ecosistemi per l’apprendimento che coinvolgano non solo altre Università (come i progetti PNRR stanno evidenziando ma sulla ricerca, coinvolgendo anche istituzioni e imprese) ma anche piattaforme di istruzione online (come ad esempio Cooursera).
L’Università post-pandemia è, insomma, una sfida aperta in cui didattica (su cui qui ci siamo maggiormente concentrati), ricerca e terza missione – che dell’Università costituiscono i tre pilastri – dovranno funzionare sempre più in simbiosi misurandosi con l’impatto civico e sociale che sapranno generare sempre più come parte di un ecosistema e sempre meno come realtà arroccate.
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