Venetia, piccola patria
“Perché l’indipendenza è una cosa normale per le piccole nazioni”
La via, dal centro del paese, continua sinuosa, costeggiando i fossi. Passa la strada provinciale, diventa via Pagana, così chiamata per differenziarla da Via Santo Stefano, che conduce ad una chiesetta. Arriva all’Arginino, e poi ancora oltre, fino al Canal Bianco. Da lontano, tra i campi di granoturco che cambiano altezza e fanno sentire le biciclette grandi o piccole secondo la stagione, si intravedono la centrale di Ostiglia e il santuario della Comuna, disegnato da Giulio Romano e ora sostenuto da contrafforti dopo il terremoto del 2012. Ecco, a metà di tutto questo, tra il filare di platani e il vociare delle rane, nel mezzo della nube di zanzare e poco lontano dalle Calandre, potrebbe esserci un confine, il confine del Veneto indipendente e federale. Un confine che risale tra le risaie di Bonferraro e Castel d’ario, che separa il Quadrilatero, e ancora su, fino al lago di Garda, tra Peschiera e Desenzano. Un confine difficile da individuare, in queste terre tenute insieme dall’acqua più che dalle pietre, terre in cui la nebbia è più invalicabile di qualsiasi muro.
Un confine incomprensibile, soprattutto per me, che vengo proprio da lì. Sono nata e cresciuta a Melara, provincia di Rovigo, paesino di meno di 2000 anime sul Po, ultimo comune della provincia a ridosso della provincia di Verona e dirimpettaio della Lombardia. Il Polesine è un territorio noto soprattutto per l’alluvione del 1951, per Matteotti, e per essere un pezzo di Emilia in Veneto. L’accento lo tradisce, è più semplice capire un piacentino di un bellunese. Questo lembo di pianura è stato greco, etrusco, romano, veneto, è divenuto possedimento benedettino e poi, bonificato, estense, Gonzaga, francese e austriaco, in parte sempre rimasto stato pontificio, fino alla cessione da parte dell’Austria alla Francia di Napoleone III, a seguito di un Plebiscito. Quel Polesine bistrattato che, tuttavia, rientra nel progetto di indipendenza della Venetia.
Un progetto che racconta di un’identità forte, chiaramente veneta, che chiede a gran voce l’autodeterminazione del suo popolo, nonostante ai miei occhi autoctoni la caratteristica specifica di queste zone sia quella dell’identità debole: proprio per queste frammentazioni, ogni paese vanta il proprio dialetto con sfumature e accenti che raccontano queste storie e queste ibridazioni. Vero che Melara è lontana dai successi del Padovano, del Trevigiano, del Vicentino, del Veronese, o dalla celebrità di Venezia, ma il progetto tocca tutti, e sostiene che siamo anche tutti d’accordo, avendo votato con maggioranza bulgara nell’intervallo 16-21 marzo. Saranno le mie origini, o l’occhio inquieto per le vicende della Crimea che per tutte queste ragioni ho deciso di andare a leggere passo passo quali fossero gli obiettivi, gli argomenti, e, soprattutto, quali saranno gli esiti del voto previsti.
Dove/Quando votare
Il voto è stato esercitato sia online, con registrazione sul sito www.plebiscito.eu, sia in alcuni centri deputati al voto che spaziavano nel territorio per varietà: Tabaccheria Crazy tab di Montegrotto Terme, Distributore Eni di Monselice, bar Aroma di Cartura, il negozio di articoli sportivi Slalom di Cortina d’Ampezzo, la locanda Chiocciola a Quero, nella Valdobbiadene del Prosecco; la pasticceria Milani di Rovigo, ogni luogo è quello giusto per richiedere l’indipendenza. Il progetto si pone in una forte linea di rottura sia con le precedenti istanze indipendentiste venete (tra tutte, il Tank dirottato in Piazza San Marco e la presa del campanile da parte dei Serenissimi nel 1997) che richiedevano una secessione vera e propria, sia con il discorso mainstream sulla Padania, cercando con lessico ammiccante di proporre un nuovo modello di indipendenza che non può non essere sposato da tutti i cittadini operosi.
Non chiamiamola secessione
Come si legge nelle ragioni del Sì: “Gli oppositori dell’indipendenza amano chiamarla secessione. In realtà, come paese indipendente, con un seggio ai tavoli decisionali dell’Unione Europea, delle Nazioni Unite e di ogni organismo internazionale, la Venetia sarebbe molto meno isolata di quanto non sia ora. […] Il parlamento veneto deve poter avere la responsabilità di trattare i temi di importanza globale. Veneto Sì ritiene questo un fatto importante per ritornare a dare al mondo il contributo della tradizionale saggezza che Venezia per secoli ha portato alla causa della pace nel mondo. I veri secessionisti, i veri separatisti sono coloro che vogliono negare ai veneti una voce internazionale”. Il modello dell’indipendenza proposto è quello, testuali parole, di un nazionalismo civico: “Sì promuove un nazionalismo civico. Ciò significa che noi riteniamo che chi vive in Venetia abbia una parte importante da svolgere nel nostro nuovo paese, indipendentemente dal proprio luogo di nascita, o dal proprio patrimonio etnico. Noi perseguiamo il nostro obiettivo esclusivamente attraverso mezzi pacifici e democratici, questa è la ragione per cui molte persone di diversa origine nazionale e grande parte delle minoranze etniche venete voteranno sì nel Plebiscito per l’indipendenza del Veneto”. In altre parole, poiché non siamo una comunità organica (Tönnies, ma soprattutto Weber, avrebbero usato il termine Gemeinschaft) costruiamoci come società funzionale fondata sull’interesse (Gesellschaft).
Il sogno indipendentista
Il lungo documento ha i toni dell’epopea e dei preamboli costituzionali, con un richiamo ed un ringraziamento al coraggio dei visionari che hanno perseguito, con slancio donchisciottesco, il sogno dell’indipendenza: “uno straordinario viaggio che ben pochi visionari avevano avuto il coraggio di mettere nero su bianco solo pochi anni or sono. Oggi si può dire che essere indipendentisti è un fenomeno che riguarda la massa, ma ciò è stato ed è possibile perché alcune persone coraggiose, capaci e responsabili hanno indicato la strada da percorrere e le modalità per farlo, quando magari era scomodo esporsi, da un punto di vista anche personale e lavorativo”. E ancora, qualche riga più sotto: “I grandi obiettivi si raggiungono perché gli uomini decidono di perseguirli con tenacia. L’aspetto finale è inevitabilmente diverso dall’immaginazione che li aveva originariamente portati ad intraprendere il viaggio alla scoperta di nuovi mondi e concezioni. Mondi non necessariamente terraquei, ma sempre luoghi di speranza che trovano locazione nel nostro immaginario”. Il simbolo deputato è il Tiglio, albero umile, come i Veneti.
Il grande cuore veneto
Nel documento programmatico, sono esposti chiari obiettivi e le finalità di questo sogno: la modernità (“ la costruzione di un’indipendenza, moderna, snella, tollerante, aperta all’Europa e al mondo e in grado di portare i Veneti nell’era moderna da protagonisti, come ci meritiamo. Molti dicono che sia un’impresa impossibile. Noi crediamo invece che sia impossibile continuare a restare sudditi di uno stato che ci sta separando dal novero degli stati che appartengono al mondo civile”); la normalità (“Veneto Sì vuole che la Venetia abbia ciò che ogni altro Paese si vede garantito: la libertà di decidere in quale tipo di società si vuol vivere e come ci si vuole rapportare con il mondo circostante. In altri termini, la normalità”); il cuore, l’orgoglio (“L’indipendenza è necessaria per far battere nuovamente il grande cuore veneto presente in ogni angolo del mondo, un cuore che suscita in molti un profondo sentimento di sano orgoglio”).
Peace Keeping e accoglienza
La dimensione della legalità viene spesso evocata, così come la dimensione non interventista futuro stato veneto: “Sì sostiene sempre la legalità internazionale. Il governo veneto nella Venetia indipendente non avrebbe mai inviato soldati veneti in un conflitto di dubbia legalità come quello in Irak”. Inoltre, si prevedono frontiere porose, ma solo per gli uomini di buona volontà: “Il diritto automatico alla cittadinanza sarà aperto a coloro che vivono legittimamente in Venetia e sono in possesso di requisiti minimi di compatibilità sociale (ad esempio, conoscenza della lingua, sussistenza economica, dimostrazione di senso civico), a coloro che sono nati in Venetia e a coloro con un genitore nato in Venetia. Tutti gli altri saranno liberi di fare domanda e potrebbe essere riconosciuta la doppia cittadinanza, sempre compatibilmente con i prerequisiti minimi anticipati”.
Il sostegno del diritto internazionale
Nel lungo documento, vengono richiamate le esperienze recenti di comunità indipendenti (Finlandia, Islanda, Nuova Zelanda, Groenlandia, Montenegro, Norvegia, Repubblica Ceca e Slovacchia, Estonia, Lettonia e Lituania) e i richiami al principio dell’autodeterminazione dei popoli, fondamento giuridico adito dai referendari: “Il diritto all’autodeterminazione si attua pertanto mediante il referendum del 16-21 marzo 2014 al quale parteciperanno tutti i cittadini residenti in Veneto. Questo percorso è stato attuato recentemente da Sud Sudan (indipendente dal 2011), Groenlandia (indipendente dal 2009), Montenegro (indipendente dal 2006). In questi paesi i cittadini hanno votato un referendum con monitoraggio degli organi internazionali, che hanno garantito la validità del voto. Lo stesso referendum si può fare anche in Veneto”. Come rafforzativo, viene richiamata la sottoscrizione del Patto di New York (L.881/1977) “Lo stato italiano sottoscrive il diritto all’indipendenza di un Popolo”.
La Costituzione da scrivere (e quella da ignorare)
Sul piano del diritto interno, i proponenti richiamano la Costituzione all’art. 10, in cui l’ordinamento si conforma alla norme del diritto internazionale, la L.340/1971 (Statuto della Regione Veneto) che all’art. 2 dice: “L'autogoverno del popolo veneto si attua in forme rispondenti alle caratteristiche e tradizioni della sua storia”. Infine la legge 85/2006 che depenalizza l’indipendentismo come reato d’opinione. La costruzione è tesa ad un legalismo di fatto del referendum. Si evita scientemente però l’articolo 5 della Costituzione (sull’indivisibilità della Repubblica) così come non si considera la gerarchia delle fonti, e la superiorità dei principi fondamentali (tra cui lo stesso articolo 5) sulle fonti internazionali. Il passaggio viene ripreso e dichiarato, cercando la giustificazione normativa che rende preferibile l’indipendenza all’autonomia: “Ottenere l'autonomia è molto più difficile che ottenere l'indipendenza. L'indipendenza richiede il voto affermativo della maggioranza dei Veneti, l'autonomia il voto favorevole dei 2/3 del parlamento italiano, ampiamente rappresentato dai parlamentari delle regioni in costante deficit finanziario”. Perciò, largo all’indipendenza.
La Venetia starà bene, molto bene
L’esito del voto è stato plebiscitario, con quasi due milioni e mezzo di votanti, e l’89% favorevoli al sì. Non ho votato, soprattutto perché non credo che siano queste le forme democratiche di cui abbiamo bisogno. E mi domando, e mi sono domandata perché sostengo l’autodeterminazione della Palestina, del Kurdistan e invece fatico a comprendere le altre cause indipendentiste. Eppure una differenza c’è, profonda. Se c’è una caratteristica che accompagna storicamente le lotte per l’autodeterminazione dei popoli è quella dell’oppressione identitaria, che poi spesso diviene contraltare di conflitti economici.
Evento storico che il Veneto non ha vissuto, passando da una dominazione all’altra, essendo sempre rimasto periferia di altri imperi, ma mai oppresso, sempre fiorente. Al contempo, la seconda ragione che mi inquieta è che parlare di nazionalismo, oggi, è sempre più facile (come ha dimostrato il voto francese), e, soprattutto, ha sempre più presa.
La costruzione classica dell’alterità e soprattutto la retorica delle anime belle ha invaso il dibattito populista. Così, un referendum promosso da un partito minore su una piattaforma online poco controllata riesce a spostare le opinioni dei Veneti, che nell’indagine DEMOS promossa da Ilvo Diamanti (su un campione piccolo di 806 casi) si dicono favorevoli all’indipendenza. E, soprattutto, riesce a produrre una crasi che crea consenso tra antipolitica ed autodeterminazione: mi autogoverno perché sono meglio di te, e sono di cuore, orgoglioso, virtuoso, laborioso, normale.
Non credo pensassero questo i redattori della pace di Westfalia quando nel 1648 hanno affermato il principio dell’autodeterminazione dei popoli. Il loro fine (dichiarato) era evitare che i trent’anni di conflitti appena trascorsi si ripetessero, e ripartire le risorse su base burocratica. Però penso sia riduttivo parlare di buffonata: la spinta antipolitica trova costantemente giustificazioni e prove nella lontananza delle decisioni e dei decisori dalle persone. Il JOB Act rappresenta l’ultimo inglorioso esempio di come sia innegabile la cattiva politica e la distanza tra i decisori e i decisi.
Non è però mettendo confini tra i fossi della Bassa che la situazione può migliorare, anzi, si possono solo aumentare le distanze. Il cambiamento ci deve essere, ma non può, non deve passare da spinte moralizzanti e moralizzatrici, ma attraverso una rinegoziazione (in piazza, nei dibattiti reali più che online) dei contenuti. La Venetia starà bene, molto bene, se renderà più porosi i confini di tutta l’Italia, aprendo finalmente al Mediterraneo, e non creando piccole roccaforti di uomini “virtuosi”, tesi a ripartirsi le sempre minori risorse.
Piccola patria è il felice titolo di un film di Alessandro Rossetto sul Veneto che esce in questi giorni nelle sale, da cui sono tratte anche le immagini inserite nel testo.