VIE Festival 2. Lost in translation 

27 Ottobre 2022

Alla fine de Le città invisibili di Calvino, Kublai Khan, che aveva appena sfogliato nel suo atlante gli orrori riservati dal futuro, diceva a Marco Polo: “Tutto è inutile, se l'ultimo approdo non può che essere la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente”.

E là in fondo, nella città infernale, ci siamo alla fine arrivati; ed è proprio questo mondo fuor di sesto, come lo ha descritto bene Rossella Menna la scorsa settimana, il paesaggio di macerie che ci restituisce questa edizione di VIE Festival, ritornato dopo lo stop forzato dalla pandemia. Ed è tornata anche, totalizzante e distruttrice, l’urgenza del teatro di raccontare un presente che pare non ci lasci scampo, dalla solitudine, dall’angoscia, dalla minaccia della catastrofe ambientale, un presente che ci costringe a fare i conti ora con i demoni interiori ora con il tessuto, marcio, della società che ci siamo costruiti attorno.

Gli esiti sono certamente diversi, perché diverse sono le pratiche, le poetiche e le estetiche degli artisti che VIE ha sapientemente selezionato dal panorama del teatro contemporaneo internazionale; pare a me, però, che nella traduzione alla prassi della scena qualcosa si sia perso, nella direzione di una forma nervosa, un po’ arroccata su sé stessa, che a volte stenta a rilasciare il senso potente di quello che vuole raccontare. Come se fosse saltato qualche passaggio. Forse è arrivato anche il tempo di interrogarci sulle nostre aspettative, individuali e comuni, come spettatori prima e come lettori critici dei fatti teatrali poi; ma questo è ancora un altro discorso.

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Il Ministero della solitudine, di lacasadargilla, ph. Claudia Pajewski.

Il mio festival è iniziato con Il ministero della solitudine, l’ultima fatica di lacasadargilla, che affianca alla regia pulitissima di Lisa Ferlazzo Natoli e Alessandro Ferroni (che ne ha curato anche spazio scenico e paesaggi sonori) la drammaturgia del testo di Fabrizio Sinisi, la drammaturgia del movimento di Marta Ciappina (a VIE anche con Gli anni di Marco D’Agostin), e un cast straordinario, tra cui spicca la folgorante e giovanissima Giulia Mazzarino.

Il testo è diventato anche un bel libro della collana Linea di ERT edita da Luca Sossella. Nel gennaio del 2018 il Regno Unito istituisce un Ministero per fare fronte alle necessità dei nove milioni di cittadini che si dichiaravano “malati” di solitudine, diventando il primo stato al mondo a cogliere l’urgenza di una semplice verità: di solitudine si muore. Ma si può istituzionalizzare il desiderio, il più intimo, di riconoscersi e trovare corrispondenza nell’altro?

Su questa riflessione si basa la scrittura originale su cui si impianta lo spettacolo, che ha debuttato dopo due lunghi anni di rinvii; un campionario di eccentriche e a tratti grottesche figure di uomini e donne soli, cinque per l’esattezza: Primo, che per lavoro pulisce i social network dai contenuti inappropriati e che si accompagna a Marta, la bambola RealDoll che vorrebbe disperatamente viva; F., apicoltore con l’ossessione per la sopravvivenza delle api che non riesce ad ottenere i fondi per le sue arnie; Teresa, che sta scrivendo un romanzo autobiografico e non distingue più la realtà dall’immaginazione letteraria; sua figlia, Alma, nativa digitale, che chiusa in casa sogna il mondo fuori fin nei suoi dettagli più nascosti; e infine Simone, impiegata del Ministero, che cataloga e protocolla e timbra e tiene insieme le vite degli altri senza intessere mai, con i suoi ‘clienti’, rapporti umani. 

In una danza concertata di incontri mancati o solo sfiorati, le cinque figure si muovono all’interno di uno spazio scenico che le luci nevrotiche e la partitura sonora rendono ovattato, come pesci rossi in un grande acquario. Esistono senza coesistere. La scrittura della scena si mantiene su un equilibrio precario di linguaggi sovrapposti, che a volte minacciano di scardinarsi, ma unisce straordinariamente bene la dimensione tragica a quella comica (esemplare, in questo senso, la scena finale del karaoke), facendo oscillare lo spettatore tra l’angoscia, il riconoscimento e la sensazione scomoda di aver riso delle disgrazie altrui. 

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Al fallimento dell’utopia zanzottiana della natura “biologale”, che dà e riceve qualcosa in cambio dall’uomo, si rivolge la riflessione di Anagoor con ECLOGA XI, “un omaggio presuntuoso alla grande ombra di Andrea Zanzotto”, si legge nel sottotitolo. Da sempre impegnati in una sofisticata ricerca ipermediale che attraversa il mito unendone immaginario e verbo in direzione di un’iconoclastia afasica, la compagnia di Simone Derai scava ed erode le IX Ecloghe del poeta pievigino per tirarne fuori pura sonorità, parola e immagine.

Lo spettacolo si apre con la riproduzione acustica di una registrazione del Recitativo veneziano di Zanzotto, scritto per la scena iniziale del Casanova di Fellini; la vocalità accentuata necessariamente richiama la Lectura Dantis di Bene. Sullo sfondo un’enorme tela ritrae la Tempesta di Giorgione, primo paesaggio della Storia dell’arte, già più volte presente nei lavori della compagnia, ma privato stavolta delle figure umane; sul proscenio una serie di microfoni sembrano attendere il discorso di un politico o di una figura istituzionale che però non arriverà mai.

In questo Eden capovolto si muovono i due attori, Marco Menegoni e Leda Kreider, come Adamo ed Eva cercano di navigare la foresta di segni che li circonda, segni che ci parlano di assenza di futuro, dello scombinamento del mondo come lo conosciamo e che parte, inevitabilmente, dalla natura che ci volta le spalle. Lo fanno attraversando le parole, i versi, le cantilene, le strofe, la prosa di Zanzotto, spogliandosi, avvicinando e allontanando i microfoni per esplorare le infinite possibilità della voce, la sonorità della poesia, mentre il paesaggio della tela viene irrimediabilmente coperto di pittura nera.

Nello scontro serrato tra Natura e Cultura, la riflessione sui confini estremi della contemporaneità arriva fino a Günther Anders, con la lettura della lettera al pilota che sganciò la bomba su Hiroshima. È un universo esploso di segni, immaginari e riflessioni quello che ci lancia addosso Anagoor, privandoci però degli strumenti per navigarlo; lasciandoci soli, persi, spaesati. 

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Ecloga XI, di Anagoor, ph. Giulio Favotto. 

Accanto a Imagine di Lupa tra gli spettacoli più discussi per la grande presenza scenica presentati a Vie, c’è Halepas, una “tragedia musicale contemporanea”, così la definisce la regista ateniese Argyro Chioti, per la prima volta in Italia con la sua compagnia VASISTAS in coproduzione con ERT / Teatro Nazionale. Il libretto è firmato dal regista e musicista ateniese Alexander Voulgaris aka The Boy, mentre il sound design è affidato a Jan Van Angelopoulos, compositore e batterista molto noto sulla scena jazzistica della capitale greca.

Del lavoro di Chioti si sa ancora poco dalle nostre parti, se non un evidente interesse per l’espressione corporea, per gli elementi della danza, per le coreografie musicali, e un’aderenza ai temi mitici del presente. Halepas è il racconto agiografico della vita e della morte dello scultore Yanoulis Halepas, definito il Rodin della Grecia, personaggio eccentrico nella narrazione culturale occidentale che ci vuole giovani e di successo, in quanto artisticamente rinato nella vecchiaia, dopo anni di malattie mentali, isolamento e ospedali psichiatrici.

All’interno di una cornice onirica fatta di enormi cipressi, una lunga tela centrale e macchine per simulare il vento (il protagonista proviene dall’isola di Tino nel mezzo del Mediterraneo), la coreografia di corpi si esprime nel confronto serrato tra Halepas e un coro tragico da cui si staccano di volta in volta le presenze fantasmatiche che popolano la vita dello scultore. Il canto salmodico si alterna al silenzio, la musica al suono, la recitazione alla danza, creando visioni e suggestioni di dolore, tormento, violenza e redenzione. La messinscena è incredibilmente curata, eseguita da un cast di interpreti (tra i quali appare la stessa Chioti) di notevole presenza fisica e vocale, ma lo spettacolo stenta a deflagrare, resta lontano, asettico, e non riusciamo mai a sentirci parte della storia. 

L’ultima fotografia, di Andreas Simopoulos, rappresenta un momento di Halepas di Argyro Chioti. 

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