Beckett allo specchio / L’ultimo nastro di Krapp di Tonino Taiuti
È un sapiente gioco di sovrapposizioni, riconoscimenti e sdoppiamenti la messa in scena di L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett diretta e interpretata da Tonino Taiuti al Ridotto del Mercadante di Napoli dal 14 al 24 ottobre, in prima nazionale. In oltre quaranta anni di carriera come esponente di quella generazione, post-eduardiana e già parte della tradizione teatrale partenopea, definita della nuova drammaturgia napoletana (con lui Enzo Moscato, Annibale Ruccello, Antonio Neiwiller e Silvio Orlando, tra gli altri), Taiuti Beckett lo ha sempre e solo accarezzato, sfiorato da lontano (provava Aspettando Godot quando il terremoto dell’80 colpì Napoli), introiettato e assorbito, ci si è più volte riconosciuto ma non lo ha mai affrontato a viso aperto, sulle tavole delle salette off che da sempre preferisce ai grandi palcoscenici, per inclinazione personale e per la libertà di movimento creativo e di immaginazione che permettono. Per la sua prima incursione nel mondo della drammaturgia beckettiana, l’attore napoletano sceglie allora l’intima sala del Ridotto – circa ottanta posti disposti su una decina di panche, senza distanza alcuna tra scena e platea – e un testo tra i più complessi dello scrittore irlandese, per la presenza pervasiva del suo autore su diversi livelli di senso.
La pièce, un brevissimo atto unico scritto nel 1958, è l’elegia del fallimento di un vecchio scrittore, Krapp, che al tramonto della sua esistenza decide di fare i conti con l’immagine memoriale della sua giovinezza, mediata dal registratore a nastro che restituisce la sua voce di trentanovenne nella quale, è inevitabile, non si riconosce più; una riflessione, quella sul passare del tempo, cara a Beckett che già nel saggio del 1931 dedicato a Proust e alla Recherche scriveva: “Noi siamo altri, […]. Le aspirazioni di ieri erano valide per l’io di ieri, non per quello di oggi”. I richiami alla malattia del padre, alla morte della madre, la riflessione sulla condizione di artista e sul fallimento, e l’impianto drammaturgico stesso (Beckett costruì Krapp sulla voce dell’attore nordirlandese Patrick Magee, che l’anno prima aveva registrato alcune sue opere per la radio) conferiscono a questo testo una delicata qualità autobiografica. Nel metterlo in scena, Taiuti, nella doppia veste di regista e attore, si specchia, pur senza pretese di somiglianza, nel suo autore più che nel suo personaggio, e così facendo ci restituisce un Krapp estremamente umano in cui è perfettamente riconoscibile la storia dell’artista napoletano.
La sala è avvolta nel buio. Sotto un drappo nero che fa da sipario si trova Taiuti, seduto a una scrivania, immobilizzato in una posa plastica, lo sguardo fisso, le mani poggiate davanti a sé; solo una lampadina lo illumina dall’alto, il resto della scena resta nella penombra, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un tableau vivant di Caravaggio, un San Girolamo in meditazione. Il Krapp di Taiuti appare in linea con la descrizione del personaggio fornita dalle note di regia beckettiane – i capelli grigi arruffati, i vestiti consunti, il panciotto sgualcito, l’orologio da taschino, il mazzo di chiavi, il volto segnato – ma non dipinto di bianco, come in molte altre interpretazioni che hanno seguito in maniera più letterale l’indicazione della “white face” data da Beckett, prima su tutte quella indimenticabile di Bob Wilson.
Fin dai primissimi minuti dello spettacolo, è chiara un’attenzione artigiana alla dimensione corporea e gestuale: una serie ripetitiva di micromovimenti del volto inquadrano subito il personaggio come un vecchio miope, stanco, schiacciato dal passare del tempo. Anche se calato in una dimensione umana più vicina a noi, l’aspetto grottesco e clownesco sottinteso da Beckett non va perso, anzi si esplica con forza nella corporeità viscerale dell’attore napoletano: il passo esageratamente claudicante con cui va su e giù per le scalette per trasportare le bobine da una seconda stanza alla scrivania (un’aggiunta drammaturgica di Taiuti), la schiena inverosimilmente curva sotto il peso di un piccolo dizionario, il respiro affannoso, il sorriso infantile che accompagna la parola “bobiiiiiina” ripetuta più volte; la dimensione del gioco e dell’incantamento appartiene alla storia teatrale di Taiuti, che ha esordito con la maschera di Pulcinella e ha più volte attraversato il teatro comico in coppia con Silvio Orlando.
Se è vero, come in tutti i testi di Beckett, che sono i silenzi i principali vettori di comunicazione e che le parole si fanno carico del paradosso di dirci che non c’è nulla da dire (“Niente da dire, non un singhiozzo”, ripete il vecchio scrittore), è lo scontro tra le voci, quella viva e presente di Krapp e la sua controparte registrata appartenente al passato, a restituire il senso della messa in scena. Come in un rito evidentemente collaudato, Krapp consulta l’enorme registro della memoria e si mette alla ricerca di un preciso ricordo. La bobina numero 5 della scatola 3 contiene la registrazione del trentanovesimo compleanno di Krapp, che riporta gli avvenimenti più significativi del periodo: la morte della madre, un “leggero miglioramento dello stato intestinale” (Krapp, d’altronde, è un chiaro rimando alla parola inglese crap, merda), un “memorabile equinozio” e la fine di un amore.
Il ritmo spezzato con cui ascoltiamo la registrazione è concertato dal protagonista attraverso una serie di interruzioni e riavvolgimenti di nastro, che si fanno via via più sclerotizzati, così come le sue imprecazioni di commento, quando la registrazione arriva alla parte relativa alla fine di una relazione, che il giovane Krapp tronca per il sogno, irrealizzato, di diventare uno scrittore di successo (“Diciassette copie vendute, di cui undici con lo sconto speciale a biblioteche circolanti nei territori oltremare. Mi sto facendo conoscere”, è il commento amaro del vecchio Krapp). Le incursioni al piano di sopra, dove lo sentiamo e intravediamo bere – a differenza di quanto accade nel testo originale dove Krapp resta sempre non visto fuori scena –, si fanno sempre più frequenti, fino a raggiungere un realismo parossistico quando si accascia barcollando sulle scale, in mano la bottiglia. È a questo punto che si consuma la sconfitta e che Taiuti, tolto il freno, permette alla grande potenza interpretativa della sua voce di dispiegarsi: Krapp si disfa della bobina numero 5 e ne tira fuori una nuova dal cassetto della scrivania, per incidere un’invettiva a sé stesso e al fallimento del suo sogno.
Allo spettacolo si accompagna una mostra, BECKET.T tra ombre e silenzi, allestita nel foyer del teatro a opera di Taiuti stesso, da sempre appassionato di pittura e arti figurative, un altro punto in comune con Beckett, insieme alla passione per la musica. E quindi anche attraverso questo mezzo, e già dal titolo, l’artista segnala il suo riconoscimento nell’autore irlandese, producendo feticci: rappresentazioni di Beckett, la cui sagoma stilizzata ritorna più e più volte accompagnata da croci – la T di Taiuti (in napoletano, il taùto è la cassa da morto); personaggi senza volto e dallo sguardo vitreo in attesa di essere portati sulla scena, libri in cui compaiono quasi ossessivamente le parole ‘Beckett’, ’Krapp’ e la sigla T.T., e memorabilia dello spettacolo, tutti marmorizzati “dallo sguardo di medusa dell’artista stesso”, dalle note sul programma di sala di Gabriele Frasca, peraltro autore della recente traduzione utilizzata da Taiuti per il suo primo testa a testa con Beckett.
Le foto che corredano l’articolo sono di Ivan Nocera.