Le Vacanze di Alessandro Berti
Ormai dovunque nel mondo si parla di cambiamento climatico. In modi più o meno ortodossi e scientificamente informati, ne parlano l’informazione, l’intrattenimento, i social; se ne discute nelle agende governative; i giovani attivisti non sanno più quali quadri imbrattare per attirare l’attenzione; e il più recente rapporto dell’Onu sul clima ritiene che le attività umane siano responsabili del surriscaldamento globale al 95 per cento, con buona pace degli irriducibili negazionisti. È il più contemporaneo tra i temi del nuovo millennio e, naturalmente, ha raggiunto anche il teatro (ma già nei primi anni Ottanta le Albe raccontavano una Romagna post-apocalittica devastata dall’inquinamento, e nel 1993 Marco Paolini portava in scena il disastro del Vajont). È tutto giustissimo; dopotutto il teatro, specie quello più radicato nel presente, sprigiona senso quando è capace di mettere a fuoco le urgenze del suo tempo. Tuttavia, a maneggiare i temi si rischiano due cose: di dire cose che già tutti sanno – dicendole magari pure peggio di altri canali – e di dirle a chi con quel pensiero è già perfettamente allineato. Si rischia di fare spettacoli-slogan molto belli ma poco incisivi.
Se queste sono le premesse, le disattende tutte Le Vacanze, ultimissimo lavoro dell’attore, regista e drammaturgo Alessandro Berti, prodotto da Emilia Romagna Teatro Fondazione in collaborazione con l’associazione Casavuota, in scena in prima nazionale nella piccola sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole di Bologna dal 21 marzo al 2 aprile, dove lo ha visto chi scrive. Il viaggio delle Vacanze inizia nel 2022, quando viene pubblicato per la collana di letteratura teatrale per giovani lettori I Gabbiani, curata da Federica Iacobelli per Edizioni Primavera. Il testo, beckettiano così come il successivo spettacolo, è uno squarcio in una giornata delle vacanze estive di due adolescenti, Tom e Lao, in un futuro prossimo, dopo la fine dell’Olocene, quando la siccità ha devastato la vegetazione e decimato la popolazione, abbassando drasticamente le prospettive di vita di chi abita la Terra; non resta che trovare refrigerio a mollo nel fango argilloso e aspettare il Danzatore.
Tuttavia, non si tratta di un testo distopico o fantascientifico: il cambiamento climatico non è il tema, è il setting, l’ambiente, ma soprattutto il posizionamento di Berti rispetto al tema. È una differenza sottile, ma significativa, e che ritroviamo, costante, in tutto il percorso teatrale dell’autore (dai lavori come Impasto con Michela Lucenti alla trilogia Bugie bianche, Leila della tempesta, Un cristiano). La scelta dell’ambiente si pone come una folgorazione a metà strada tra il biografico – osservare il proprio bambino e chiedersi perché ci metta così tanto a crescere, per esempio –, il culturale e l’intellettuale. Il testo è disseminato di riferimenti, letture con cui l’autore si è confrontato (Morton, Meschiari, Le Guin, Ghosh), ma non sono citazioni. Lo scopo non è quello di istruirci su un tema o di lanciarci addosso manifesti da cucire sulle borse di tela (sostenibili!), ma di aprirsi al teatro come pratica di un ragionamento complesso, stratificato e intelligente, che si muove costantemente tra la dimensione pubblica e quella privata e che risponde a un bisogno, mai come ora urgente, di parlare e parlarsi. Quella di Berti è una posizione orizzontale.
È in quest’ottica che Berti sceglie come interlocutore privilegiato, e insieme punto di osservazione, gli adolescenti; Tom e Lao – non c’è più tempo per nomi più lunghi – raccontano sé stessi, il loro mondo, le contraddizioni, le speranze, i desideri e le malinconie. Nel ritmo lento che dal testo drammatico si travasa nello spettacolo, nelle pause ipnotizzanti (ancora Beckett), nell’immobilità che è toccata loro in sorte, semplicemente parlano. Le due visioni del mondo, quella disillusa e spirituale dello studioso Tom, e quella progressista e speranzosa dell’appassionato di scienze Lao, si intrecciano ai ricordi di infanzia, alle istantanee di vita, ai tentativi di trovare un senso al loro presente, l’unico tempo possibile. La figura mistica del Danzatore, un vecchio performer prenotabile tramite una app, è l’unico a conservare movimento, a esprimere la possibilità di un anelito di vita (“Il Danzatore era vivo. Perciò ti sei agitato. Non era solo un ricordo, una frase. Era vivo”, dice Lao). È testimone silenzioso, sullo sfondo, appare, sconvolge e va via. Le Vacanze non è neanche un romanzo di formazione, è un esercizio di pensiero.
La messinscena restituisce ognuno di questi elementi già a partire dall’allestimento: prima ancora che il palcoscenico entri nel nostro campo visivo, ci accoglie in sala un pungente odore di pineta, di foglie seccate dal sole, un odore resinoso che immediatamente evoca, per sinestesia, quel caldo estivo torrido, soffocante e paralizzante che ogni anno inizia un po’ prima del tempo. Proviene da un boschetto di canne di bambù – un bambuseto vero – le cui foglie sono sparse sul pavimento della platea; sul proscenio, uno stagno con due piccole pozze d’acqua fangosa precede un lungo pontile di legno, due lettini prendisole, e sullo sfondo una doccia. Tom e Lao, interpretati dai giovani e bravissimi Sebastiano Bronzato e Francesco Bianchini (entrambi provenienti da scuole di teatro), riempiono la scena con i loro corpi e alternano i ritmi veloci del botta e risposta – giocano a immaginare il freddo – alla lentezza delle pause, animati da una coreografia di movimenti reiterati e alternati: entrano nelle pozze, escono, si fanno la doccia, si asciugano, poi rientrano e ricomincia la danza. I momenti di interruzione sono pochi e brevi, ma agiscono con una forza distruttiva che mette brutalmente a nudo il reale (smarginature, le definisce Elena Ferrante), come l’inaspettata apparizione di una zanzara, creduta estinta, che porta i due adolescenti a confrontarsi con le diverse aspettative verso il progresso scientifico. O come l’arrivo del Danzatore (interpretato da Stefano Questorio per le prime repliche, in sostituzione di Giovanni Campo), una figura a metà tra maschile e femminile, tra giovane e adulto, che si staglia sul fondo della scena, sotto la doccia, apparendo quasi ciclopico; è il mistero del suo movimento possibile che disturba irrimediabilmente il gioco di Lao e Tom che alla fine, per lo sforzo, si accasciano in un abbraccio, privi di sensi. Resta solo il suono della sirena: annuncia l’incendio imminente. Le canne di bambù si illuminano di rosso.
Le fotografie dello spettacolo sono di Daniela Neri. L’immagini di copertina del libro è di Pia Valentinis.