Vivian Maier, una donna libera

10 Marzo 2023

La nota fotografa statunitense Vivian Maier davvero non smette di incuriosire appassionati e professionisti di tutti i settori: c’è qualcosa attorno al suo mistero che non dà pace soprattutto a chi, dopo anni di mostre, documentari, conferenze su di lei, non vuole smettere di aggiungere tasselli al puzzle della sua vita. Ann Marks, ex manager di importanti aziende di New York, è una delle prede che sono state intrappolate nella rete e nell’aura della fotografa-bambinaia, nota per gli scatti di street photography come per gli autoritratti con la sua Rolleiflex in mano. Così è nato il libro Vita di Vivian Maier. La storia sconosciuta di una donna libera pubblicato da Utet (2022): la Marks, mettendosi sulle tracce di Vivian Maier e comportandosi come un vero detective-segugio, ha mappato ogni archivio, anagrafe, istituto che contenesse le tracce non soltanto della vita della fotografa, ma anche della sua intera storia familiare.

Il libro parte infatti da una domanda cruciale molto interessante: quanto è stato presente e, quindi, determinante, il fattore della follia nella vita e nella famiglia di Vivian Maier? Questo è stato infatti un argomento messo sempre al secondo posto nella narrazione della sua storia, facendo trapelare qualche volta solo sporadiche informazioni riguardanti un fratello maggiore con non meglio identificati problemi di salute mentale. Se pensiamo alle testimonianze raccolte da John Maloof –il vero scopritore del caso Vivian Maier e regista del documentario a lei dedicato (Alla ricerca di Vivian Maier, 2013) – tra i conoscenti della donna o dei bambini ora cresciuti da lei stessa allevati come tata, emergono impressioni molto discordanti, a volte totalmente opposte: “Mary Poppins” da un lato e “Strega Cattiva” dall’altro, allegra e cinica, gradevole e severa.

Questi opposti portano a galla sicuramente un profilo degno dell’attenzione di uno psicologo, nonché una personalità complessa e stratificata, che ha imparato a stare al mondo per tentativi ed errori che ha dovuto compiere da sola, non aiutata da altri punti di riferimento. Dietro gli scatti affamati di umanità della Maier, allora, ci dice Ann Marks, c’è davvero un mondo da prendere in considerazione. Questo, verrebbe da dire, può valere un po’ per tutti, autori e artisti in particolare, data l’ondata di mitizzazione biografica dei grandi dei secoli scorsi. In questo caso, però, la scoperta di un enorme talento celato dietro a un’amatrice con scarse ambizioni aggiunge ingredienti per arrivare al favore unanime di chi si imbatte nella sua storia.

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La vita di Vivian Maier, questo è bene sottolinearlo, inizia in una famiglia totalmente disastrata, da ogni punto di vista: la madre Marie – che abbandonò Vivian quando era solo un’adolescente – non riuscì mai a superare la sua condizione di figlia illegittima, trauma che le causò lo sviluppo di una personalità instabile e, negli ultimi anni, schizofrenica; il fratello Carl entrò e uscì varie volte da riformatori e prigioni, fino all’espulsione dal servizio militare per uso di droghe, e via dicendo. Si prende così coscienza di una Vivian sola e senza figure di riferimento, possibile origine dei suoi futuri contrasti caratteriali.

Indubbiamente, Vivian fu la sola che riuscì a trovare una scappatoia accettabile dal declino drammatico della sua famiglia, scegliendo cosa fare e dove andare con una decisione che caratterizzò anche il suo modus operandi in fotografia: Ann Marks pone l’attenzione, infatti, sulla sua peculiare “abitudine a scattare una sola volta” (p.102), anche di fronte a momenti irripetibili, dovuta semplicemente a una forte sicurezza nelle proprie capacità. L’autrice del libro è davvero riuscita a tracciare un mosaico molto dettagliato della vita della Maier, possiamo seguire le sue decisioni quasi passo a passo, gli scarti, i rapporti interpersonali coi datori di lavoro e le scarse amicizie.

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Questo tipo di operazione fa riflettere soprattutto nel contesto storico recente, in cui finalmente sta arrivando una concezione sempre meno scolastica della fotografia in favore della creazione dei suoi primi miti mediatici: in pochi anni sono stati dedicati due film ad altrettanti maestri della fotografia, Eugene Smith (nel film Il caso Minamata, del 2020) e Nan Goldin con la recente, acclamata pellicola Tutta la bellezza e il dolore, rendendo così chiara la necessità e la volontà del grande pubblico di conoscere gli autori più importanti della fotografia come si potrebbe voler conoscere Klimt o Van Gogh. Non è cosa da poco: il modo di intendere una disciplina si gioca in larga parte sull’accoglienza di un certo immaginario da parte del pubblico, e se la richiesta è di capire chi ha prodotto un’immagine, può significare solo che quell’immagine ha effettivamente toccato le coscienze a tal punto da muovere addirittura la curiosità.

Vivian Maier, poi, è un caso limite della fotografia, una carta jolly con cui si sa di poter vincere la mano: la sua produzione, nella quale il libro di Ann Marks ci accompagna con minuziosa pazienza, possiede una fruibilità tale da poter, come è puntualmente avvenuto, parlare davvero a tutti: l’umanità della Maier è innocua anche quando è cruenta, ed è lucida anche nel trattare l’insondabile ventaglio emotivo dei suoi soggetti. Forse conoscendo il contesto lugubre e traumatico in cui è cresciuta Vivian riusciamo a capire meglio la fame che muoveva gli occhi dei suoi venticinque anni, età in cui cominciò a fotografare davvero. Se spesso la macchina fotografica viene vista come mezzo di potenziamento dell’occhio umano, ovvero uno strumento capace di definire una verità altrimenti difficile da cogliere, per la Maier si può forse parlare di un filtro necessario, dei veri e propri “occhiali”, che più che potenziare, garantiscono “la capacità di instaurare una connessione mantenendosi a distanza” (p.217), rendendo almeno possibile la vista stessa.

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Così la possiamo immaginare, anche grazie alla narrazione chiara e fluida di Ann Marks, intrufolarsi ai funerali per immortalare le vedove, o avvicinarsi alle vie del Bronx per raccogliere testimonianze di umanità che forse le ricordano le sue controverse radici affettive. Vivian Maier è nota soprattutto per le sue immagini di bambini, soggetti che poté osservare da vicino col suo mestiere: la sua “perenne riluttanza a idealizzare i suoi giovani soggetti” (p.140) la fa spesso associare, nel libro, al fotografo Weegee, noto per i suoi scatti di cronaca nera nella New York degli stessi anni in cui si muoveva la Maier (e sul quale pure esiste uno dei pochi film dedicati ai grandi fotografi, Occhio indiscreto, del 1992).

Per quanto la similitudine possa apparire forzata, dal momento che il personaggio di Weegee lavorava per i giornali dell’epoca e fondò uno stile allo stesso tempo noir e poetico per rappresentare per lo più scene del crimine e cadaveri, è corretto sottolineare l’attenzione di entrambi a una speciale verità umana, capace talvolta di manifestarsi sotto forma di elementi in contrasto: in Weegee possiamo vedere una buca delle lettere che annuncia l’imminente festività natalizia e, appena dietro, disteso un corpo inerme coi segni di un decesso violento; in Vivian Maier gli estremi si toccano all’interno della sua stessa produzione, in cui compaiono i visi composti dell’alta società come i clochard addormentati sulla panchina e malridotti, o i suoi famosi bambini in lacrime vicino a madri in pelliccia e incuranti.

La stessa condizione di Vivian Maier, oscillante tra la vita a fianco di ricche famiglie borghesi e la povertà assoluta, le hanno indubbiamente conferito la capacità di poter capire e contemplare una vastissima gamma di esempi in cui l’umanità può rappresentarsi, eliminando dal suo sguardo ogni possibile velo o giudizio. Per questo gli scatti della Maier appaiono limpidi nel loro voler affermare, semplicemente e talvolta con un sorriso sardonico, ciò che è, così com’è: abbiamo già affrontato il personaggio della fotografa-tata qui su Doppiozero, evidenziando il processo secondo cui, accumulando e campionando ogni sfumatura umana – andando a costituire una sorta di Comédie Humaine fotografica – la Maier provasse a trovare i suoi stessi confini in un mondo che, da giovane, l’aveva rifiutata e messa da parte.

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Ora, a fronte delle scoperte di Ann Marks sul suo conto, ampliate da accurate appendici ed elenco di fonti, possiamo supporre che i vuoti lasciati in Vivian durante le fasi della sua crescita siano stati colmati dall’esorbitanza di volti, stati d’animo, situazioni da lei registrati. Il fatto stesso che moltissimi rullini non fossero neanche stati sviluppati può gettare una luce a favore di questa teoria, in cui il solo “aver visto” ha fatto tutta la differenza. Si ha la sensazione vivida, leggendo il libro, che quasi Vivian Maier sia riuscita a generare in molti un vivo dispiacere di non aver potuto conoscerla, anche solo attraverso i media, quando era in vita: non è solo il talento fotografico – controverso anch’esso, data la testimoniata mancanza di tatto con cui si approcciava anche ai suoi soggetti più fragili – a lasciare parentesi aperte e numerosi punti interrogativi, ma anche la sua vita svolta in un vero limbo esistenziale.

Una vita alle dipendenze di altre famiglie, trincerata tra i suoi scatoloni man mano sempre più colmi di ogni traccia cartacea del suo passaggio – giornali, biglietti, diari – e ogni minima ambizione professionale come fotografa stroncata dalla sua crescente incapacità organizzativa e comunicativa. Il libro di Ann Marks può essere proprio il frutto di un simile vuoto, quello che il passaggio di Vivian Maier ha lasciato senza dare il tempo al mondo di accorgersi di lei per poter ancora farle le domande cruciali sul suo conto, riuscendo così ad allargare il più possibile il bacino di elementi utili a conoscere la fotografa che ha passato la vita nell’emarginazione, non trovando mai altra pace se non nel fare di sé l’unica vera custode dei propri misteri. 

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Silvia Mazzucchelli e Veronica Vituzzi, Nel mistero di Vivian Maier

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