Yves Citton: trasformare il presente
Di Yves Citton esistono sinora due libri in traduzione italiana: Future umanità. Quale avvenire per gli studi umanistici? (due punti, traduzione di Isabella Mattazzi) e Mitocrazia. Storytelling e immaginario di sinistra (Alegre, a cura di Enrico Manera, prefazione di Wu Ming 1, traduzione di G. Boggio Marzet). In poche righe proverò a dire perché ci siano ottimi motivi per leggerli entrambi. Il primo direi che risiede nella capacità di Citton di porre una domanda fondamentale rispetto alla colossale inerzia storica nelle cui tenaglie sentiamo presa la nostra epoca: che cosa possiamo? Stremati dalla propaganda pubblicitaria delle possibilità senza fine, così come da una mancanza di prospettive reali che paiono negarsi, oggi più di ieri, si rischia di non vedere più cosa realmente possa, singolarmente e in comune, ciascuno e ciascuna di noi. In Future umanità è innanzitutto la forza dell’interpretazione che noi possiamo, anche quando la dimentichiamo, forse proprio perché è una forza che non si può possedere, ma solo esercitare.
L’interpretazione è quel lavorio sul senso comune che mette in discussione la credenza per cui esisterebbero dei “dati di fatto”. Niente come questo feticismo per la certezza di ciò che è già dato finisce per cancellare il desiderio di domanda, neutralizzandola, perché la convinzione che sia possibile tradurre il reale in una serie di dati tende a escludere il parlare, con tutta la sua ambiguità e incertezza, a beneficio di una “pura comunicazione”.
È rispetto a questa cornice storica che gli studi umanistici possono giocare il ruolo di un cuneo infisso nel meccanismo onnivoro di una riduzione estrema a cui oggi assistiamo troppo spesso muti e spaesati. Se il presente venera la sicurezza con cui “gli esperti” spiegherebbero la realtà a un pubblico sempre più inconsapevole, d’altro lato è proprio la spaventosa frammentazione di questa stessa realtà a richiedere sempre più di confrontarsi con ciò che non sappiamo. E questa capacità è propria dell’interpretazione, che si muove in spazi al di qua del sapere, introducendo dentro ciò che è saputo, o che si presume tale, quello scarto, quella deviazione a cui è legato l’avvenire stesso.
In Mitocrazia la domanda “cosa possiamo?” viene articolata nel senso della capacità del racconto di emancipare da quei miti del nostro tempo che agiscono come altrettanti vincoli, e dunque nel senso della creazione di nuove libertà reali. Rispetto alla natura potenzialmente conformista dei miti, la mitocrazia viene qui invocata come capacità creativa in grado di ispirare l’opera di trasformazione della realtà, che altrimenti finisce per venir considerata immutabile.
Per far sorgere nuovi mondi, “preclusi alla ragione contabile”, che diano forma ai nostri desideri, c’è bisogno di tutta la forza dell’ispirazione che può venire dal racconto. D’altra parte, sono proprio gli uomini a poter riconcatenare le proprie immagini, i pensieri, le convinzioni, in sempre nuove e diverse combinazioni di senso. Insomma a non cedere al loro condizionamento per far valere una possibilità segreta già presente nelle cose o tra le righe della realtà.
Il lavoro di Citton si estende con lucidità e coraggio intellettuale al di là del campo dell’analisi, spesso intelligente ma anche sterile e snervante, della contemporaneità. La sua riflessione ha qualcosa di un’etica, nel senso per cui “etica” è – sosteneva Eraclito – un demone che ci costringe a lottare ogni volta contro noi stessi, contro le nostre abitudini, per far valere quello che è il valore di farmaco delle parole e delle narrazioni di cui siamo fatti. A valere è qui la forza di trasformazione del tempo e attraverso il tempo, forza che viene da quei miti che si decida di accogliere come propri.
È proprio rispetto a questa forza che Citton prova a ripensare il destino di una politica della sinistra, di cui occorre tornare a nutrire le ambizioni, la crescita, il divenire, invece che affamarlo di pochezza. È in questo senso che occorre leggere la formula, presa in prestito dal grande pianista afroamericano Sun Ra, secondo cui la mitocrazia è una pratica decisiva perché essa è ciò che non siete mai diventati di ciò che dovete essere.
La legge di questo “dover essere”, se da un lato contrasta con la compiacenza tipicamente consumistica di una libertà intesa come possibilità senza dovere, come diritto senza legame, d’altra parte apre all’esperienza del resto: c’è ancora questo resto che non siamo diventati a nutrire l’ambizione di un divenire che è viaggio, ricerca, inseguimento, e non semplice fruizione di possibilità già date.
A queste non si chiede del resto di trasformarci veramente, mentre la formula del “ciò che non siete mai diventati” parla anche della nostra fragilità, della condizione di resto di ciò che siamo e di ciò che prendiamo in mano e facciamo, mai completo, mai concluso. È proprio questa fragilità a valere qui come decisiva, anche politicamente: piuttosto che identificare il politico con il potere o con l’efficienza, si tratta di coltivarne un’idea fragile e maldestra.
Rispetto al luogo comune secondo cui alle incertezze della nostra epoca occorra rispondere con una dose ancora maggiore di efficientismo e di burocratizzazione, una vera trasformazione inizia assumendo l’incertezza come propria, come luogo di sperimentazione, territorio inedito nel quale far finalmente emergere la questione di ciò che dobbiamo ancora diventare, come via per chiederci cosa realmente possiamo.
Questa è anche la sfida che la sinistra dovrebbe riconoscere come propria per uscire dall’impasse in cui l’ha condotta il cedere, lentamente ma inesorabilmente, al mito dei “dati di fatto” e al culto – in realtà fascista, prima ancora che tecnocratico – dell’efficacia e della destrezza, impantanandosi così nella palude delle pure astrazioni, che non fanno che attestare l’enorme distanza dei singoli dal politico.
Rispetto al grande ordine narrativo, omogeneizzante, a cui ha finito per conformarsi, cercando nella propria narrazione di sé unicamente ciò che la rendesse “degna” del riconoscimento altrui (da qui la sua disperata corsa verso il “centro”), una politica di sinistra ha la possibilità di ripensarsi a partire dalla forza trasformativa di quelle narrazioni che deciderà di seguire.
È da qui che può iniziare – che anzi deve, dobbiamo – iniziare una nuova narrazione della realtà, rifiutando i pilastri portanti dei vecchi miti: il mito della crescita; quello del PIL; la prosperità procrastinata per la felicità presente; la sovranità dei Dati, ovvero la neutralizzazione della realtà.
C’è bisogno di dire che oggi una politica ispirata all’“eccellenza” – particolarmente evidente in ambito educativo – è il frutto più proprio di questo feticismo dei dati che si tratta di rifiutare? L’urgenza di una presa di distanza dalle immagini imperanti del secolo è visibilmente una necessità di ordine etico; attiene cioè non a una dimensione naturale, ma a un atteggiamento, a una decisione rispetto all’epoca e al mondo di cui siamo parte. È solo da decisioni così che dipende se saremo davvero in grado di “umanizzare l’avvenire”