25 anni di Inequilibrio
Compie quest’anno un quarto di secolo Inequilibrio, il festival di teatro forse più attento alla creazione indipendente italiana, in un panorama di corsa allo straniero sempre e comunque, indipendentemente dalle reali qualità artistiche. Questo ridotto della creatività nostrana, fondato da Massimo Paganelli a Castiglioncello, si svolge oggi tra la località balneare del Livornese e Rosignano Marittimo, il comune capoluogo, su un colle nell’entroterra. Come sempre i due direttori, Angela Fumarola, che cura la selezione di danza, e Fabio Masi, responsabile di quella teatrale, preparano l’appuntamento estivo con lunghe residenze durante l’anno, sì che i lavori che sono mostrati nel Festival risultano sempre come tappe di lavori in corso, magari portati a conclusione. Dalla rassegna di quest’anno, svoltasi dal 22 giugno al 4 luglio e ricchissima di spettacoli, abbiamo scelto di concentraci solo su alcuni titoli.
Frecce d’amore (Attilio Scarpellini)
Viene dal bosco Roberto Latini, si aggira tra gli alberi appoggiandosi a un bastone sottile, con un’andatura affannata su cui pesa la gabbia alata che porta sulle spalle allacciata come uno zaino, è un angelo ma dalle ali scarnificate di cui è rimasto solo lo scheletro – lo spettro – come quelle dei demoni nelle acqueforti dantesche di Gustave Doré. Giunto al microfono, si tende sui suoi piedi insicuri, come se cercasse un equilibrio – è quello che tutti gli angeli sono costretti a fare una volta caduti a terra – inarca la sua canna più volte (e tutti vedono in essa un arco), scagliando verso il pubblico deboli e invisibili frecce, prende il respiro e pronuncia la prima parola del suo poema scenico Venere e Adone – più che altro la lascia cadere, come un’altra freccia stanca, perché è la parola più logora e usurata che un orecchio umano possa ascoltare di questi tempi.
Un tempo Amore era il nome di un dio, che i Greci consideravano un arciere infallibile, oggi è un sasso che gettato nell’acqua produce infiniti cerchi di incertezza, ma increspa i sensi e la mente dello spettatore con un’invincibile risonanza di nostalgia: non c’è dubbio, questo eros claudicante, quest’angelo caduto in un volo a rovescio nel boschetto del Castello Pasquini di Castiglioncello che col suo passo gauche et veule, da albatros, apre la venticinquesima edizione del festival Inequilibrio, parla a ciò e di ciò che nella rovina dell’umano è più rovinoso e più lancinante, intona la lingua spezzata, fallimentare del desiderio. E la tiene fino alla fine della sua performance, adattando il proprio corpo e sposando la propria voce a tutte le trasformazioni del mito, secondo lo schema ovidiano ripreso da Shakespeare per riaprire la stagione londinese nel 1593 dopo che i teatri erano stati chiusi per la peste.
Sarà Amore, Cinghiale, Dea velata, Adone (e poi Chiunque e Chiunque Altro): lancerà freccette su un bersaglio come se il bosco fosse un pub inglese, seminerà la terra di lacrime divine da cui nascono spighe d’oro, si specchierà su due diversi schermi televisivi, fondendo Adone e Narciso, ucciderà die whare liebe a forza di amarezza e di ironia e si lascerà romanticamente uccidere da lui, ma non dalla sua parte divina e immutabile, bensì dalla sua parte più friabile e mortale. Poiché “l’amore è l’unica morte-in-vita che possiamo sperimentare”, ma, se una vecchia dialettica non ci inganna, anche l’unica vita-in-morte.
In questa storia di cacce finite male, di ferite letali e di baci dissipati, è l’imperturbabilità olimpica a incrinarsi, la mancanza a cui allude la parafrasi shakespiriana del sottotitolo – siamo della stessa mancanza di cui sono fatti i sogni – non solo è iscritta, come ha rivelato Platone, fin dalle origini nel mito di Eros, essere ibrido e carente per definizione – essere vuoto e non identitario, condannato all’alterità – ma nella contraddittoria struttura desiderante di ogni dio che invidia all’uomo l’intensità della passione di cui proprio la morte lo carica. La forza, e la grandezza, di Roberto Latini stanno nella sua capacità di rilanciare anche i sentimenti che deprime, nell’ingannare la stessa parodia proprio mentre più vistosamente l’accoglie.
Al centro della sua bolla performativa c’è un Adone attore di sit-com che registra un messaggio video per Venere leggendo il testo su un altro schermo sul quale scorre un gobbo: rivelazione del processo che mette a nudo il montaggio del visivo e la natura costruita della sua emozionalità – identica a quella, anch’essa mercificata, della “trappola dell’amore” (e che potrebbe essere anche una citazione che, in un solo colpo, unisce ironicamente il teatro di Milo Rau e quello del Conde de Torrefiel). Tempi e pause studiati con calcolata freddezza per raccontare la sempre deludente verità delle passioni a cui ci immoliamo nella leggenda che costruiamo di noi stessi e a cui scaltramente sopravviviamo nella realtà, la tipica confessione di un maschio che crudelmente liquida le illusioni di una donna troppo innamorata, con l’unica, considerevole differenza, che quest’ultima è una dea (ma è poi veramente una differenza nel mondo stilnovista in cui siamo cresciuti?)
Nessun cinghiale, dice l’Adone a cui i tecnici sussurrano complimenti per la perfezione della ripresa (“Ottimo Ado”, “grande”): “sono io il cinghiale”. Sì, ma, oltre al fatto che viste tra due alberi, nella luce ormai declinante del giorno, le tecnologie visive sparse sul set improvvisato di Venere e Adone, assumono un aspetto incongruo e magico, come se fossero parte di uno strano cerimoniale druidico, l’incredibile sincerità della voce recitante – l’arte, in fondo, è anche virtù, costruzione e risultato – si infrange di nuovo sulla misteriosa frase che ricorre nello spettacolo (e che riportata senza il respiro di Latini rende solo vagamente l’idea): “per sempre/ se pure per sempre non esiste”.
L’aperto, del resto, giova ai poemi scenici di Roberto Latini, come già si era dimostrato nella versione delle Metamorfosi negli spazi esterni del Castello Pasquini andata in scena nell’edizione del festival del 2017: amplia la loro dimensione visiva, permettendo loro di intercettare luoghi e non semplicemente spazi, trasformando corpo e parola in organi di puntamento, confondendo voce e musica nel panico diffuso dei rumori naturali che al loro tocco sembrano ridestarsi, con un nuovo spirito, come una pletora di spiriti. Latini è tra i pochi attori che possano non temere la concorrenza degli usignoli nascosti tra le fronde degli alberi di un parco, al contrario sembra che li abbia addomesticati per fare da contrappunto (o da basso ostinato) alla sua melodia orfica, cangiante, irregolare, di cui l’amplificazione capta ogni sussurro.
Preceduto dalla fama della sua potenza vocale, come da un’ombra che perennemente attende il suo corpo, si diverte a tradirla e in quei tradimenti dà il meglio di sé, con un ritorno di umanità che comunica un brivido quando, svestita senza preavviso la voce della sua grana risonante, “butta via” con deliberata indolenza uno dei più proverbiali e bei soliloqui del repertorio teatrale di tutti i tempi, trasformando il risaputo – “ora l’inverno del nostro scontento / è reso estate gloriosa da questo sole di York” – in inaudito (e anche qui, deve esserci qualche parola in meno o di troppo, un verso aggiunto o tolto, una sostituzione, ma la sapienza del rytmos in quella voce che se ne va come se si allontanasse nel bosco impedisce allo spettatore di individuarlo).
Ogni rumore, ogni musica si sistema nella natura ripopolata dalla voce umana, da quella di Gianluca Misiti, che a tratti ha dei sinfonici accenni di tempesta, per poi ricadere nel lirismo puntuale dei suoi fraseggi, a quella dell’aria di Haendel Lascia ch’io pianga, che irrompe dal bosco come se fosse soffiata dai suoi spiriti, dal suo respiro – ed è accolta dagli spettatori con un naturale senso di meraviglia, perché è naturale che in un boschetto sacro risuoni Haendel, tutto ormai rientra e prende posto nell’incanto di un’unica trasformazione, dove l’umano e il divino, il creaturale e il meccanico, fanno veramente parte della stessa stoffa.
Da un cespuglio si affacciano due occhi elettrici, sono quelli di cane robot che corre ai piedi della dea velata, il pubblico lo accoglie con lo stupore divertito e un po’ euforico che deve aver suscitato l’apparizione dei primi automi, ispirati soprattutto a modelli animali, nelle corti e nei palazzi seicenteschi – e pensare che il prototipo di questa versione cinese meramente ludica viene usato dall’esercito americano per individuare le mine – o come una marionetta kleistiana: vedendolo e sentendo i suoi movimenti, i suoi scatti, le sue capriole teleguidate come quelle di un animale (d’altronde il tanto deprecato paragone di Cartesio tra macchine e corpi animali non fa altro che rivelare quanto c’è di macchina in noi e quanto di noi in ogni macchina). Potenza di un’illusione analogica che dopo aver seminato la terra con le sue lacrime, strappa un sorriso perché parla a ciò che in noi, attori e spettatori, comunque sopravvive, a dispetto delle guerre e delle pandemie, e cioè, di nuovo il desiderio, l’infantile desiderio di rendere a ogni cosa una vita.
Nel castello e nel campo dei morti (Massimo Marino)
La Corte del vescovo è un cortile in forte pendenza tra quelle che oggi sembrano case e che un tempo erano le mura del castello di Rosignano Marittimo. Sembra un teatro greco, con gli spettatori in alto e lo spazio scenico in basso o, viceversa, gli attori in alto e il pubblico in basso. È un luogo raccolto, un nido della voce, delle parole, delle azioni. Ogni battuta, ogni gesto vale il doppio qui. Vi ho visto due spettacoli.
Il primo è il prorompente, contagioso, comicissimo La commedia più antica del mondo. Discorso su Gli Acarnesi di Aristofane dei Sacchi di Sabbia, con l’interpretazione di un felicissimo Massimo Grigò, che senti divertirsi come un matto in questo viaggio nella comicità di duemilacinquecento anni fa risciacquata in Arno dalle parti della sbeffeggiante Pisa dei Sacchi.
Il secondo è uno studio su Pinocchio, Chi la fa l’aspetti, di Nerval Teatro, una compagnia che lavora da anni con attrici e attori diversamente abili. In quest’ultimo lavoro è evidente la gioia dei ragazzi di riprendere a fare teatro; a misurarsi con le proprie difficoltà e superarle con il piacere di recitare grazie all’aiuto di un Maurizio Lupinelli-Geppetto sempre al centro della scena, delicatamente pronto a incalzare, a dare la battuta, a colmare i vuoti. Il gruppo ha dovuto fermarsi per due anni per il Covid: questo studio riapre un importante cammino, con la partecipazione speciale di alcuni genitori che sfilano vestiti da giudici in toga e parrucca. Assistono alle entrate dei ragazzi che danno colori particolarissimi ai personaggi della favola, con Pinocchio sospeso tra l’essere bambino o burattino, e una barca, quella di Geppetto, come luogo di incontro di tutti. È un (nuovo) inizio, già molto promettente.
Gli Acarnesi è una commedia contro la guerra, la prima ad arrivarci di Aristofane. Come con i Sette contro Tebe dell’anno scorso, che metteva in scena in amarissimo modo comico il conflitto mortale tra i figli di Edipo, a capo rispettivamente di un esercito tebano e uno argivo, i Sacchi di Sabbia continuano a rivisitare l’orribile immaginario bellico attraverso il teatro antico. La storia di Aristofane ha per protagonista Diceopoli che loro, incorreggibili goliardi, con spirito scatologico, dissacrante, derisorio, fanno chiamare da Grigò Dick-epolis, cazzo della città. Dickepolis, parlando spesso a un telefono per l’appunto di forma fallica, decide, in contrasto con tutta Atene, di fare pace separata, da solo, con Sparta. Lui se la gode, mentre i suoi concittadini penano e vivono nella precarietà e nei lutti.
Il testo è recitato in un toscano pieno di umori, che dà ulteriore spessore ai rispecchiamenti con l’attualità e ai rovesciamenti di vari luoghi comuni. Esso viene splendidamente vissuto da Grigò, che fa entrare gli spettatori nei giochi di parole, in quelli con la letteratura e la cronaca, convincendo che non di goliardia si tratta nella pièce anche nei riferimenti più scollacciati, ma di vitale apotropaica ritualità antica, meno piena di interdetti e più pienamente legata alla concretezza dei corpi, al sesso, alla fame, al bisogno di pace. È forse un piccolo spettacolo, questo, un monologo, ma di quelli che ti fanno capire la necessità del teatro, di quello (ben) recitato, che ti sposta in continuazione in mille luoghi e pensieri, che ti fa figurare, ti rende vivo, partecipe e creativo, anche se apparentemente sei seduto e puoi solo ridere e applaudire. Ma ridi tanto e applaudi convinto questo ‘antico’ spettacolo magnifico, a fronte di tante mediocri performance che pretenderebbero di parlare linguaggi contemporanei.
Performance. L’ho scritta la parola. Body Farm di Habillé d’eau / Silvia Rampelli è un’azione che ridà senso a quella parola. Dopo un cammino di una ventina di minuti tra campi e alberi imponenti arriviamo a uno spiazzo in salita. Appena ne guadagniamo la sommità il primo incontro è un colpo al cuore: un corpo, morto, steso in terra. Sembra non respiri. Entriamo in pochi alla volta in questo che scopriamo essere un cimitero all’aperto, disseminato di altri corpi, ben distanziati, colti dalla morte in pose di movimento, come i cadaveri di Pompei eternati dall’eruzione della lava. Un altro corpo, di un uomo, è disteso più avanti a pancia in su: con la camicia aperta, mostra un torso bianco, caravaggesco o pasoliniano.
Una scarpa è poco distante, un calzino è sfilato a metà. In un cespuglio troviamo una ragazza ‘morta’ tenendo un paio di occhiali da sole nelle mani e un uomo appeso per i piedi ai rami. Un altro uomo è sul ciglio del burrone verso la vallata, con i pantaloni un po’ abbassati e le mutande quasi sfilate. Un’altra salma, di donna, vestita in modo compito, avvolta in una coperta, è più avanti. E un’altra figura ancora la troviamo con i lunghi capelli distesi tra l’erba secca e il grano tagliato.
Ci avviciniamo a ognuno, in un tempo sospeso, che si dilata sempre di più. È un cimitero all’aperto, che richiama nel titolo dell’azione le Body Farms americane, centri di ricerca di Antropologia Forense per lo studio della decomposizione dei corpi. Il rapporto che si instaura con quel luogo dell’immobilità e del silenzio è intimo, personale. Sempre più sconvolgente, a mano a mano che si focalizzano altri dettagli, altre scarpe appena sfilate, altri occhiali abbandonati. Gli odori intorno sono di erbe di campo, di menta. Abbaiare di cani. Dal paese, sul colle di fronte, irrompe lontana una mazurka della Sagra dello stoccafisso; un fluire discreto di macchine sposta gli occhi verso il cavalcavia della Variante Aurelia.
Sembra che non respirino, i performer, che anche loro vogliano dilatare il tempo, le funzioni corporee, sospenderle, cambiarle. In questa spianata la morte trionfa; da tutt’intorno arrivano flebili, insopprimibili segni di vita.
Nel dialogo con queste icone di trapassati anche il tempo dello spettatore muta: dallo sguardo d’insieme si rivolge alle singole figure, poi di nuovo all’insieme, quindi al paesaggio. A poco a poco si accorge dei camini fumanti della Solvay, che lavorano bicarbonato a ciclo continuo, sulla costa. Capisce che quella sagoma scura che si vede oltre il mare è l’Elba; la punta è Piombino e prima si distende il Golfo di Baratti. L’occhio mette a fuoco le sfumature di giallo e di verde di campi coltivati e zone più selvagge. Non succede niente: l’unica variazione sta nello sguardo della regista che, immobile, osserva prima in piedi, poi in ginocchio, quindi concentrata su di sé, poi di nuovo verso le figure. Ora ti accorgi che quello sul ciglio del burrone ha una catenina che è finita sul mento. È come se avessi appena varcato la soglia di un altro mondo, placido, pauroso, echeggiante quello da cui veniamo.
Non cerchi di tirare fili che traccino un senso. È già forte quella che Rampelli chiama la “datità del fenomeno”, un “effetto senza causa”, che riporta, drammaticamente e nello stesso tempo freddamente, al rapporto tra la vita e la morte, tra i vivi e i morti, rimosso e presentissimo nelle nostre esistenze. La morte come interruzione improvvisa del flusso vitale trionfa e scava nicchie di pensieri e sensazioni in ogni spettatore, fino a quando il sole non scende fiammeggiando dietro la collina e il castello di Rosignano.
Non so se sono riuscito a spiegarmi, a rendere con parole la densità di quello che è avvenuto su quel campo. Questa è stata la cosa più forte, più bella, vista forse in tutto l’anno. Di quelle che continuano ad agitarti dentro, a nutrirti.
Sul campo c’erano Alessandra Cristiani, vista anche nei giorni precedenti nel festival per i 25 anni di Armunia in tre “soli” che esaltavano le sue doti uniche di performer e danzatrice, quel maestro di poesia fisica e mentale che è Marcello Sambati, Eleonora Chiocchini, Valerio Sirna, Francesca Proia, Stefania Tansini, Flavio Arcangeli, in una coproduzione tra Armunia e Tir Danza.
L’ultima immagine è di Body Farm, Habillé d’eau / Silvia Rampelli