Al parco
Il progetto nasce dall’idea di riprendere il parco urbano pubblico nei giorni di festa. È iniziato nel 2006 dal Parco Sempione di Milano, un luogo a me caro, legato ai miei ricordi d’infanzia, dove andavo a giocare da bambina. In seguito il progetto ha assunto una dimensione molto più ampia, proseguendo nei parchi di altre città, italiane – Torino, Roma, Palermo, Milano e Bologna – per proseguire nelle capitali europee e infine al Central Park di New York.
In molte città italiane, nei giorni festivi, il parco si trasforma in un teatro di gioco, specialmente per i migranti. È un luogo di ritrovo di persone provenienti da diversi paesi e diverse etnie che si incontrano tra loro per chiacchierare, ascoltare musica, ballare e mangiare. È per loro il punto di connessione, di collegamento con la loro cultura d’origine, e quindi la possibilità di stare insieme, di non essere soli e di non essere separati. In questo “rito festivo” c’è una situazione di condivisione pacifica dello spazio – che certamente non va idealizzata – in cui si evidenziano i resti sublimati della condizione stessa del migrante, della sua precarietà, del viaggio, della lontananza e dell’essere separati.
In generale, il parco si trasforma in un luogo di incontro, un contenitore di esperienze di vita: diventa un’agorà, uno spazio sociale condiviso ma non delimitato, al tempo stesso aperto e chiuso, una “casa” senza pareti, ma allo stesso tempo protetta.
Così il parco da spazio diventa un luogo pubblico che mette in relazione il dentro e il fuori, il privato e il pubblico, dove si può recuperare l’idea del gioco e l’urbanità riconciliata con il mondo dell’infanzia.
Nello stesso tempo il parco pubblico urbano, il parco storico della città, è uno spazio di terra verde con implicazioni storiche e sociali che rimanda alla dimensione utopica del giardino e riflette i cambiamenti sociali e culturali che ridisegnano le nostre città, rendendo visibili nuovi usi e costumi che prendono corpo.
Nel realizzare questo progetto con la fotografia e il video ho scelto di adottare il punto di vista dal basso collocando la macchina all’altezza dell’occhio del bambino per rendere la spontaneità insieme all’ambiguità delle esperienze e l’apertura al provvisorio e all’imprevisto.
Le fotografie sono tutte orizzontali, in serie. Spesso c’è una zona fuori fuoco per dare l’idea di una cosa osservata con una certa “attenzione fluttuante” non intenzionale.
L’intento è quello di presentare la percezione periferica, “laterale”: non la centralità della nostra esperienza visiva ma la sua mobilità. Rendere la nostra percezione, che non osserva con attenzione ma vive dentro l’esperienza stessa e nello stesso tempo, l’oggetto-luogo nella sua neutralità, senza drammaticità. È un tentativo di mantenere la spontaneità, come se fossi lì di fianco, seduta, e mi guardassi attorno, come se la macchina fosse un prolungamento dell’occhio.