Banville racconta Dublino

19 Novembre 2023

“Quand’è che il passato diventa passato? Quanto tempo deve trascorrere prima che l’appena trascorso cominci a emanare quell’arcano bagliore misterioso che è segno di autentica passatezza?”

È questa la domanda che accompagna John Banville per tutto il suo ultimo libro, Dublino la città nel tempo (Fotografie di Paul Joyce, trad. Irene Abigail Piccinini, Guanda 2023, 222 pp.) una sorta di autobiografia del rapporto fra l’autore e la sua città elettiva, essendo egli originario di Wexford, nel sud-est d’Irlanda. 

Domanda a cui poi non viene data risposta se non tramite una definizione indiretta secondo cui il presente sarebbe dove viviamo e il passato dove sogniamo. Il che ha il suo contenuto di verità.

Nel caso di Banville sicuramente il sogno riguarda la storia che a più riprese riemerge dal passato e cerca spazio fra le pagine del libro, ossia quella di un amore non corrisposto da lui vissuto in età giovanile e che egli racconta con l’eleganza e la finezza che da sempre lo hanno caratterizzato. Anzi, la delusione e la mestizia che questa storia ha lasciato in lui sono evocate con tale palpitazione da impregnare di sé anche il resto delle cose descritte.

In primo luogo la città di Dublino che appare qui sottotono, raccontata in chiave minore, quasi irriconoscibile rispetto a quella odierna, rumorosa, ricca, baldanzosa e giovane. Com’è giusto che sia, Banville ripesca dalla memoria la Dublino povera degli anni cinquanta, quando lui, allora ragazzino, usufruiva ogni 8 dicembre (giorno in cui gli irlandesi si riversano nelle città per le spese natalizie) del permesso di recarsi nella capitale, scendere all’allora famosa stazione di Westland Row, a pochi passi dalla casa natale di Oscar Wilde, sul retro del campus del Trinity College, e perdersi nel reticolo di strade circostanti.

Poi la Dublino del periodo successivo, per lui caratterizzato inizialmente dal suo trasferimento per un paio d’anni nella casa di una zia, situata in una delle zone più storiche della città, ossia quella che ruota intorno a Baggot Street, nota come Baggotonia e resa celebre dal poeta Patrick Kavangh che ad essa ha dedicato diverse poesie, fra cui la bellissima Raglan Road, in seguito musicata e cantata da Van Morrison assieme ai Chieftains. 

Di questa epoca di rinascita anche culturale Banville rievoca i cinema e i teatri che allora avevano quasi tutti sede intorno all’arteria centrale di O’Connell Street, e sono parecchie le pagine che egli dedica all’argomento, anche se, nel narrare la loro storia, pur ricordando che era stato in uno di questi – il Gate Theatre – che Orson Welles aveva iniziato la sua carriera di attore, o in un altro, il Pike, che aveva avuto luogo la tanto discussa première di Aspettando Godot di Beckett (1955), e nel decantare la cinematografia italiana e in particolare quella di Antonioni e dunque nel ricordare con gratitudine la fioritura di cinema d’essai a Dublino, dimentica di accennare al fatto che con grande lungimiranza era stato proprio il suo predecessore Joyce, allora esule a Trieste, a credere nella possibilità economica della diffusione di sale cinematografiche allora inesistenti in Irlanda e ne era stato a tal punto convinto da venir meno alla promessa che si era fatto di non tornare mai più nel proprio paese e farvi appunto ritorno con l’intenzione di cercare fondi per dare il via all’impresa, la quale, forse perché troppo in anticipo sui tempi, si sarebbe per lui rivelata un fallimento. 

Di Joyce Banville parla in un altro punto del libro e dice una cosa interessante, ossia che Joyce aveva sfruttato la città di Dublino per i suoi scopi letterari a tal punto da consumarla, da renderla inutilizzabile almeno per lui, Banville, che inizialmente non sarebbe riuscito a trovare in essa alcun motivo di ispirazione. Sarebbe stato solo in un secondo tempo, con l’invenzione da parte sua dello pseudonimo di Benjamin Black, che egli avrebbe cessato di avvertire l’ingombrante presenza di Joyce e si sarebbe rimpadronito della propria città facendone lo sfondo dei suoi romanzi noir (che però in italiano continuano ad apparire col nome vero dell’autore). E questo forse spiega anche perché, fin dai suoi esordi, di Banville si è avuta la sensazione che fosse il meno irlandese degli scrittori irlandesi.

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Sulla Dublino letteraria, poi, in questo suo libro, Banville non sembra volersi dilungare granché. Non che fosse tenuto a farlo, naturalmente. Accenna all’epoca in cui i pub erano diventati famosi come punto di ritrovo di alcuni scrittori e giornalisti, come il McDaid’s, che già era stato il quartier generale di Brendan Behan, l’esorbitante autore teatrale noto al grande pubblico più per le sue bravate alcoliche e per le sue battute dissacranti, che non per le opere; o come il Bailey’s, il cui proprietario, Jack Ryan, il quale, con i suoi amici scrittori dell’epoca (anni cinquanta), aveva dato vita al primo cinquantenario del Bloomsday nel 1954, percorrendo in carrozza l’itinerario compiuto da Bloom in quel famoso 16 giugno, per concluderlo in breve tempo già ubriachi al mattino – gli altri suoi compari di ventura erano stati Flann O’Brien, Patrick Kavanagh e il giovane Anthony Cronin – tanto che, quando poi in seguito Jack Ryan avrebbe scritto il suo libro di memorie Remembering How We Stood: Bohemian Dublin at the Mid-century (Ricordando come stavamo: la Dublino bohémienne di metà secolo), si era pensato che un titolo più appropriato forse sarebbe stato Forgetting How We Staggered, ossia: Dimenticando come barcollavamo. 

E non a caso Banville, ricordando il poliedrico autore dalle molte identità Flann O’Brien-Myles na Gopaleen-Brian O’Nolan, racconta di averlo incontrato “solo una volta, in una sera d’autunno al tramonto, mentre scendeva barcollando Grafton Street con il cappello sulle ventitré e le falde della giacca che sbattevano nel freddo vento d’ottobre, una triste figura istupidita dall’alcol” (p. 99). 

Interessanti nel libro sono anche le pagine dedicate alle marche di sigarette in voga all’epoca e a quelle di whiskey e birra che con maggior frequenza venivano ordinate. Un po’ noiose invece, soprattutto per i lettori più giovani, quelle in cui, al seguito di un amico di nome Cicero, grande conoscitore della città e dei suoi segreti, ne ripercorre i parchi e le strade soffermandosi di volta in volta sulle variazioni urbanistiche avvenute nel corso del tempo e sulla storia di alcuni edifici, normalmente di architettura georgiana, appartenuti a nobili famiglie.

In conclusione, si può dire che questo libro, pur non raccontando niente di eccezionale o di memorabile ed evitando accuratamente di perder tempo con gli aspetti più turistici della città e soprattutto coi luoghi comuni legati all’oleografia tipica delle riviste da compagnia aerea, a suo modo memorabile pian piano lo diventa, forse proprio per la qualità misurata della scrittura che invita il lettore a entrare in un rapporto di intimità sia con l’autore che con la città che egli descrive.

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