Joyce a Roma

16 Giugno 2022

Enrico Terrinoni è oggi uno dei maggiori esperti di James Joyce a livello internazionale. Oltre ad aver pubblicato diversi saggi sul grande scrittore irlandese, è autore di una delle più recenti traduzioni dell’Ulisse e, assieme a Fabio Pedone, ha portato a termine la versione italiana di Finnegans Wake, iniziata già a partire dagli anni ottanta da Luigi Schenoni. Ora si presenta con un libro molto interessante su un periodo decisivo della vita del suo autore prediletto, ossia i sette mesi trascorsi da Joyce a Roma, dall’agosto 1906 al marzo 1907, come impiegato presso la Banca Nast-Kolb & Schumacher.

Motivo dell’attenzione di Terrinoni è il fatto che questo periodo, benché poco avventuroso e apparentemente privo di eventi eclatanti, e proprio per questo e per la sua brevità nemmeno troppo approfondito dai biografi (con l’eccezione di Carlo Bigazzi che a quel periodo aveva dedicato una mostra fotografica nel 1998), è invece assai ricco di suggestioni e piccoli accadimenti che in seguito Joyce avrebbe trasformato in materia letteraria, ed è soprattutto quello in cui nascono in lui le due idee che saranno determinanti per il suo futuro di scrittore. La prima, che avrebbe alterato la struttura di Gente di Dublino, all’epoca ancora oggetto di disputa con l’editore Grant Richards, si sarebbe materializzata nel grande racconto finale I morti, che avrebbe dato maggior equilibrio alla ripartizione del libro nelle tre fasi dell’età dell’uomo; mentre la seconda, derivata dalla curiosità che egli aveva cominciato a provare per la figura di un certo signor Hunter, sfortunatamente noto a Dublino per le infedeltà della moglie, avrebbe costituito il primo germe dell’invenzione del personaggio di Leopold Bloom e di conseguenza lo spunto iniziale da cui in seguito avrebbe tratto origine l’Ulisse.

Terrinoni ricostruisce l’intera vicenda di quei mesi cruciali trascorsi da Joyce a Roma, prelevando spunti dalle varie (e bellissime) lettere che in quel periodo Joyce scriveva al fratello Stanislaus a Trieste e dalle biografie di Ellmann e McCourt, ma soprattutto elaborando il materiale a suo modo secondo una serie di intuizioni e congetture e una fitta rete di connessioni e rimandi che gli consentono di aderire in pieno ai criteri programmatici che egli stesso esplicita in apertura del libro, quando afferma che è venuto il momento di affrontare la vita di Joyce come “estensione della sua scrittura, di tornare a un terrore misto a meraviglia di fronte alla ricomposizione del sé, anzi dei “sé”, ovvero le possibilità che sempre ci plasmano, le occasioni mancate o abbracciate che finiscono per forgiare (in entrambi i sensi di creare e artefare) sia l’identità che l’arte” (p. 11).

Questo lo porta ad esibire per il lettore il fittissimo reticolo di esperienze di vita accostandole alla resa che di esse Joyce avrebbe dato nelle sue opere, a volte trasfigurandole, altre volte nascondendole cripticamente come messaggi in codice dietro iniziali di nomi o altre connessioni associative, da cui è possibile dedurre, fra le altre cose, come per Joyce la scrittura e la sua tecnica “di far confluire realtà differenti e immaginate distanti in uno stesso continuum” (pp. 74-75) alla fine fossero anche e soprattutto un modo per esorcizzare le sue paure, le sue fobie, le sue ossessioni e per sistemare conti lasciati in sospeso con le ombre del passato.

È il caso, ad esempio, dell’intreccio di temi che viene a crearsi sulle iniziali M. B., che rimandano sia a Molly Bloom, la moglie fedifraga di Leopold, il futuro protagonista di Ulisse; sia a Marion Bruere, moglie di quel tale Hunter a cui Joyce aveva cominciato a interessarsi; sia, invertite, a Buck Mulligan, altro personaggio del romanzo, antagonista del giovane Stephen, che nella realtà corrisponde a Oliver St. John Gogarty, l’amico col quale Joyce aveva convissuto per brevissimo tempo alla Martello Tower di Sandycove, scenario da cui prende l’avvio il primo episodio di Ulisse. Ma M. B. sono anche le iniziali di Michael Bodkin, il vero nome di Michael Furey, ossia il giovane morto per amore di Gretta, la protagonista di I morti, ma che nella realtà era stato innamorato di Nora, la futura moglie di Joyce.

Joyce

Nel racconto, la scoperta di questo rivale di cui il marito di Gretta, Gabriel Conroy, non sa nulla, comporta il crollo delle certezze di quest’ultimo; nella realtà Joyce elabora i suoi sentimenti contrastanti rispetto a questa vicenda prima nei versi di una poesia dai toni delicati, poi in alcuni punti della sua opera teatrale Esuli; ma sarà solo successivamente, quando cadrà vittima di uno scherzo ordito ai suoi danni da Gogarty e qualche altro amico di Dublino, secondo i quali Nora avrebbe concesso i suoi favori a uno di loro prima di conoscere Joyce, che egli si ritroverà, almeno fino al momento in cui non avrebbe appurato l’infondatezza della diceria, negli stessi identici panni di Gabriel Conroy.

Stando alla ricognizione di Terrinoni, tutti questi temi si avviluppano intorno al motivo del tradimento che rappresenta, assieme a quello del trauma, uno degli assi portanti dell’intera opera di Joyce, e che ha parecchi legami con le esperienze da lui vissute a Roma, essendo il motore di tante riflessioni che egli andava facendo proprio in quel periodo, anche in riferimento a vicende del passato, come ad esempio quella di Parnell, il politico finito in disgrazia a seguito di uno scandalo ingigantito ad hoc, la cui caduta era stata all’origine dei guai e della rovina del padre di Joyce e di cui Joyce avrebbe parlato sia in uno dei racconti di Gente di Dublino sia, più diffusamente, nel Ritratto dell’artista da giovane.

Il ripensamento relativo a queste vicende, proprio a Roma, assieme all’interesse manifestato da Joyce in quello stesso periodo per i dibattiti che animavano il Congresso del Partito socialista italiano, e la stima con cui parlava per lettera al fratello di un economista come Labriola, avrebbe inoltre contribuito ad addolcire il rancore col quale aveva lasciato l’Irlanda inducendolo a interessarsi anche alle sorti politiche della propria terra e non solo a quelle letterarie. E che questo suo coinvolgimento sia stato frutto dell’atmosfera e dell’ambiente romani lo dimostra anche il fatto che la durata del suo interesse per questioni politiche coincide proprio con la durata del suo soggiorno nella capitale, come si evince dalla lettera scritta al fratello poco prima di lasciarla per sempre, in data 1/3/1907, nella quale dichiara esplicitamente che “l’interesse che avevo per il socialismo e tutto il resto mi ha abbandonato” (James Joyce, Lettere, a cura di G. Melchiori, Mondadori 1974, p.195).

Accanto a quella politica (Parnell) e a quella degli amanti (di cui s’è detto a proposito di Nora), Terrinoni, considera altre due tipologie di tradimento: il tradimento religioso e quello degli amici. Su entrambi Joyce torna a più riprese nelle sue opere, inclusa Finnegans Wake, dove i riferimenti ad essi abbondano ma sempre trasformati o deformati dalla mitopoiesi linguistica che sta alla base del suo opus magnum, e che Terrinoni rintraccia con l’accanimento di un tenente Colombo intento a tie up loose ends, ossia a collegare questioni in sospeso. Dei due, il più duraturo nella mente di Joyce appare essere il secondo, che viene a incarnarsi nella figura del già citato Gogarty il quale, al pari degli altri conoscenti di Joyce, ritenuti nient’altro che “degli usurpatori, servi del potere, scimmiottatori degli inglesi, anche se giocavano a fare il ruolo degli anticoloniali” (p. 112) viene considerato connivente con l’ideologia e i fini reazionari del clericalismo, e dunque in rotta totale con la posizione che Joyce aveva perentoriamente assunto e a cui sarebbe rimasto fedele per il resto della sua vita. 

La rottura fra i due era avvenuta qualche anno prima, a seguito di un incidente che si era verificato durante la loro convivenza nella Torre Martello, in occasione del quale erano stati sparati anche dei colpi di arma da fuoco. E ora era proprio Gogarty che veniva a turbarlo con la notizia del suo matrimonio e la proposta di rivedersi a Roma durante il suo ritorno dal viaggio di nozze in America, incontro che poi non sarebbe avvenuto nonostante Joyce controllasse quotidianamente  il giornale sul quale avevano concordato di mettere un annuncio per fissare l’appuntamento.

Un comportamento, questo, che rivela quanto meno una certa ambivalenza da parte sua nei confronti dell’amico, quasi che l’incrinatura del loro rapporto fosse avvenuta solo nella sua testa e all’insaputa dell’altro. Gogarty in effetti aveva sempre cercato di tenere in vita il loro rapporto come se nulla fosse mai successo, invitando Joyce a raggiungerlo dovunque egli si trovasse, ad Oxford come studente di medicina, a Vienna come praticante, e pure nel suo libro di memorie It Isn’t This Time Of Year At All! (1954), nel capitolo dedicato alla loro convivenza nella Torre, non risultano litigi d’alcun tipo; semmai ciò che avrebbe potuto ferire l’orgoglio di Joyce, se i particolari del loro rapporto sono riportati fedelmente da Gogarty, è il tono di condiscendenza e paternalismo con cui egli descrive il Joyce di quei tempi e che ovviamente gli derivava dalla consapevolezza di appartenere a una classe socialmente superiore. Sia come sia, alla fine, nonostante a detta di molti Gogarty fosse ansioso di riallacciare i rapporti con Joyce per timore di ciò che Joyce avrebbe potuto scrivere su di lui, in Ulisse l’amante virtuale di Bloom porta il nome della moglie di Gogarty.

Altra comparsa di un dublinese nella vita di Joyce a Roma, stavolta senza intrusione di ombre del passato, è quella di Oscar Wilde, col quale Joyce sentiva di poter condividere il destino di esule e del quale per la prima volta e in italiano legge Il ritratto di Dorian Gray (con titolo Doriano Gray dipinto), rimanendone positivamente colpito. Ma anche in questo caso, un evento di per sé insignificante come la lettura di un libro, o il sentimento di comprensione per la sventura subita da un collega scrittore, per di più connazionale, finiscono anch’essi per trovare echi e rimandi sia in Ulisse (dove a parlare di Wilde è Buck Mulligan, alias Gogarty) sia in Finnegans Wake dove le apparizioni di Wilde sono innumerevoli e a quanto pare per una ben precisa ragione. Seguendo l’indagine di Terrinoni, infatti, apprendiamo che, presente nella biblioteca di Joyce, vi era un numero della “Occult Review” contenente “gli Psychic Messages from Oscar Wilde, ossia messaggi medianici apparentemente recapitati alla sensitiva Hester Travers Smith, in cui lo spirito del drammaturgo si scagliava, tra l’altro, nientemeno che contro le nefandezze a suo dire scandalose dell’Ulisse” (p. 102) . Una cosa piuttosto sorprendente, se non fosse che, come poi sarebbe risultato, questa Hester Travers Smith altri non era che la figlia dello studioso di Shakespeare Edward Dowden, che era stato bistrattato da Joyce nel nono episodio dell’Ulisse.

Ora, questi che potrebbero apparire come dettagli di poco conto, curiosità, o amenità, come li definisce Terrinoni, sono in realtà di massima importanza per uno scrittore come Joyce il quale, non potendo contare sull’apporto di fantasia e immaginazione, di cui egli stesso si diceva privo, contava proprio su tutto ciò che gli accadeva per reperire il materiale di scrittura, sfruttandolo al massimo o duplicandolo e trasformandolo attraverso associazioni di idee e concatenazioni costruite sia sul significato che sul significante di parole e nomi altamente evocativi o mantenuti a lungo presenti nella propria memoria.

E in questo senso il libro di Terrinoni è come una guida redatta alla maniera di un romanzo avvincente in cui si proceda per anticipazioni che incuriosiscono il lettore conducendolo di volta in volta ad annodare fili pendenti fino ad ottenere una tela narrativa perfettamente sistemata in tutti i suoi punti. E in ciò, secondo Terrinoni, sta anche l’insegnamento lasciatoci da Joyce, che consiste nel “leggere la vita esattamente come si leggono le storie: in maniera probabilistica e, direi, quasi quantistica. Perché le storie sono fatte di interazioni, e quel che vediamo nasce da un “impatto” tra il nostro vedere e l’oggetto sotto osservazione. Quando mutano le condizioni dell’osservazione, mutano insieme sia il soggetto vedente sia l’oggetto intravisto. Ecco perché le biografie discordano. Non sempre per incongruenza di dati, più spesso per il mutare delle letture” (p. 11). Considerazione, questa, che non fa una grinza.

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