Dylan Thomas a colpi d'ascia

28 Marzo 2024

Uno dei più appassionati estimatori di Dylan Thomas era stato il filosofo anarchico Charles Duff, autore nordirlandese di testi dedicati all’apprendimento delle lingue e di un libro particolarmente curioso, pubblicato in Italia da Adelphi oltre quarant’anni fa, dal titolo Manuale del boia. Nella sua autobiografia, No Angel’s Wing, racconta di aver conosciuto il poeta gallese all’arrivo di quest’ultimo a Londra, in un pub di Soho, dove lui, Charles Duff, si era recato su suggerimento del suo medico, il quale gli aveva consigliato, oltre che di giovarsi di una buona alimentazione, di assumere alcol come palliativo per i suoi disturbi. E in quanto a ciò, racconta Duff, lui che in vita sua non si era mai sbagliato nel giudicare la gente alla prima occhiata, anche stavolta, nel pub di Soho, aveva capito al volo di trovarsi di fronte al compagno ideale per dare inizio alla sua cura. Da quel giorno lui e Thomas s’erano incontrati parecchie volte, sempre nello stesso posto, con lui, Duff, estasiato dalle qualità oratorie del suo compagno, the best pub-storyteller I had met, come lo definisce, il più bravo raccontatore di storie che avesse conosciuto, e con la cura che procedeva a gonfie vele, tranne per il fatto che poi, a forza di bere, ora lui di tutto ciò che si erano detti in quelle occasioni non si ricordava più niente.

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Dylan Thomas alla White Horse Tavern (photo: Bunny Adler).

In effetti, un sodale migliore Duff non avrebbe potuto incontrarlo: la passione di Dylan Thomas per l’alcol è arcinota e innumerevoli sono gli aneddoti che si potrebbero riferire al riguardo, fra cui l’ultimo, quello riguardante l’intemperanza che avrebbe messo fine alla sua vita, ossia i diciotto whiskey lisci (straight, no chaser) bevuti alla White Horse Tavern di New York, in piena notte, coi quali, come avrebbe detto con aria disperatamente trionfante all’amante che lo stava aspettando nella sua stanza al Chelsea Hotel, aveva forse battuto un record. Molti sono propensi a credere che si fosse trattato di una spacconata e che il numero dei bicchieri fosse di gran lunga inferiore, essendo ormai tale il suo grado di alcolismo, che già solo quattro o cinque sarebbero bastati per farlo schiattare. In realtà invece è più che possibile che avesse detto la verità, in quanto diciotto misure corrispondono all’incirca a una bottiglia, e una bottiglia, anche se di whiskey, per un bevitore del suo calibro, poteva benissimo rappresentare un limite raggiungibile. Sta di fatto però che il giorno dopo sarebbe finito in coma, nonostante l’intervento di un medico che per ben due volte gli aveva somministrato un’iniezione di morfina, e a nulla era valso l’arrivo tempestivo dalla Gran Bretagna della moglie Caitlin, le cui parole, all’ingresso in ospedale, sarebbero poi rimaste celebri: Is the bloody man dead yet? (È già morto, quel disgraziato?).

D’altra parte, chi abbia visto The Edge Of Love, il film del 2008 incentrato sul triangolo amoroso vissuto da Thomas all’epoca della Seconda guerra mondiale con la moglie e un’amica d’infanzia, avrà notato che non v’è scena nel film in cui i protagonisti non compaiano col bicchiere in mano e la sigaretta in bocca. Un particolare senz’altro realistico, dato che già da ragazzo Thomas era abituato a fumare quaranta Players al giorno e a scolarsi una Guinness dopo l’altra, assieme all’amico poeta Vernon Watkins, standosene immerso fino alla cintola nell’acqua del mare di fronte al pub, in modo da non dovere interrompere il flusso delle chiacchiere con continui andirivieni dal banco alla toilette. Ma è proprio in bocca che a qualche spettatore di The Edge Of Love sarà rimasto un po’ di amaro per la scelta da parte della sceneggiatrice di estrarre dalla personalità di Thomas, così complessa e in gran parte autodistruttiva, solo gli aspetti più vili, meschini e vanesi come appunto sono quelli di cui egli dà mostra nel film. E non certo causati dal troppo bere o dal troppo fumo.

Anzi, questi non li si poteva nemmeno considerare vizi, talmente erano indistricabili dal suo processo creativo, così come non lo erano certi episodi di dissolutezza a cui egli poteva capitare di abbandonarsi nei momenti di maggior obnubilamento etilico. Del resto, era proprio nel continuo dibattersi fra gli elementi del binomio womb/tomb, ventre e tomba, nascita e morte, creazione e distruzione, che gran parte della sua poesia era nata e che la sua poesia aveva celebrato proprio come aspetti antitetici sì, ma anche tali per cui l’esistenza dell’uno dipendeva da quella dell’altro, al punto da poter essere considerati nell’insieme come una sorta di sintesi freudiana tra il desiderio di morte e la necessità di creare. 

Ed era proprio questo contrasto a trovare espressione nell’uso particolare che Thomas faceva delle immagini, talvolta talmente oscure da parer quasi allucinazioni verbali, ma che sottostava a un preciso intento compositivo che egli stesso, in una lettera a Henry Treece, giovane poeta appartenente al gruppo della Nuova Apocalisse, aveva spiegato in questi termini: “Costruisco un’immagine – sebbene 'costruire' non sia la parola esatta, lascio, forse, che un’immagine venga 'costruita' emotivamente in me e poi applico ad essa quelle forze intellettuali e critiche che possiedo – lascio che essa ne generi un’altra, lascio che quell’immagine contraddica la prima, creando la terza immagine generata dal penzolare sui limiti formali, e trascinando la poesia in un’altra immagine ancora…”. Mentre in una lettera precedente, stavolta a Charles Fisher, poeta gallese suo coetaneo, aveva ammesso di non avere alcuna teoria della poesia, ma che gli piacevano le cose difficili a scriversi e difficili a capirsi, così come gli piaceva controbilanciare i contrari con immagini segrete e contraddire le sue opinioni dicendo due cose alla volta con una sola parola, quattro con due e una con sei.

Se oltre a ciò consideriamo il suo stile linguistico composto spesso da neologismi, aggettivi sostantivati, sostantivi in funzione aggettivale, sostantivi verbali, arrangiati in una sintassi a volte distorta, ma proprio per questo in grado di produrre il massimo effetto poetico, tramite anche il procedimento per accumulo di immagini e giustapposizione di metafore, è facile capire come questo suo desiderio di apparire oscuro (in onore forse al suo stesso nome – Dylan – che deriva dal Mabinogion e significa “principe delle tenebre”) – sia stato appagato e allo stesso tempo che razza di lavoro improbo, ma evidentemente anche di grande soddisfazione, sia stato quello dei traduttori italiani che hanno dovuto affrontare la poesia di Thomas, da Sanesi a Marianni, da Montale a Giuliani. Poesia che, come lui stesso aveva ricordato in una nota all’edizione del 1952 dei suoi Collected Poems, era stata scritta “per amore dell’Uomo e in lode di Dio”.

Ci si è provato ora Emiliano Sciuba in questo volume da lui curato per Crocetti, dal titolo Poesie inedite. Un volume importante perché con esso si completa la traduzione in italiano dell’opera in versi di Thomas e che mette insieme, oltre alle poesie che non avevano trovato posto nei Collected Poems (1952) ma erano comunque state pubblicate nelle singole opere (18 Poems, 1934; 25 Poems, 1936; The Map of Love,1939;  Death and Entrances, 1946), anche numerose “poesie sparse” e diverse altre che il poeta aveva scritto in età giovanile. Il titolo del libro si riferisce dunque al fatto che almeno ventidue fra queste poesie, ossia quelle appartenenti al primo gruppo, erano inedite solo in italiano, in quanto i precedenti curatori dell’opera di Thomas (Sanesi e Marianni), si erano attenuti nel loro lavoro alla traduzione delle poesie che apparivano nei Collected Poems, e non a tutte quelle che componevano le singole opere.

Ne risulta un libro compatto e anche stilisticamente uniforme, con l’eccezione di alcune poesie che già all’epoca della loro pubblicazione nei 25 Poems avevano sollevato qualche perplessità, come Now (Ora) che l’amico Watkins aveva consigliato a Thomas di togliere, trovandola di una “oscurità inammissibile” e spingendo lo stesso Thomas ad ammettere che di fatto si trattava di una poesia che non aveva alcun senso; e How Soon The Servant Sun (Quando il sole servile), pure questa giudicata all’epoca insensata dall’editore di Thomas, Richard Church, il quale, dopo un primo tentativo di indurre Thomas a rivedere anche altri testi della raccolta in quanto egli non vi ci si raccapezzava, avrebbe comunque pubblicato il libro andando inaspettatamente incontro a un clamoroso successo di vendite.

Per il resto, come scrive Emiliano Sciuba nell’Introduzione al volume, “l’edizione di queste poesie ha il pregio di restituire al lettore italiano alcune tra le più significative visioni dell’imagery thomasiana:  il risultato è una raccolta coerente e coesa intorno ad alcuni temi ricorrenti del poeta, come il mistero della nascita e il dramma del divenire, la consunzione del tempo e la condanna della morte, l’innocente peccato della carne e l’eterotopia dell’amore che, come la nave – il mare è un filo rosso di questi versi –, vive la propria pluridimensionalità di luogo “altro” e di mondo dentro il mondo, frammento galleggiante di spazio abbandonato all’infinità del viaggio”.

A tal proposito, un buon esempio del modo di procedere di Thomas, il più delle volte determinato dal processo di compressione a cui dovevano andar soggette parole e immagini, ci vien dato in questo libro dal testo che appare in apertura, When Once The Twilight Locks (Quando le serrature del tramonto non rinchiusero). Qui il meccanismo che sta alla base della poesia di Thomas si rivela nel verso “Inviai la mia creatura a perlustrare il globo”, il quale, nell’indurre il lettore a chiedersi chi sia il soggetto parlante, chi la sua creatura e a quale globo esso si riferisca, lo invita anche a prender atto di come qualunque elemento portatore di senso non possa avere alcuna interpretazione univoca dacché i vari significati che le parole assumono – in questo caso, creatura e creatore – vengono fatti coesistere anche se dovessero appartenere a sfere diverse, come quella biologica, sessuale, religiosa o artistica.

Chi parla in questa poesia, infatti, è un creatore e, come tale, può essere un padre, oppure Dio, oppure il poeta stesso, o forse tutt’e tre insieme. Come in Joyce, che su Thomas ha avuto un’influenza determinante, l’artista è il Dio della creazione, padre di ogni cosa e di tutti gli esseri. E la sua creatura, perciò, può essere Adamo, un figlio, il Figlio, una poesia, lo strumento atto alla creazione (parola e fallo), o una proiezione dell’io. Questo perché sempre, in Thomas, dietro l’apparente argomento del testo, che in alcuni casi può essere anche solo di facciata, si articola a volte velatamente, altre volte più scopertamente, una riflessione sul farsi stesso del componimento. 

 

Siamo ben lontani, dunque, dall’accusa che era stata mossa alla sua poesia di sembrare “aperta come un rubinetto” e di non essere altro che “sostanza poetica senza un principio né una fine, senza forma e un controllo intelligente o intellegibile”. Critica, questa, che forse era più diretta a colpire il personaggio che non le poesie, ossia il poeta stesso, il quale, geloso com’era della propria autonomia, cominciava a infastidire con la sua crescente notorietà soprattutto coloro che si facevano forti delle proprie consorterie – “i vasi di letame intellettuali appoggiati a una teoria, i postsurrealisti e gli orgasmisti, i fischiatori e gli abbaiatori tette-nella notte”, come Thomas li aveva definiti in una lettera a Henry Treece.

Del resto, già da giovanissimo Thomas aveva dimostrato di possedere uno spiccato talento versificatorio, grazie al quale era stato ribattezzato “il Rimbaud di Cwmdonkin Drive” (dal nome della via di Swansea in cui egli aveva vissuto coi genitori), e di cui il presente volume riporta diversi esempi fra le poesie adolescenziali, assieme ad altre composizioni, altrettanto pregevoli, contenute nella sezione “Poesie sparse” (come I figli dell’oscurità non hanno ali, Nessuno crede, A volte il cielo è troppo luminoso, Lasciate che si sappia) le quali, anche secondo il curatore, avrebbero meritato di essere raccolte in volume già quando il poeta era ancora in vita.

La casa galleggiante di Thomas a Laugharne, nel Galles, come si presenta oggi.

Ma naturalmente la particolare destrezza di Thomas è ancora più evidente nelle sue poesie più mature. Nella straordinaria Over Sir John’s Hill (Sulla collina di Sir John), riscritta la bellezza di 116 volte, il poeta descrive una scena al tramonto, dalla sua casa galleggiante in riva al mare, a Laugharne, nel Galles meridionale. Un falco, infuocato dal sole, piomba sugli uccelli che volano a bassa quota sulla baia, e col suono alto delle vocali dei primi due versi (quasi tutte ‘a’ ed ‘e’) il poeta mima il movimento d’attesa del falco, e con il suono basso, ottenuto spezzando in due la parola jack-dows (cornacchie) il momento dell’impatto, riuscendo da un lato, con la prima parte del vocabolo, a rispettare il metro di sei sillabe del verso, e con la seconda, andando a capo e con l’abbassamento del suono da ‘e’ a ‘ou’, a riprodurre il volo in picchiata:

Flash, and the plumes crack,
And a black cap of jack-
Daws …

Lampo, e le penne scrosciano,
E un nero tocco di cornac-
Chie…

Un altro esempio è rappresentato dalla bellissima Vision and Prayer (Visione e preghiera), dove la scena descritta nei versi iniziali è quella di un parto e chi ascolta, di là dalla parete sottile, nel chiedere chi sia il nascituro, emette una serie di parole dai suoni cupi e bassi, con prevalenza di ‘o’ e ‘u’, quasi fosse un borborigmo proveniente dal ventre o un mantra sotterraneo:

Who
Are you
Who is born
In the next room
So loud to my own

Chi
Sei tu
Che nasci
Nella stanza accanto
Alla mia con tanto clamore

Di “aperto come un rubinetto” dunque c’è ben poco nella poesia di Thomas, la quale al contrario era calcolata fin nei minimi particolari, o forgiata a colpi d’ascia, come a lui piaceva dire, ed era frutto di un lavoro “scontroso” e “ostinato” che non dava tregua fino a che non avesse raggiunto la perfezione, come si vede anche da questi pochi esempi che pur nella loro limitatezza sono esplicativi del suo modo di operare. 

Se ne era accorta all’epoca la poetessa e saggista Edith Sitwell che sarebbe stata fra i suoi più ferventi ammiratori pubblici e avrebbe avuto un peso determinante nel farlo conoscere al di fuori del ristretto ambito dell’avanguardia, perorandone la causa in tutti i modi e finendo anche per invitarlo nel suo ambiente, che era quello della antica nobiltà inglese, nel quale naturalmente egli si era trovato come un pesce fuor d’acqua, soprattutto per la scarsità di bevande alcoliche che erano state messe a sua disposizione, dato che, come avrebbe confessato in seguito, al ricevimento a cui aveva partecipato “c’erano più duchi che roba da bere”. 

Questa l’avrebbe comunque continuata a trovare sempre e in ogni altra situazione, fino al momento finale del Chelsea Hotel, quando si era alzato in preda al panico, dicendo di aver visto le porte dell’inferno e di aver bisogno di bere per placare l’inquietudine. Dopodiché si era preparato con grande cura ed era sceso per avviarsi docile in quella buona notte.

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