Blanchot l’oscuro 

20 Marzo 2023

Ha tanti modi di essere, la letteratura, e uno di questi, per me uno dei più forti e significativi, non importa quanto difficile, arduo da seguire e da reggerne il livello, è quello di Maurice Blanchot. Perché a volte è una cosa che fa un po’ paura, la letteratura come la intende Blanchot, che disorienta, che chiede molto, e quindi uno ha la tentazione di negarsi, ma poi è così contento di esser da quelle parti, che infine, sia quel che sia, ci entra e non vuol più stare in nessun’altra. 

Si entra in essa come il protagonista di Thomas l’oscuro, il suo primo romanzo ora tradotto per la prima volta per il Saggiatore da Francesco Fogliotti, entra nel mare: l’acqua è calma, lui è un buon nuotatore, abituato a spingersi al largo, conosce il mare, se una cosa del genere è possibile: conoscere il mare, e chi mai?, e va avanti di buona lena, ma poi all’improvviso si alza una bruma scura, non si vede più niente, si perde l’orientamento ma si continua lo stesso, non resta che continuare, e sperare di approdare da qualche parte, non si sa dove, perché da qualche parte, se non si annega, si approderà. Tanto più che ogni tanto la bruma si apre e lascia intravedere una riva, a indicare un possibile approdo. Chissà dove sarà. Come sarà. Come vi si arriverà.

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È difficile raccontare di cosa parla questo strano e misterioso romanzo, che molti reputano il capolavoro di Blanchot, che in Italia è conosciuto soprattutto per la sua importantissima opera saggistica, mentre la narrativa, pur avendo conosciuto varie traduzioni, è dispersa in tante edizioni validissime ma talvolta di diffusione minore (si veda Maurice Blanchot, Riga n. 37 a cura di Giuseppe Zuccarino). Scritto negli anni ’30, il romanzo fu pubblicato nel 1941 grazie a Jean Paulhan in una prima versione che fu poi ripudiata, nel 1950, in favore di una seconda ridotta a meno della metà, quella ora tradotta, considerata definitiva dall’autore che ha sempre rifiutato la ristampa della prima, poi ovviamente effettuata dopo la sua morte. Gli editori, i filologi, i cultori, i professori, gli eredi... Uno può dire quello che vuole ma quando una cosa c’è, resta lì a disposizione di tutti, prima o poi. Noi non ce ne occuperemo. Come non ci occuperemo delle altre opere di quel periodo fecondissimo a cavallo tra gli anni ‘40 e ’50 di testi sia narrativi (Aminadab, La follia del giorno, La sentenza di morte, L’altissimo), che critici, molti dei quali raccolti in Passi Falsi e Lo spazio letterario, che pure con questo libro condividono molti aspetti della scrittura e alcuni temi fondamentali che poi prenderanno altri nomi (la notte, la morte, il neutro…) senza uscire dai confini qui tracciati, sia pure in modo oscuro.

E proprio l’oscurità, già dal titolo chiarissimo di questo primo romanzo, è messa da Blanchot sulla soglia della sua opera a inaugurarla e ad avvolgerla, e a indicarne uno dei nuclei. È quella del linguaggio in cui si confonde in continuazione ogni cosa che viene detta, anche quando l’espressione appare cristallina. È il fondo di ogni cosa detta, il buio al centro del giorno più abbagliante, la morte che sta all’inizio e accompagna (intride, costituisce nel loro intimo essenziale) i personaggi e il lettore fino alla fine, che non finisce mai.

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La vicenda, se tale può essere definita, è ambientata in una stazione balneare, tra spiagge, boschi, bagni in mare e stanze di un albergo i cui ospiti sembrano, e forse sono, in buona parte affetti da qualche malattia, più suggerita che nominata o descritta, prossimi a una morte che tutti li minaccia e alcuni li raggiunge.

Un uomo solitario, Thomas, ha una strana storia d’amore con una donna di nome Anne, che poi gli rivela, con la sua morte, molte cose che lui stesso ignorava del loro rapporto e su di sé.

La morte, il morire, la sua impossibilità, e insieme “ogni istante della mia vita come istante in cui stavo per abbandonare la vita” percorre tutta la narrazione, tra momenti realistici, altri riflessivi, sogni e divagazioni, in un contesto che sarebbe tentati di definire fantastico se lo smantellamento e la dissoluzione dei confini di tutti questi generi discorsivi non fossero la procedura costante di tutto il libro. “Tutto il mio essere parve confondersi con la morte”, dice Thomas, “non avevo che la morte come indice antropometrico. È anche ciò che ha reso il mio destino inesplicabile”.

Questa prossimità sempre imminente della morte di derivazione esistenzialista, heideggeriana ma con inflessioni religiose e vicine al romanticismo tedesco, che caratterizza in modo esplicito non solo Thomas l’oscuro, ma tutta la prima produzione narrativa;  la sua presenza costante nella vita , che rende morti in vita, ma proprio per questo veramente vivi, vivi nella morte, è la stessa che Blanchot pone alla base della scrittura, di ogni scrittura propriamente detta per lui, e certamente della sua. 

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A raccontare, se di un raccontare si tratta, è una voce narrante indefinita e sfuggente, che parla di un personaggio altrettanto sfuggente di cui niente si sa e poco si viene a sapere durante la narrazione (oscuro, appunto) se non attraverso reazioni altrui. La sua dimensione è quella della solitudine, dell’incapacità, o meglio dell’impossibilita di relazioni in cui si ritrova anche quando una sembra instaurarsi con Anne, per la quale però egli risulta inafferrabile nella sua prossimità come lo è per il lettore (e per la voce narrante, che lo scopre e lo insegue in continuazione senza riuscire mai ad afferrarlo), salvo poi ritrovarsi in una desolazione senza remissione quando la perde.

All’inizio Thomas guarda il mare dalla riva nella tipica posizione teoretica, di chi osserva da fuori gli eventi, come nel topos lucreziano del naufragio con spettatore studiato da Blumenberg, poi vi entra. È abituato a nuotare al largo ma stavolta sceglie “un itinerario nuovo”. Avvolto da una bruma improvvisa, non vede più nulla e si perde. Decide di continuare a nuotare senza sapere se approderà da qualche parte né tanto meno dove. Potrebbe essere benissimo un’immagine della scrittura, e in particolare della scrittura del libro che qui sta iniziando. Lo stesso accade al lettore. Che non solo fatica a immaginare cosa potrà accadere, ma nemmeno l’orizzonte di cosa potrà dire la frase successiva, e talvolta non riuscendo addirittura a immaginare il nesso, o i nessi, con quella precedente, che spetterà a lui costruire, se proprio lo vorrà. E lo stesso pensa che capiti anche a chi scrive. Cosa farà? Approfondirà quanto appena detto in modo enigmatico? Lo chiarirà? Si dirigerà altrove? O sorprenderà proseguendo in linea retta? Perché anche questo può accadere. E allora il prevedibile diventerà a sua volta enigmatico. Ma anche così, questo produrrà al contempo per chi legge una specie di sollievo, una pausa; tuttavia sempre con l’aspettativa (con l’ansia: con il fiato sospeso, con la sospensione del fiato mentre ancora lo si sta tirando), ma anche con il desiderio, di essere di nuovo deluso, spiazzato, costretto a cambiare posizione, a scoprire se, e in che modo, ne sarà capace. Scrivendo il libro che sta leggendo in un modo non dissimile da chi lo leggeva mentre lo stava scrivendo. 

È esattamente questa alternanza, fatta di sospensione e scoperta, di frustrazione e desiderio continuamente rilanciato, che si esperimenta leggendo i testi narrativi di Blanchot, già a partire da questo suo primo romanzo. Si è all’oscuro, come il protagonista eponimo, e ci si inoltra nel buio. E il buio è l’occasione per vedere, anziché esserne l’impedimento. A meno che, spaventati, non vi si getti uno sguardo per subito distogliersi e chiudersi la porta alle spalle verso la luce, il giorno (con la sua follia, come titola il bellissimo racconto citato). Se non che il giorno, allora, abbaglia, sia pure per un attimo, che mostra come la cecità sia al centro della luce, che è a sua volta buio, come in quello del buio soggiorna la luce. È un istante decisivo, un istante in cui appare la morte al centro della vita rivelando la propria essenzialità costitutiva, che consegna ogni individuo alla solitudine, da cui nessun possibile legame, come quello di Thomas con Anne, lo potrà liberare, e come avranno entrambi modo di verificare, vivendo la morte l’una, e morendo la vita, l’altro. 

Le parole che servirebbero a dire esplicitamente una cosa, a specificare un’azione importante o addirittura decisiva, a illustrare una situazione o un evento, vengono sistematicamente omesse: al loro posto è tutto un fiorire di immagini, di figure (soprattutto retoriche) e di gesti e sensazioni e emozioni si direbbe senza referente, che acquisiscono un carattere astratto anche quando sembrano denotare qualcosa, e comunque indiretto: non potendo stare in se stesse, perché prive di consistenza, o meglio vuote, proliferano in ogni altra direzione che da esse si allontana solo per ricondurvisi dopo un largo giro, ma ritrovandola non più la stessa, mutata, o piuttosto negata. Nel frattempo il filo si tende e attorciglia, o si spezza, compie un salto, cambia percorso, e il lettore si smarrisce, abbagliato da illuminazioni e da ampie zone buie, che si scambieranno i ruoli e di segno o di posizione gerarchica, a una seconda e ad ancora successive letture. C’è di che restare incantati, ma anche molto irritati. La delusione non si tollera troppo a lungo. La frustrazione fa anche bene, ma deve trovare uno sbocco, un appiglio. Che però Blanchot si ingegna sistematicamente a negare. Per poi rilanciare il discorso oltre, aldilà, senza alcuna contraddizione.

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Tutto ciò comporta la necessità di una lettura lenta, e non di rado di una rilettura che richiede una partecipazione attiva al lettore, e amplifica il suo statuto di co-autore del testo che già qualsiasi lettura in vario grado implica. Il lettore scopre sì leggendo, ma non lungo un percorso tracciato, bensì per via di connessioni e stratificazioni e diramazioni che gli viene richiesto implicitamente di istituire, che si ritrova lui stesso a istituire se, e finché, decide di restare nello spazio del libro: uno spazio a venire (per alludere a uno dei più noti libri di Blanchot), ma anche in divenire costante, che si riavvolge su se stesso e torna modificato dalle differenti azioni del lettore, come delle differenti parole della voce narrante.

Niente viene detto delle cause, delle motivazioni o delle fonti o di quanto succede ai personaggi o viene riferito come da essi pensato o immaginato, neppure quando, magari poco dopo, viene affermato l’opposto o qualcosa di logicamente estraneo o incompatibile. Quanto appena detto, o scoperto, o visto o constatato, viene subito rilanciato in un’altra direzione, oltre, con un passo al di là, che, secondo l’ambiguità dell’espressione francese usata per un importante libro di saggistica, dell’aldilà è anche una negazione (Le pas au-delà, Gallimard, 1973; trad. it., Il passo al di là, Marietti, 2000).

Cose che si possono dire solo lì, così, sul filo tra il dire eccessivo e il non dire niente, continuando comunque a parlare. Come se ogni volta, per citare un suo titolo dedicato a Celan, si fosse l’ultimo a parlare. Ogni volta ciascuno, e ogni libro, l’ultimo. Ma decisivo. Imprescindibile, come un’origine cancellata da cui ripartire.

Proprio oggi che la letteratura e la critica hanno perso gran parte del loro fascino e della loro importanza e autorevolezza e sono spesso ridotte a un chiacchiericcio sentimentale o al massimo umorale, è il momento di insistere su di esse, sul loro valore e sulla loro specificità, in qualsiasi forma si presentino, sulle domande che solo esse sono in grado di porre, e tanto più su quelle insensate, apparentemente, o senza risposta. Quelle che solo esse sono in grado di tenere vive, quando tutto spinge verso ciò a cui si può e deve trovare risposte, per tradurle poi in concreto, in fatti e in cose: già morte ancor prima di aver trovato una qualche realizzazione.

È nel momento in cui essa cessa di avere importanza, in cui quello che al massimo le si chiede è di intrattenere, di entrare nella macchina produttiva e produrre svago (necessario) e distrazione (imprescindibile), e quindi nel momento in cui non ha più niente da dire a nessuno, che la letteratura può liberamente parlare, dire ogni singola parola e parlare di ogni cosa e insomma di tutto, senza dover dire (il) tutto. È nel momento della sua massima inutilità che si palesa la sua necessità.

Non si tratta di una scaramuccia di retroguardia, nata dalla sconfitta e dalla nostalgia di pochi, ma di un’azione d’avanguardia, di una pacifica guerriglia asimmetrica, se si vuole, per il futuro di molti.

Non viene raccontato quasi nulla, e allora solo cose insignificanti che però acquistano, chissà perché, aloni giganteschi, mitici e producono echi interiori smisurati. Al loro posto riflessioni e analisi che hanno pochissimo di psicologico per quanto sembrino affondare nelle fibre più profonde dei personaggi, spesso da loro stessi ignorate. Chi le fa? Chi parla? Non si sa: a volte sembra il protagonista, Thomas, ma più spesso una voce anonima, neutra, che mostra di capire, o quanto meno di voler sviscerare, anche l’incomprensibile, e anzi soprattutto quello. I riferimenti concreti che ciascuna di queste (queste cosa? riflessioni? speculazioni?) che ciascuna di queste frasi, poiché tali in fin dei conti si riducono ad essere (tali in fin dei conti sono) dice, le rare volte che sono accennati, o descritti, sembrano perdere corpo e concretezza, diventare anch’essi astratti, sono occasioni, o elementi (meglio) delle frasi che di fatto le originerebbero. Si fluttua in esse, si nuota nella loro tempesta, come Thomas all’inizio del libro quando si addentra nel mare che sembra calmo e poi viene coperto da una foschia che tutto confonde mentre le acque si agitano all’improvviso e rischiano di travolgerlo.

Sono solo parole messe in fila che poi ruotano su se stesse, e si alzano e creano onde e gorghi che trascinano il lettore a fondo e poi lo riportano a galla, dove può per un momento lasciarsi andare, riposare sulla liscia superficie, per essere presto di nuovo inghiottito e sballottato. È letteratura. Solo letteratura. Letteratura e basta. E questo è tutto. E questa letteratura, per Blanchot, e per il lettore, è tutto. Deve essere tutto. O altrimenti non è niente. Anche questo è possibile. Molti ci vivono bene. Qualcuno no. Io, per esempio, sì. E sono certo di non essere il solo. Ho le prove.

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