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Calvino e Nono: una collaborazione incompiuta
“A ben vedere, l’elemento dominante nei bombardamenti è il silenzio: la popolazione durante l’allarme sta a orecchie tese per cogliere l’avvicinarsi degli aerei […] e non c’è momento più significativo del silenzio che segue lo scoppio delle bombe.” È quanto Italo Calvino scriveva a Luigi Nono nel 1966: un’amichevole lettera densa di riflessioni che fu inviata pochi giorni dopo aver assistito alla prima esecuzione del brano di Nono A floresta é jovem e cheja de vida. L’ascolto, che diventerà sia per Nono che per Calvino un perno delle opere degli anni Ottanta, era già un tema centrale nelle considerazioni di Calvino del ‘66 non solo per l’apprezzamento di A floresta, ma anche per la sua personale esperienza in guerra: “Anche nelle battaglie partigiane – e penso in tutte le battaglie – l’elemento essenziale per ogni combattente è l’udito, nel senso di cercare di distinguere e localizzare gli spari e qualsiasi altro rumore isolandolo dal frastuono generale, di interpretare gli improvvisi silenzi nel cuore della battaglia […] Tutta la vita partigiana si vive attraverso a un’amplificazione dell’udito, un riconoscimento minuzioso di rumori e di silenzi”. Un ascolto quindi teso al dettaglio, alla minima variazione e alla dimensione spaziale, la direzione da cui provengono suoni e rumori.
Italo Calvino e Luigi Nono si erano conosciuti alla fine degli anni Cinquanta grazie a Massimo Mila e si erano ripromessi di realizzare assieme un’opera, ma il progetto non è mai arrivato a compimento. Nono cercava “la fantasia creatrice di un uomo d’oggi”, ma Calvino dopo alcuni anni si tirò indietro quasi scusandosi: “Fare una cosa con te mi piacerebbe moltissimo. Ma non ho immaginazione scenico-lirica. La dimensione ‘coro’ mi sfugge. E anche quello slancio di poesia lirica collettiva che dovrebbe sostenere una tua opera”. In verità il soggetto inviato da Calvino nel gennaio del ‘59 aveva entusiasmato Nono al punto da farlo esclamare, in una lettera a Mila del mese successivo: “Calvino ha avuto finalmente «l’idea folgorante»!!! molto bella e nuova”. E Nuria Schoenberg, moglie di Luigi Nono, si era occupata personalmente di curarne la traduzione in tedesco, probabilmente per la Ars Viva Verlag di Hermann Scherchen che era allora l’editore di Nono.
Il titolo del breve soggetto di Calvino è piuttosto curioso: La bomba addormentata nel bosco, ma lo sviluppo della vicenda è sorprendente nella sua attualità. Come evidenzia Bruno Falcetto, si tratta di una rivisitazione sceneggiata dell’omonimo racconto che era stato pubblicato su “Incontri Oggi” nel giugno 1954 e poi, con piccole differenze testuali, nel maggio del 1955 sulle pagine delle edizioni di Torino, Milano e Genova di “L’Unità”. Va qui ricordato che “L’Unità” era allora il quotidiano del PCI e che entrambi, sia Nono che Calvino, in quegli anni erano iscritti a quel Partito. Tant’è che qualche anno dopo Calvino pubblicò la sua lettera di dimissioni dal PCI proprio su “L’Unità” del 7 agosto 1957: “Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita: vi sono entrato a vent'anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito.” Nonostante l’allontanamento dal PCI (Nono invece rimase iscritto) Calvino dichiarò nell’intervista a Eugenio Scalfari del 1980: “Ricordo benissimo che quando mi capitava di andare in viaggio in qualche paese del socialismo, mi sentivo profondamente a disagio, estraneo, ostile. Ma quando il treno mi riportava in Italia, quando ripassavo il confine, mi domandavo: ma qui, in Italia, in questa Italia, che cos'altro potrei essere se non comunista?”
Ma torniamo al soggetto La bomba addormentata nel bosco inviato da Calvino nel 1959 (tra virgolette sono riportati alcuni passi dell’originale: per il testo completo vedi qui). Vi si narra di una potentissima bomba H che viene erroneamente sganciata su una città senza tuttavia esplodere. La città viene evacuata e di conseguenza si proclama la pace universale. Nei dintorni cresce una foresta. È l’ultima foresta della terra nella quale trovano rifugio “persone diventate inutili nel mondo pacifico: generali, uomini di Stato, poliziotti” che si alleano con un miliardario intenzionato a radere al suolo la foresta per poter sfruttare un presunto giacimento petrolifero.
Il titolo delle due versioni è inalterato, ma il centro della vicenda, nella seconda, è spostato sulla foresta e sulla sua grande capacità di rigenerare e riscattare l’ambiente e l’umanità. Tutto ciò avviene grazie alla figura di una ragazza di nuova generazione, mentre nella versione del ‘55 “donne non ce n’erano, e non si perpetuava nessuna schiatta”. La “ragazza della nuova generazione […] vuole liberare la foresta dalla bomba perché il mondo senza foresta non è più mondo” e ha come alleati “rivoluzionari, negri, poeti, gente obbligata a fuggire dal conformismo del mondo meccanizzato”. Nella foresta la ragazza incontra poi un uomo “un trovatello abbandonato in fasce nella foresta e là cresciuto”. I due si amano e “il loro amore fa lussureggiare la foresta come in un esplosione di forze naturali”. Alla fine “la foresta e il mondo meccanico si fondono.” La bomba non si trova più, era solo una leggenda. “Tutto è stato leggenda, dice il coro finale di uomini donne animali piante pietre e metalli, tutto quel mondo assurdo (cioè quello in cui siamo noi oggi) non è mai esistito”.
Quest’ultimo testo oggi ci appare molto più incisivo e attuale della versione del ‘54-‘55 nella quale, con tono un po' caricaturale, Calvino imperniava la vicenda sulla figura di Pierino, un bambino che giocava a fare l’artificiere. Nel soggetto elaborato per il progetto teatrale con Nono è presente una forte speranza nel futuro e, al di là di un certo timore per l’olocausto nucleare tipico del periodo, anche una modernissima visione ecologica planetaria. Non sorprende quindi l’entusiasmo di Nono, soprattutto se si considera che in molte sue composizioni, anche le più drammatiche e socialmente impegnate, il finale rivela una prospettiva sostanzialmente positiva spesso affidata a cristalline voci femminili. Per fare due esempi ricordiamo: Il Canto sospeso del ‘55-‘56 i cui ultimi versi sono “vado con la fede in una vita migliore per voi” o La fabbrica illuminata del ‘64 che termina con le parole “non sarà così sempre, ritroverai qualcosa”.
Si diceva che Italo Calvino e Luigi Nono erano coetanei: il primo nacque il 15 ottobre del 1923, il secondo pochi mesi dopo, il 29 gennaio 1924. La loro esperienza giovanile, già durante il periodo degli studi, fu segnata dal fascismo. Ma, mentre Nono poté evitare il servizio militare per motivi di salute, Calvino nel 1943, per sottrarsi alla leva della RSI, si dovette nascondere e poco dopo aderì alla lotta partigiana e conseguentemente al PCI. Nono invece decise di prendere una posizione politica iscrivendosi al PCI nel 1952 assieme a Bruno Maderna, che aveva partecipato anche lui alla Resistenza. Sullo sfondo della loro decisione è possibile intravedere le influenze di Hermann Scherchen e di Jean-Paul Sartre.
Prevedibilmente la figura di Che Guevara ha avuto una grande importanza per entrambi. Nono ha inserito la voce di Fidel Castro che legge le parole del Che nel nastro magnetico del brano Y entonces comprendió del 1969-70 dedicato “A Ernesto ‘Che’ Guevara y a todos los compañeros de las Sierras Maestras del mundo”. Alcuni anni dopo, nel ‘75, nella grande opera Al gran sole carico d’amore, commissionata dal teatro alla Scala su testi curati da Nono stesso, le prime parole ad essere cantate dalla protagonista e dal coro sono proprio del Che: “La belleza no está reñida con la revolución” (ovvero non c’è contrasto tra bellezza e rivoluzione).
Il 15 ottobre 1967, poco dopo la morte del Che e giorno del proprio quarantaquattresimo compleanno, Calvino scrisse: “Qualsiasi cosa cerchi di scrivere per esprimere la mia ammirazione per Ernesto Che Guevara, per come visse e per come morì, mi pare fuori tono. Sento la sua risata che mi risponde, piena d’ironia e di commiserazione. Io sono qui, seduto nel mio studio, tra i miei libri, nella finta pace e finta prosperità dell’Europa, dedico un breve intervallo del mio lavoro a scrivere, senza alcun rischio, d’un uomo che ha voluto assumersi tutti i rischi.” (pubblicato in spagnolo nel gennaio ‘68 sulla rivista cubana Casa de las Americas – non dimentichiamo che Calvino era nato a Cuba – e successivamente pubblicato in Italia nel 1998).
La corrispondenza tra Nono e Calvino, custodita presso la Fondazione Archivio Luigi Nono di Venezia, iniziò il 23 ottobre del ‘59: “buongiorno Italo Calvino […] ho un’idea per un teatro nuovo nella sua funzione e nella sua realizzazione nel nostro tempo […] non mi è necessario un ‘libretto’, roba da museo […]” e pochi giorni dopo Calvino rispose per concordare un incontro: “Caro Nono, ho ricevuto la Sua lettera piena di baldanza e di entusiasmo, e m’ha fatto piacere, anche perché Mila m’aveva parlato molto bene di Lei. […]”
L’intenzione di portare avanti la collaborazione fu più volte ribadita da Calvino, ma non arrivò mai a conclusione. La cordialità del loro rapporto è confermata dall’appellativo “mio carissimo amico” che Calvino riserva a Nono in una lettera del 1959 a Suso Cecchi D’Amico. Tuttavia nell’estate 1963 Calvino rinuncia: “Caro Gigi, sempre prendo in mano i tuoi fogli, rileggo gli schemi, provo a immaginare storie. […] Alle volte mi sembra che solo la volontà possa risolvere tutto. E alle volte no, mi dico che se non c’è un’ispirazione vera non c’è niente da fare. Cosa dirti, caro Gigi. Tu hai idee molto chiare su quello che vuoi fare ed è giusto perché tu sai già quello che la tua opera sarà e significherà. Per me la estrema libertà mi lascia come nel vuoto” e conclude quasi scusandosi: “Insomma, se mi viene un’idea formidabile ti scrivo ti telegrafo vengo a Venezia in aereo. Ma intanto non voglio che il tuo lavoro resti ostacolato da una prospettiva aleatoria. Lo scrivere ha una sua imprevedibilità e… Santodìo, sono proprio pieno di rabbia per non esser stato capace e capisco tutto quello che ti passa per la mente.”
In effetti la collaborazione terminò a quel punto, ma possiamo riconoscere che una certa affinità di pensiero li porterà, negli anni Ottanta, ad affrontare esplicitamente, anche se con esiti molto diversi, i temi del silenzio e dell’ascolto. Proprio su questo Nono si è espresso con chiarezza del 1983: “Credo che l’ascolto in sé vuol dire una particolare attenzione delle cellule, una particolare attenzione della cultura, una particolare attenzione a intendere l’altro, il diverso, il differente, il contrastante, il conflittuale”. Erano gli anni della composizione di Prometeo – Tragedia dell’ascolto che ha debuttato a Venezia a settembre del ‘84, opera nella quale la grande prevalenza dell’ascolto ha portato alla rinuncia della dimensione scenica teatrale. Curiosamente meno di due mesi prima era andato in scena a Salisburgo Un re in ascolto, opera di Luciano Berio su libretto ideato e scritto da Calvino che successivamente Berio stesso rielaborò. È di quegli stessi anni la pubblicazione di Palomar nel quale l’omonimo protagonista, attento osservatore (ma anche ascoltatore) “spera sempre che il silenzio contenga qualcosa di più di quello che il linguaggio può dire.”
L’idea iniziale per Un re in ascolto deriva da un testo di Roland Barthes pubblicato nel primo volume dell’Enciclopedia Einaudi in cui, come scrive Calvino a Berio nel ‘81: “«Udire è un fenomeno fisiologico; ascoltare è un atto psicologico» – così c’è scritto [...] Per finire, dice Roland Barthes, il terzo tipo d’ascolto ha luogo in uno spazio intersoggettivo, dove «io ascolto» vuol dire anche «ascoltami», una «significanza» rilanciata all’infinito nell’inconscio”.
Attraverso un’elaborazione che con successive versioni e adattamenti si prolungherà dal ‘77 al ‘84 il libretto di Un re in ascolto ha raggiunto la sua forma finale; parallelamente il racconto con lo stesso titolo, messo a punto nel mese di luglio 1984, sarà pubblicato in forma integrale nella raccolta Sotto il sole giaguaro nel 1986. Ma nel libretto dell’opera sono rimasti alcuni stralci dei versi originali, in particolare, come dichiara Berio, “i testi poetici più importanti (più belli) sono di Calvino.”
In conclusione si possono rileggere alcuni dei versi che vengono cantati dal protagonista Prospero il quale è chiuso, quasi barricato, all’interno del suo Palazzo orecchio, o Teatro orecchio, e narra un proprio sogno. È un sogno nel quale i suoni hanno molteplici dimensioni e l’ascoltare è ben oltre l’udire, per cogliere i suoni e le voci che affiorano qua e là nel silenzio, forse proprio come avviene nelle battaglie partigiane o durante i bombardamenti.
“Il mio orecchio teso accoglie
quei suoni all’arrivo: diversi
da com’erano partiti. Sono i suoni con in più
l’ascolto dei suoni. […]
Dietro i suoni. I suoni hanno un rovescio. […]
C’è una voce nascosta fra le voci
nascosta nel silenzio, nel rovescio, nel fondo”.
Nella fotografia di copertina, da sinistra Nuria Schoenberg Nono, Italo Calvino, Luigi Nono, Giuliano Scabia, Edoardo Sanguineti, Chichita Singer Calvino, Martine Cadieu, Jean-Paul Sartre, Rossana Rossanda, Massimo Mila.
Il presente testo riprende alcuni dei temi esposti nel 50° incontro con la musica di Luigi Nono dell’aprile 2021 “Fare una cosa con te mi piacerebbe moltissimo. Ma …” L’amicizia tra Italo Calvino e Luigi Nono presso la Fondazione Archivio Luigi Nono di Venezia.