Cloud Atlas

19 Gennaio 2013

In un bell’intervento pubblicato giovedì su doppiozero, Luca Scarlini ha raccontato la fatica e il piacere provati durante il lavoro di traduzione di L’atlante delle nuvole di David Mitchell, confessando i suoi timori alla viglia della visione del film che i fratelli Wachowksi e Tom Tikwer hanno tratto dal romanzo.

 

 

Come dice giustamente Scarlini, di fronte a Cloud Atlas in molti hanno storto il naso e la critica si è divisa tra accusatori e difensori. Questo perché Cloud Atlas, per noi che l’abbiamo già visto (e non abbiamo letto il romanzo), si pone come un film magniloquente, ambizioso e forse fuori tempo massimo. Se è vero infatti che segno della contemporaneità è una voce che toglie invece di aggiungere, che suggerisce invece di spiegare, Cloud Atlas è tutto ciò che un film contemporaneo non dovrebbe essere. Eppure, al tempo stesso, nella forza puramente cinematografica del suo sforzo di rappresentare quella che Scarlini chiama la “catena del destino”, è una sorta di film spudorato, una voce unica e insieme molteplice, una voce sinfonica, che si fa trascinare dalla narrazione e dai mondi infinti che crea.

 

 

Alla base di tutto, ma anche al fondo, ché il segno dell’infinito non ha direzione, non ci sono Dio o la new age come molti detrattori hanno notato con parecchia ironia, ma la bellezza e la potenza della creazione umana, la sfida dell’uomo al trascendente, qualcosa che sta al di qua, che è terreno e materiale per quanto tenda all’invisibilità. Ed è questo vitalismo a rendere il film un’opera contemporanea, l’espressione, per quanto eccessiva, di una forza cinematografica e artistica pura.

 

 

Cloud Atlas la narrazione la abbraccia e la raccoglie. Nel continuo intersecarsi delle sue storie, ciascuna con personaggi, interpreti e simboli che ritornano ogni volta mutati di segno, il gioco di travestimenti è così evidente da essere teatrale, quasi farsesco, capace di riunire sotto una sola forma narrativa, che inizia e finisce con la tradizione del racconto orale, l’epica, il mito, l’avventura, la musica sinfonica, la letteratura (Borges, Castaneda), il cinema e i suoi generi, il noir, il giallo, il fantasy, la ricostruzione, il film dal film…

 

 

Tutto questo probabilmente c’è già nel romanzo, ma Cloud Atlas, condensando e sovrapponendo piani narrativi, semplificando quella che immaginiamo essere la complessità del romanzo, ma esaltando le potenzialità espressive del cinema come racconto che raccoglie e disperde, condensa ed espande, diventa una sorta di opera omnia sulla creatività, con un solo personaggio, un giovane musicista suicida, che non ritorna mai e significativamente, spezzando la catena del destino, si avvicina al mistero della vita, alla forza imperscrutabile che muove le nuvole e che solo la sua arte può riprodurre.

 

 

Il presupposto è una inevitabile deriva spiritualista, certamente: ma l’entità extraumana evocata non è Dio o chi per lui, ma la creazione artistica, la bellezza che nasce dall’uomo. E il film è di per sé un atlante: un atlante delle avventure umane, lungo i solchi del tempo e dello spazio. La materia è viva perché simile ai meccanismi dell’esistente, perché nasce dal rapporto fecondo tra l’uno e il molteplice, tra il singolo e il collettivo, con volti, storie, episodi, gag e svelamenti che a ogni passaggio risaltano familiari eppure estranei, riconoscibili e ribaltati, confermando il legame della parola, del suono e dell’immagine con le radici mitologiche della creazione. E come in un mito, in Cloud Atlas ogni particolare si ripete e si evolve, racchiudendo e svelando nientemeno che il segreto del cinema classico, che raccontava storie sempre uguali e sempre diverse, immagini morte capaci di generare vita.

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