Un po’ più mio che degli altri / Condividere un selfie

19 Settembre 2016

Su internet si fa molto uso del verbo condividere. Se mi imbatto in un contenuto interessante durante la navigazione, posso condividerlo con gli amici attraverso le piattaforme social. Se in vacanza sto vivendo un momento esaltante, posso fissarlo in una foto o in un video e condividerlo con i miei amici su Twitter. Se sono a Roma al concerto del Boss col mio amico di sempre, va da sé che ci facciamo un selfie e lo condividiamo con gli altri che sono rimasti a casa.

Condividere un selfie: la frase, mette insieme due termini in contraddizione, cioè l’egocentrismo del selfie e il solidarismo insito nell’idea di condivisione. È una contraddizione su cui mi vorrei soffermare per una breve riflessione.

 

La parola condividere ha principalmente due significati: spartire (“condividere il pane”) e avere in comune (“condividere un ideale, una passione, un’opinione”). Un terzo significato deriva dalla combinazione dei primi due e si potrebbe rendere con mettere a parte qualcuno di qualcosa (“condividere un pensiero, un’informazione”), cioè fare di qualcosa che io so, penso o ho fatto, qualcosa che si ha in comune. Questa terza accezione è quella che più circola in internet. Vi si riscontra l’intenzionalità e la direzionalità (da me agli altri) dello spartire – che presuppone che io possegga il bene in questione – ma non l’azione di dividere un bene in tante parti da distribuire, come si farebbe con una pagnotta o con un gruzzolo. 

 

©victomato

 

Su internet condividere si usa a volte con il senso di segnalare. Dire “condivido un articolo interessante con gli amici di facebook” equivale a dire “segnalo un articolo interessante ai miei amici di facebook”. Se si usa spesso condividere, in questi casi, è perché di fatto non ci si limita a portare qualcosa all’attenzione di qualcuno, ma lo si sta anche rendendo disponibile e fruibile. Una volta, prima dell’era digitale, si sarebbe detto: “Vi segnalo questo articolo su questa rivista” poi ognuno si sarebbe arrangiato per trovarne una copia cartacea e leggerlo. Da una persona che a quei tempi avesse detto a un gruppo di amici: “Voglio condividere con voi un articolo che mi è piaciuto” ci si sarebbe aspettati una lettura ad alta voce per un’esperienza collettiva. La tecnologia oggi rende possibile l’accesso a uno stesso contenuto digitale da parte di molte persone anche se non si trovano nello stesso posto e nello stesso momento. L’uso di condividere in questo contesto corrisponde a una forma di scambio che non ha precedenti, legata a nuove possibilità tecniche. Ma ha anche delle conseguenze sulla valorizzazione dei diversi attori coinvolti nello scambio. Condividere, diversamente da segnalare, configura l’oggetto dello scambio come qualcosa che in una certa misura mi appartiene, perché l’ho scoperto io, perché piace a me in particolare e perché ciò che vorrei condividere è, ancora più che il contenuto in sé, l’esperienza emotiva e intellettuale che ne ho tratto.

 

In generale, in base a considerazioni puramente semantiche, si può dire che quando io condivido con gli altri qualcosa su internet e ne sto facendo un bene comune, sto allo stesso tempo affermando che questo bene è un po’ più mio che degli altri. La nozione di condividere che ha corso in internet valorizza più il soggetto della condivisione che i suoi destinatari e sottolinea gli aspetti personali, esclusivi, privati del bene scambiato. La contraddizione che avevo rilevato tra il solidarismo del condividere e l’egocentrismo del selfie è solo apparente, perché a ben vedere anche il condividere in internet può diventare un’espressione di egocentrismo.

Mi spiego meglio con un esempio. 

Quando condivido la mia pagnotta con un gruppo di amici sono questi ultimi al centro dei miei pensieri. Ciò che mi muove in primo luogo è il loro supposto bisogno o desiderio di mangiarne un pezzo. 

Quando condivido su Facebook la foto della magnifica aragosta che sto per gustare in un ristorante di Arzachena, sono meno concentrato sui bisogni o i desideri dei miei follower, molto di più sulla straordinaria qualità dell’esperienza che io sto vivendo e di cui, condividendola, sto prima di tutto affermando il valore per me. Il mio atto non parte da un presunto bisogno dei miei follower di vedermi mangiare un’aragosta, ma dalla presunzione che la mia esperienza esclusiva meriti la loro partecipazione. Un’esperienza che sarà intensificata e ulteriormente valorizzata dai loro commenti esclamativi: “Bellooo!”, “Che fame!!!”, “Grandeee!”.

 

Noi che abbiamo una certa età ci ricordiamo delle letali proiezioni di diapositive a casa di amici, con carrellate di 300 fotografie scattate dal padrone di casa, appena rientrato dalla Thailandia o dai parchi naturali del Nord Ovest. Eravamo disposti a sopportarle di buon grado e a fare la nostra parte di ammiratori (“che meraviglia!”) perché sapevamo che prima o poi sarebbe arrivato il nostro turno. Saremmo stati noi, allora, a mostrare le nostre 300 fotografie e a rievocare con grande soddisfazione le passeggiate sulle Dolomiti, le avventure buffe e i bei momenti, tanto più belli, nella memoria teatralizzata dello slideshow, perché esaltati dall’ammirazione di un pubblico. La condivisione di foto personali sui social è una transazione molto simile, con la differenza che lo spettacolo e la noia, anziché essere concentrati in una serata sola, sono parcellizzati e distribuiti nel quotidiano, tanto che quasi non ci accorgiamo né dello show né della noia. Ma anche sui social noi dedichiamo attenzione alle immagini degli altri e facciamo la nostra parte di ammiratori (“che meraviglia!!!”) più per guadagnarci il diritto di condividere le nostre, che per un reale interesse. Se in questa idea di condivisione resta una traccia di solidarismo, essa si manifesta solo nella forma di una reciproca opportunistica condiscendenza.

 

Esergo

 

“Ogni sera, durante l’ora rituale che trascorrevano sul terrazzo prima di mettersi alla ricerca di un ristorante, ciascuno aveva ascoltato pazientemente i sogni dell’altro in cambio del lusso di raccontare i propri” (Ian McEwan, Cortesie per gli ospiti).

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