Contemporanea: il divenire del teatro

A Prato, fra fine settembre e inizio ottobre, fra il magma dell’estate dei festival e l’inizio delle stagioni, è l’ora di Contemporanea. Come di consueto, la rassegna ospita insieme danza e teatro, compagnie emergenti e artisti più affermati, gruppi italiani e scena internazionale; si vedono tante opere diverse nei giorni di festival, si confrontano differenti idee e pratiche del teatro. E – come ricorda il direttore Edoardo Donatini introducendo l’incontro condotto da Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini sul nostro sistema teatrale – Contemporanea è anche un luogo di pensiero, di incontro e discussione, per come l’ha disegnato il direttore negli anni, insieme a quegli intellettuali, operatori e artisti che l’hanno accompagnato. Oltre le scene, le opere e i teatri c'è infatti molto altro: se la rassegna 2015 si chiude con un appello del regista Massimiliano Civica e del critico Attilio Scarpellini (di cui ci sarà modo di dire in seguito) e con un nuovo appuntamento di discussione sul tema delle residenze (la presentazione del volume Nobiltà e miseria), possiamo ricordare come essa si sia aperta con la collaborazione con il rinnovato Centro Pecci e dunque con l’arte contemporanea (per 3 giorni di forum sempre dedicati alle politiche culturali e alla discussione, conclusi da una maratona di danza organizzata da Contemporanea nei nuovi spazi del Museo). E, in mezzo, sempre accanto, oltre le opere e i teatri, un laboratorio di critica, condotto da Altre Velocità, che ha cominciato a lavorare proprio qui ormai 10 anni fa.

 

 

Il vedere e il reale

 

Uno sguardo, una prospettiva di futuro. Per Donatini il festival di quest’anno “come connettore di relazioni culturali di una città è stato occasione di movimento e divenire”. Se seguiamo la trama del reale tessuta a distanza da Eco di Opera, La beatitudine di Fibre Parallele e MM&M – Movies, Monstrosities and Masks di Cuocolo/Bosetti scopriamo che la trappola della percezione e rappresentazione del nostro tempo, del nostro posto nel tempo, è il vedere. Guardare è decidere chi e cosa interpretare, in un dialogo tra il personaggio di sé e la scena del mondo.

 

MM&M, ph. Ilaria Costanzo

 

Possiamo spostarci liberamente nello spazioK che ospita il paesaggio istallativo e performativo di Eco (cura della visione e regia di Vincenzo Schino), possiamo disporci come e dove vogliamo, eppure ripetiamo la forma che vediamo per terra: ci mettiamo in cerchio intorno a un cerchio, una bacinella. Il gocciolare di una goccia e il soffio di un vento di tanto tempo fa, da tanto tempo fa, i suoni di un mondo forse ostile, forse solo incompreso, che si appresta all’obiettivo. La mobilità di volti riflessi nell’acqua dove gli occhi sembrano tutti azzurri: noi guardiamo loro oppure loro guardano noi? Il riflesso è il nostro e comincia da un punto, un piccolo appiglio di luce. Il riflesso del riflesso sul soffitto continua anche quando non ci siamo più. Perché adesso non ci siamo più, siamo andati a formare un altro cerchio, attirati da una marionetta di fil di ferro sospesa in aria, sagoma di forme mosse dal basso verso l’alto. Porte, portoni, cancelli la attorniano, ne nascondono il centro della gravità in un cuore di luci: serrature, buchi, fessure attraverso cui guardare. E non riesci mai a vedere tutto, vedere dipende da dove puoi e vuoi mettere gli occhi. Il fuoco della vista arriva solo dopo un po’, solo se fissi lo sguardo, e c’è un primo che lo scopre, un secondo che crede e lo segue, gli altri si succedono a catena. Dentro scorgiamo una donna, è Marta Bichisao: muove il burattino con mani e piedi, è il suo specchio, il riflesso di una vita. Le luci poi calano e vanno a morire e tutto e noi rientriamo nel flusso, una goccia che cade sempre nello stesso punto, cade e non trova, cade e non scava. I volti nell’acqua della bacinella ora sembrano sorridere e dire: “hai capito ora?”. Sì: anche se vediamo i fili non riusciamo lo stesso a liberarci, gli arti sono fili e fili sono i nostri arti. Non restiamo in piedi che per pochi attimi, per il resto ci respingiamo.

 

Tutto ciò che è diviene e questo significa vivere: diventare ciò che non si vuole. Sono marionette assassine nate per il piacere di (far) soffrire Licia Lanera e Riccardo Spagnulo, ossessionati in scena dal fantasma di pezza del figlio che non hanno avuto, e Lucia Zotti e Danilo Giuva, madre e figlio inchiodati alla carrozzina di lui. Manichini del disincanto del rapporto uomo-donna, giovani-vecchi, sani-malati, speculari e transitivi, condizionali che non diventano presente, perché quello che hanno è sempre meno di quello che vorrebbero, è più brutto, cattivo, amaro. Tra di loro, sulla soglia, anche di luce, tra una coppia e l’altra, sta Mino Decataldo, il bodyguard della rappresentazione, in cui la fine di una frase è l’inizio di un’altra fase, una domanda spesso senza risposta è il ponte da una situazione all’altra. La beatitudine, scritta da Lanera e Spagnulo e diretta dalla stessa Lanera, Premio Ubu come miglior interprete under 35 e Premio Duse per La Celestina di Ronconi, è una scatola nera di incomunicabilità: non comunicare non è non dire, è dire e non ascoltare, dire e non capire. E fa ridere, anche, notare quanto non si incastrino queste vite tanto sono risucchiate nel loro racconto, con echi e sangue dal profondo. Tutto è geometrico e scuro, il candore va in frantumi, come i piatti sul palcoscenico, e la beatitudine scritta sul fondale si accende di rosso apocalisse. “Vuoi scopare?” Il sesso è un’intimità esplosa, non si può toccare, ma si può distruggere. Il vivere di Fibre Parallele è un teatro di vuoti che si riempiono e di pieni che si svuotano, quello che succede è quello che si dice e avviene contemporaneamente nel bene e nel male. È una finta? Non si può risolvere il concreto attraverso il fittizio, come dice Decataldo? I piatti a terra, però, ci sono e ci restano, e la finzione, la rappresentazione della realtà, è stata un modo per chiamarsi Licia, Riccardo, Lucia, Danilo, Mino, e dire realmente ciò che non si riesce a dire fuori di qui, il trucco per aver una parte nella propria vita, la parta della propria vita, e saperla recitare, perché c’è un copione, scritto e immutabile. La realtà sembra più vera quando è finta.

 

La beatitudine, ph. Ilaria Costanzo

 

“È tutto nella testa”, prosegue Decataldo. “Avevo un teatro nella testa”, gli risponde Roberta Bosetti. Anche lei ha scelto di fare l’attrice per trovare la se stessa da interpretare e ce lo racconta a uno a uno passando per i confini morbidi, liquidi, delle citazioni dei film che le hanno aperto lo sguardo. Le battute sullo schermo diventano monologo di vita. Davanti a un tavolo ingombro di cose della sua casa di Vercelli, libri, suppellettili, fili, medicine, Bosetti parla al microfono con voce sempre impostata e noi la ascoltiamo attraverso cuffie che annullano quasi il respiro e la nostra presenza: siamo soli davanti a MM&M – Movies, Monstrosities and Masks, non una processione comunitaria come in Serata Dickinson al Funaro di Pistoia (in cui è nato lo spettacolo), ma somma di individui, somma che non è unità, è divisione. Lo fa per sé, non per gli altri, non per noi, per elaborare solitudini privandole di intimità. Sa sempre di essere ripresa e per questo prova la posa più giusta, gli occhi più espressivi, come davanti a uno specchio. Gli oggetti sul tavolo, infatti, sono tutti a favore di camera, quella di Renato Cuocolo, che li riprende e rimanda su un grande schermo sul fondo. Ha un leggìo e come note su uno spartito le immagini che raccontano quello che Roberta Bosetti dice. Ha un fare artigianale anche se la videocamera è compatta: si susseguono abbracci di carta, sguardi in bianco e nero, occhi grandi e pieni, che affascinano più della voce abbacinante in cuffia. La partitura filmica scivola e raddoppia le parole che raccontano se stesse, svelando in MM&M una radio-autobiografia per fermo immagine, un flusso ininterrotto di attimi, finiti, passati, che i Cuocolo/Bosetti provano a (s)muovere e rimettere al centro del loro divenire. La vita è un film preso in corsa, quando è già cominciato. La morte è la fine che le dà senso. In mezzo possiamo essere una cosa sola con Tarzan e Jane, ma dobbiamo accettare la mostruosità di metterci in mostra e diventare racconto nella ripresa di qualcuno.

 

The Casting I, Benno Steinegger, ph. Ilaria Costanzo

 

 

Divenire molteplice, dal passato al futuro

 

Verrebbe da chiedersi come il teatro visionario, inquieto, immaginifico di Schino possa incontrare l’arte nascosta, più vera del vero, eppure così teatrale di Claudio Morganti (ormai presenza fissa di Contemporanea, che riprende a dieci anni di distanza il suo L’amara sorte del Servo Gigi, nel nuovo titolo sostituito dall’artista stesso, beckettiano affondo per attore solo sul senso del tempo e del teatro che passa); come questa poesia minuta di sospiri, affaticamento e qualche parola si possa incontrare con il formalismo elegante costruito gag su gag dal nouveau cirque di Martin Zimmermann; come quest’ultimo mondo magico, fatto di acrobazie e colpi di scena, possa intrecciarsi alla ricerca di Benno Steinegger, che dopo la conclusione del progetto di Codice Ivan presenta una ricerca intitolata The Casting, dove l’estetica da talent show si fonde con l’afflato etnografico, protagonisti quattro non professionisti, alle prese con il racconto delle loro vite; e come questo teatro più vero del vero possa nutrirsi affiancato al vitale D’après une histoire vraie del coreografo francese Christian Rizzo o alla maratona di danza che ha costellato la serata del 26 settembre (Silvia Costa, Kinkaleri, Jacopo Jenna, MK, Claudia Catarzi, Renzini & Giovannini, Virgilio Sieni); e ancora, infine, proprio dentro questo progetto, nominato Time to move, dov’è il punto di relazione possibile fra il rap forsennato di Jenna e il percorso per giovani danzatrici di Sieni, o il Giuda di Michele Di Stefano e Biagio Caravano.

 

Divenire molteplice, come voleva Deleuze. Uno sguardo coraggioso al futuro, accettando però il rischio della differenza, del mutamento sempre attivo, seguendo tante strade diverse, eppure coerenti proprio nella loro volontà di guardare avanti, oltre il presente; accompagnando la pluralità del pensiero (performativo o meno) fino agli orizzonti estremi che immagina.

 

Martin Zimmermann, Hallo; A Sangue freddo, Silvia Costa, ph. Ilaria Costanzo

 

Nido di Luce, Butterfly Corner, Compagnia Virgilio Sieni

 

 

Avevo un teatro nella testa

 

“Avevo un teatro nella testa”. Piegando l’affermazione di Roberta Bosetti al resto di Contemporanea, vuol dire anche immaginare quello che ancora non c’è, sulle scene e nella realtà. Significa la ricerca, la volontà di sperimentare, di rendere concreto il soffio di un’idea, di condividerla con gli altri. È questo il lungo filo che può connettere i diversi lavori visti quest'anno al festival e l'approccio curatoriale espresso negli anni da Contemporanea: la volontà di accompagnare e sostenere l'evoluzione di intensi percorsi di ricerca, diversissimi fra loro.

 

In ciascuno di essi si percepisce questa radicalità profonda, questa volontà di ideare e fare un teatro diverso, questa necessità di ripensarlo come esperienza da condividere con una micro-comunità (di cittadini, di spettatori, ecc.): nel lavoro di Morganti come nel “teatro popolare di ricerca” delle Fibre e in Opera; per non parlare della nuova danza italiana, da tutto il percorso di Sieni all’impostazione di MK a Kinkaleri.

 

Certo la radicalità comporta dei rischi, così come seguirla e osservarla (il quasi segreto lavoro di Morganti, appartato nei sotterranei del Magnolfi, la densità della maratona di danza itinerante, la deriva ombelicale guidata da Steinegger), ma è dai tempi dell'Alveare che Contemporanea scommette – insieme al proprio pubblico – su artisti di un certo spessore che – forse un po’ appartati – negli ultimi anni hanno portato avanti con determinazione e costanza la propria ricerca, le proprie domande al teatro e alla realtà. Sono, pur nella grande diversità, persone che coi propri mezzi, estetiche e linguaggi, fanno ricerca e continuano a farla, per immaginare il loro teatro del futuro oltre il teatro che c’è già.

 

Opera, ph. Ilaria Costanzo

 

 

Il teatro del futuro e la “fortezza vuota”

 

È un po’ quello di cui hanno parlato – fra le altre moltissime cose – Massimiliano Civica e Attilio Scarpellini nell’incontro La fortezza vuota (leggi il documento), dedicato alle attuali condizioni del sistema-teatro e più ampiamente del contesto culturale attuale. Anzi, non ne hanno parlato direttamente: l’analisi lucida, feroce, a volte forse trascinata fino a punte d’accorato eccesso, si è concentrata soprattutto sulle criticità e contraddizioni che scandiscono quest'ultimo esito della logica dello spettacolo ormai in affanno (complice la prima applicazione di un nuovo Decreto che sta facendo sollevare molte preoccupazioni). Così – come del resto hanno affermato loro stessi –, il fatto che esistano artisti, intellettuali, curatori che sono vere e proprie sacche di eccezione e resistenza della cultura del teatro contro lo spettacolo dei consumi è rimasto un pensiero di fondo, non approfondito eppure visibilissimo, speranza e forse soluzione insieme della faticosa situazione in cui si muove il sistema-teatro contemporaneo in Italia. Il solo fatto che Civica e Scarpellini condividessero questi amari pensieri dal cuore di un festival organizzato da uno stabile (ora di Rilevante Interesse Culturale) – assieme allo sguardo sulle scelte di programmazione di Contemporanea che abbiamo provato a raccontare in queste righe – può costituire di per sé una risposta viva e forte al problema-chiave sollevato nei loro discorsi: quello della sopravvivenza e del rinnovamento del teatro pubblico, della delicata e necessaria congiuntura fra comunità e ricerca, del senso stesso di fare teatro oggi, da ripensare e rinnovare.

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