Un viaggio nel colore dell'arte / Di che colore sono le tenebre?

11 Marzo 2021

La domanda sul colore delle tenebre è di Ettore Sottsass. Siamo nel 1963, l’architetto è in America per un viaggio con la moglie Fernanda Pivano, è però ammalato e in ospedale, avvolto dalle tenebre, che nella visione sofferente della malattia trascolorano nel bianco. Lo cita Alice Barale nella postfazione al libro collettaneo Il colore nell’arte, pubblicato a gennaio da Jaca Book: si tratta del tema che percorre tutti i testi che compongono il libro, in dialogo con le bellissime illustrazioni e che declinano la domanda in relazione a luoghi diversi del mondo e a tempi diversi della storia. Se quindi le tenebre possono essere nere o bianche e persino di altri colori, come nelle Ceramiche delle tenebre di Sottsass, l’enigma è dentro il concetto stesso di colore.

 

 

I concetti, si sa, sono argomento filosofico, e il colore lo è senz’altro, a partire dalla riflessione degli antichi fino al rinnovato interesse da parte della filosofia analitica degli ultimi decenni. Può declinarsi in una pluralità di domande che coinvolgono la distinzione tra apparenza e realtà, tra soggettivo e oggettivo, tra linguaggio e mondo. Ci possiamo chiedere se i colori siano soggettivi, apparenti, privati e incomunicabili, se li si possa descrivere con le parole che abbiamo a disposizione, se vi siano categorie cromatiche fondamentali e comuni a tutte le culture, se la ricerca scientifica abbia risolto interamente l’analisi del colore, se sia vero che il nero sia lugubre prima di essere nero, se avesse più ragione Newton o Goethe. Non stupisce quindi che il libro si apra e si chiuda con la riflessione filosofica.

 

Massimo Carboni, nell’introduzione, parte dalla difficoltà di «significar per verba» il colore: come si può definire un colore senza mostrarlo, come si fa a spiegare cos’è il rosso a chi non lo ha mai visto, come se ne può parlare a un cieco e come ne parlano i ciechi; nel concetto universale “rosso” quanti rossi ci sono? Non c’è, secondo l’autore, un concetto «puro» di colore: sì, certo, non può esistere un concetto di rosso che prescinda dall’esperienza, ma Carboni vuole fare un passo ulteriore e più radicale: «quel che è proprio del colore sembra indicibile: il colore letteralmente de-nomina» (p. 9). La contingenza, l’accidentalità, la mobilità fluttuante del colore toglierebbe la capacità alla parola di designare un significato. Eppure ci muoviamo in un mondo colorato, ci orientiamo, e sappiamo accogliere la richiesta di scegliere in un cesto di mele la mela rossa, per non dire delle infinite possibilità della poesia. Sospendiamo, per il momento, il giudizio e seguiamo il percorso del filosofo nell’enigma del colore. 

 

«Il colore è il primo visibile». Carboni cita Plotino e Goethe: il colore è fenomeno originario, Urphänomen, e «l’unica cosa non colorata non è altro che ciò che ci permette di vedere i colori» (p.10), il diafano di Aristotele, la trasparenza (di cui tratta il libro di Stefano Poggi, che ci offre un excursus storico filosofico, il quale però si conclude prima della dissoluzione della forma nell’arte del Novecento e con la rivendicazione dei diritti della linea rispetto al colore: Il colore e l’ombra. La trasparenza da Aristotele a Cézanne, Il Mulino, Bologna 2019). Carboni rivendica invece «la consapevole liberazione del colore dall’oggetto» come risultato concettuale importante e significativo della pittura moderna (p. 19), come capacità di far valer il precategoriale, la sensazione, il tumulto prelinguistico e presemantico. La soggettività del colore sarebbe garantita anche dal richiamo alla ricerca scientifica contemporanea, alle ricerche sulle aree V4 della corteccia cerebrale, da cui egli ricava che il colore non è una proprietà oggettiva delle cose, ma un’elaborazione del cervello, «esiste» quindi nel soggetto che percepisce. È però nell’analisi del colore nell’arte che il discorso di Carboni diventa più persuasivo: la presenza del colore è «intessuta di differenze» (p. 23), il colore varia in modo ininterrotto nella nostra percezione del mondo, e l’artista deve saperle cogliere e farle risaltare, saper osservare – come raccomandava Matisse – i vuoti tra le cose, dipingere le loro differenze. Indagando questa capacità del pittore nel riprodurre le minime vibrazioni del reale, in una raffinata descrizione della Deposizione del Pontormo e di alcune altre opere d’arte, Carboni coglie un’altra caratteristica del colore nella sua capacità di evocare la dimensione del tempo.

 


Maschera del tipo bundu. Mende, Sierra Leone. Legno. Musée des arts d’Afrique et d’Océanie, Parigi (p. 39).


Dalla storia dell’arte e dalla stessa pratica artistica può però imparare molto anche la filosofia. Quindi non solo la filosofia può dare un contributo alla riflessione sul colore nel «cercare risposte che portano a sempre nuove domande», come scrive Alice Barale nel saggio conclusivo (p. 241), ma anche il filosofo può ricavare molto dall’indagine geografico-storica sul colore che questo libro ci propone. Un primo evidente problema consiste nella difficoltà di riassumere in un testo relativamente contenuto la complessità di culture che compongono un intero continente, come rileva Ivan Bargna, che conclude il capitolo sull’arte africana richiamando la necessità di accettare la distanza che ci separa da queste opere. In taluni casi, come ad esempio presso gli allevatori di bestiame nilotici, il colore addirittura non ha un campo semantico distinto dalle altre caratteristiche degli animali, ma si fonde con la stazza dei bovini e la forma delle loro corna (cfr. p. 30). Anche le immagini delle statuette lignee, delle maschere e dei tessuti, che corredano il testo, ci inducono a sottolineare l’elemento fortemente espressivo che rimanda alla funzione simbolica dei tre colori africani fondamentali, il bianco, il nero e il rosso, i quali, come scrive Bargna, hanno sempre un referente organico nel corpo – il sangue e la pelle nera con i suoi riflessi luminosi – e si ridefiniscono continuamente, rendendo sempre variabile il loro significato. Un solo esempio divertente: il trikster Eshu veste un cappello metà rosso e metà nero «provocando fra gli uomini insensate discussioni sul fatto che sia nero o rosso» (p. 48).

 

Drappo funebre, tomba Han n. 1 di Mawangdui, Changsha, II secolo a.C., Museo Provinciale dello Hunan, Changsha (p. 51).


Un’altra affascinante immagine e la sua descrizione introducono il capitolo sull’arte cinese di Christine Kontler: si tratta di un drappo funebre di Mawangdui, rinvenuto in una tomba Han, risalente al II secolo a.C., con l’iscrizione «abito per prendere il volo», dove le potenze dei principi opposti dello yin e dello yang si contrappongono e si riuniscono nelle figure dei draghi, degli animali e del dio in una visione cosmica fluttuante e magica. Alla descrizione di questa veste e di altri nuovi reperti di quello straordinario sito archeologico l’autrice aggiunge la definizione dei cinque colori fondamentali della Cina che, con diverse variazioni, perdura per tutto il periodo imperiale, collegando la classificazione ai punti cardinali, e il centro agli elementi, agli animali emblematici, ai sapori, alle passioni, agli organi corporei, ai cibi della dietetica (v. la tabella p. 60). I nomi non sono traducibili in termini esatti, hanno un ambito semantico che non corrisponde esattamente a quello dei nomi dei nostri colori, a cui si aggiunge un colore paradossale, chiamato xuan, che prenderà, nei testi classici, il senso corrente di «scuro». «Xuan è il nome del mistero del Daodejing, Il Libro della Via e della Virtù, che canta, con il principio supremo e non conoscibile, la meraviglia dell’esistenza dell’uomo nel mondo» (p. 56), un libro che comprende anche la trattazione dell’arte dell’inchiostro, una tradizione più sobria che utilizza tinte più evanescenti e che si ispirano alla calligrafia.

 

Dettaglio del drappo funebre di Mawangdui (p. 53).


Anche il capitolo sull’arte islamica prende avvio dalla domanda su come si possa definire il colore richiamandosi all’antichissima distinzione legata al manto degli animali: a tinta unita oppure screziata, a macchie. Per la tradizione islamica Giovanni Curatola ricorda gli aggettivi dei quattro mari, forse erede, attraverso l’Iran, del legame tra i cinque colori fondamentali della Cina e l’orientamento geografico: il nero a nord, il rosso a sud, il bianco (il Mediterraneo) a ovest, e il verde-blu a est (che possono essere il Caspio oppure il lago-mare d’Aral). Alla tradizione persiana si richiama l’islam anche per un’opera letteraria di Nezami di Ganjè, dal titolo Le sette effigi o Le sette principesse, datato 1197. È la narrazione, accompagnata dalle illustrazioni del manoscritto conservato a San Pietroburgo, dell’incontro del re sasanide Bahram Gur (prima metà del V sec.) con sette principesse – ognuna in un giorno diverso della settimana, nei sette padiglioni di diverso colore – le quali gli raccontano storie diverse, simboliche e astrologiche. 

 

Il percorso si amplia e si complica ulteriormente nei successivi capitoli che esaminano il rapporto con la teologia della luce nell’uso dell’oro e dei colori nei mosaici, nelle icone e nelle miniature bizantine (Tania Velmans), e nel cromatismo delle architetture medievali, nella decorazione e nelle vetrate delle cattedrali (Roberto Cassanelli). A partire dal Quattrocento l’analisi si appunta sul rapporto tra spazio e colore nella prospettiva geometrica e nella prospettiva aerea e sull’uso di nuove tecniche e nuovi pigmenti (Ronald W. Lightbown), per passare poi all’influsso delle teorie ottocentesche di Goethe e di Runge sull’arte dell’Ottocento e del Novecento (Giorgio Zanchetti), e per concludere con l’arte del colore nel dopoguerra occidentale (Angela Vettese). Anche in questa seconda parte del viaggio, apparentemente più vicino alla nostra sensibilità e al nostro modo di categorizzare, si rivelano distanze e incongruenze dei concetti di colore. Certo non diciamo più, come i greci, che l’acqua è nera e il mare colore del vino, ma permangono molti enigmi. Per limitarci al nostro tema, al rapporto cioè tra riflessione filosofica e creazione artistica, troviamo molti spunti interessanti nelle pagine di Philipp Otto Runge citate da Zanchetti. Runge è un pittore romantico, vicino alla teoria di Goethe, non del tutto in accordo con lui peò, ma nella sua mistica del colore troviamo interessanti notazioni fenomenologiche che Wittgenstein riprenderà nelle sue osservazioni sui colori. «Posto che il rosso è rosso – Zanchetti riporta le parole di Runge –, questa parola esprime la cosa nel senso che esprime l’essenza e non la materia» (cit. p. 184). Vorrei aggiungere che essenza non è qui in accezione metafisica, categoria astratta precedente l’esperienza, ma sta a indicare che non si tratta del rosso come pigmento, ma del concetto, di un rosso puro che non tende né al giallo né al blu. Questa impostazione apre un nuovo piano dell’analisi che indaga i nessi dei colori primari, giallo, rosso e blu nel cerchio, e individua altre classificazioni possibili del colore, asimmetriche rispetto al cerchio, tra chiaro e scuro e tra trasparente e opaco. È questo solo uno spunto per poi proseguire nel percorso dell’arte moderna e contemporanea con gli innumerevoli intrecci tra arte, filosofia e scienza con cui prosegue questo viaggio, un viaggio che non si conclude però: nella leggenda della pentola d’oro che gli gnomi seppelliscono ai piedi dell’arcobaleno, raccontata da Gottfried Keller e posta a conclusione del saggio di Alice Barale, la piccola gnoma riparte, portando con sé solo il suo piatto e le sue posate d’oro, forse alla ricerca di un nuovo arcobaleno.

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