Documenta 15: Che cosa non c’è o non si vede
Che cosa non c’è, o non si vede, a Documenta 15?
La prima cosa di cui si nota l’assenza è quella dell’oggetto artistico, l’opera d’arte che ci hanno insegnato a venerare, ad andare a cercare in stupefatto e intimidito pellegrinaggio nelle chiese, nelle gallerie d’arte, nei musei e nelle kermesse artistiche del mondo. Sì, quell’opera raramente anonima e quasi sempre attribuita a un ben preciso artista – perlopiù occidentale, maschio e bianco – nella lungimirante o colpevolizzata città dell’Assia quest’anno latita.
Di conseguenza l’Artista, salvo un paio di vistose eccezioni, è a sua volta assente. Se compare, è perché ha rinunciato a produrre opere che vadano ad arricchire collezioni private, fondazioni, banche e musei e si interroga sul proprio lavoro, sulla sua funzione, sulla sua fruizione, su come creare senza farsi sussumere dal mercato, ma anche senza trasformarsi in ideologo militante.
Questo riduce quasi a zero l’ingordigia (o l’ansia?) che di solito si accompagna alle biennali, triennali, quinquennali d’arte. Qui, in apparenza, non c’è nulla da consumare. Infatti può capitare di incantarsi davanti al riflesso dei magnifici alberi del Parco Karlsaue, che si prolungano nelle acque ferme dei suoi bacini d’acqua e disegnano ombre geometriche e cangianti sui suoi tappeti d’erba. Più in là, ed è un’‘opera’ con tanto di cartello indicatore, c’è il cumulo del compost, a ricordarci che la bellezza è effimera, che tutto muore, si scompone, fermenta, produce nuova vita, che è solo questione di tempo.
Per questo non bisogna aver fretta, che non si addice a questa placida e tuttavia operosa quinquennale tedesca. Dove manca il prodotto finale, o dove il prodotto finale è secondario rispetto alla pratica processuale che ad esso conduce, chi guarda non ha nessuna ragione di affannarsi, di rincorrere quel valore desueto che è il vedere tutto. Meglio concentrarsi sugli intenti, i metodi, le possibili affinità tra un collettivo artistico e l’altro, sull’intreccio che a poco a poco va disegnandosi tra le loro pratiche.
I binarismi, che dalle nostre parti non riusciamo a scrollarci di dosso: donne/uomini, bianchi/razzializzati, etero/omo, Sud/Nord, ricchi/poveri, guerra/pace, capitalismo/altro… si rivelano poco pertinenti. Hanno visto molto lontano i ruangrupa, il collettivo di artisti indonesiani cui è stata affidata la direzione artistica di Documenta 15, e soprattutto hanno rivolto lo sguardo altrove e in avanti. Terra desolata, e dunque obbligata a quella forma di fertilità creativa che è la sopravvivenza, quella da loro proposta. Sulla loro mappa l’Ovest e il Nord non sono contemplati, semplicemente perché non è da lì che possono arrivare indicazioni utili a immaginare e dunque inventare l’a venire. Visto che Kassel è la città dei fratelli Grimm (straordinario il nuovo museo a loro dedicato, il Grimmwelt), evoco qui Barbablù, il protagonista di una favola perraultiana, per sintetizzare la chiarissima direzione da loro imboccata e l’operazione diegetica che ne consegue. Se si vuole sbarcare nel futuro, evitando di essere squartati e appesi in cantina, non bisogna sposare il signore del castello e chiedere la sua benevola protezione. Meglio chiamare a raccolta sorelle e fratelli e sopprimerlo, sì proprio buttarlo giù dalla torre più alta, e impadronirsi dei suoi insanguinati feudi.
Il pubblico speculare ai lavori in mostra sarà quindi sistematicamente deluso. Ma oer giungere a questo l’operazione non è affatto semplice. Se in scena a Kassel 2022 c’è tutto il rimosso, il represso, il negato, lo svilito, l’invisibilizzato dal suprematismo occidentale bianco, coloniale ed estrattivista, perché le spettatrici e gli spettatori – variamente stupiti, sedotti, perplessi, infastiditi – sono nella stragrande maggioranza bianchi? È la location a creare il pubblico o è l’evento artistico in sé ad allontanare i non addetti ai lavori o il bianco pubblico specializzato? Kassel, va notato, è una delle città tedesche a più alto tasso migratorio: nel 2019, su una popolazione di 202.137 unità, l’incidenza degli stranieri era del 19 per cento.
Che cosa c’è a Documenta 15?
La premessa necessaria, e conseguente al suddetto teorema di Barbablù, è che non sempre siamo in grado di vedere o disposti a capire ciò che c’è. E infatti la critica internazionale si è spaccata in tre: i credenti, gli appassionati e i cinici. Ovvero chi si è messo in posizione di ascolto, chi si è esaltato e chi ha girato sdegnosamente la testa dall’altra parte. Questi ultimi, vien fatto di pensare, devono avere ancora molto da perdere, un po’ come i protagonisti di Sottomissione, uno dei romanzi più esilaranti di Michel Houellebecq, Atterriti all’idea di dover rinunciare a privilegi e primato culturale e spirituale, prima difendono con le unghie e con i denti il loro territorio, poi – pur di non perdere il proprio monopolio – cominciano a travestirsi, a burqizzarsi, a riprodurre un sistema noto per via di inclusione, ma non di sostanza. Parte della critica internazionale ha reagito così, arroccandosi attorno alla filiera mercantile dell’arte, di cui chi scrive d’arte è spesso vestale e funzione.
Vogliamo creare una piattaforma artistica e culturale a orientamento globale, interdisciplinare e collaborativa, che rimanga in vigore oltre le cento giornate di Documenta 15. Il nostro approccio curatoriale punta a un diverso tipo di modello collaborativo di utilizzo delle risorse – in termini economici, ma anche per quanto riguarda idee, conoscenze, programmi e innovazioni. (ruangrupa)
O, ancora,
Vogliamo un futuro al di fuori del tempo lineare. Un futuro in cui tutti i nostri amici e amanti e i loro amanti vengano a cena attorno a un tavolo che abbiamo costruito insieme. Vogliamo un futuro che sia giusto, divertente, esaltante, favoloso, intenso, libero e non fottuto. Vogliamo dei futuri. Vogliamo un futuro in cui i rigidi sistemi economici che governano le nostre vite e i nostri amori siano stati smantellati. Vogliamo un futuro di convivenza e di autogoverno. Un futuro che vede e riconosce il lavoro emozionale. Vogliamo un futuro che comprenda la realtà dell'essere al verde, dell'essere sfrattati, dell'essere trattati male, dell'essere ignorati. Vogliamo un futuro che accolga la debolezza, dove unirci, dove poterci sostenere a vicenda e tenere duro. (“Editoriale”, Girls Like Us, n. 10: FUTURE)
Che cosa può avere da dire in proposito un critico d’arte, se non ha capito che la modernità è in piena agonia, se non già morta, e che è urgente ripensare e ripensarsi, alla lettera scostarsi da schemi, paradigmi e formule operative che non tengono più al riparo nessuno? Nel 1953, sul settimanale “New Statesman”, John Berger – non a caso l’unico “critico” affettuosamente scelto come padrino simbolico di Documenta 15 – scriveva: “È in gran parte l’interesse per l’arte che mi ha condotto alle mie convinzioni generali sul piano politico e sociale. Non sono assolutamente io che trascino la politica nell’arte, è l’arte che mi ha trascinato nella politica”.
E a Kassel, quest’anno, l’urgenza è davvero politica: il lavoro artistico – rigorosamente collettivo, interdisciplinare, agerarchico, mirato a interpretare e ancor più a modificare la realtà, a svincolarla dalla morsa letargica del denaro – non può che essere indifferente ai galatei occidentali e ai suoi palcoscenici. Sporca, effimera, votata al riciclaggio dei materiali di scarto, alla serie B, al trash, al fare con poco, al recupero, al compostaggio, la pratica artistica proposta a Documenta 15 fa pensare al gioco di bambine e bambini sapienti, sognanti, concreti e furibondi. Deve essere per questo che la prima cosa in cui ci si imbatte arrivando in questa città che il 22 ottobre del 1943, tra le 20:40 e le 21:38, fu rasa al suolo per mano della RAF britannica, è un codice linguistico disorientante. Niente lingua franca per noi occidentali abituati a cavarcela ovunque con l’inglese. Qui il lessico è, senza traccia di orientalismo, perfettamente esotico:
Lumbung, parola-concetto attorno a cui ruota l’intera Documenta 15, è un termine indonesiano per dire “silo per lo stoccaggio del riso”. Nelle comunità rurali indonesiane, il raccolto in eccesso viene immagazzinato in sili comunali e distribuito secondo criteri definiti congiuntamente a beneficio della comunità. Questo principio rappresenta la pratica di vita e di lavoro dei ruangrupa e viene utilizzato per il lavoro interdisciplinare e collaborativo su progetti artistici.
Ruru, altro lemma chiave, significa riposo/tempo liberato, quel frammento di vita non contrattabile, non vendibile, che prevede l’ascolto del corpo, il proprio e l’altrui, in un setting totalmente svincolato dall’idea di produzione.
A queste parole provenienti da un altrove che tuttavia è già qui, intramato nel mortifero tempo lineare e digitale evidentemente giunto al capolinea, si accompagnano schegge di senso perturbanti. Se la norma è funzione del potere, il concetto di normalità, oltre a non essere neutro, produce monoculture umane paragonabili alle piantagioni di palme da olio. Per fare spazio a queste coltivazioni estremamente redditizie si distruggono interi habitat e le specie autoctone che li abitano, e si continua a diserbarli in nome di un prodotto ad alto tasso di profitto. Per tutto l’altro non c’è spazio e dunque va soppresso o uniformato: la merce che arricchisce le multinazionali impoverisce il suolo ed è nemica della molteplicità, della differenza, della varietà, della vita. A Documenta, quest’anno, è stato messo a tema proprio questo: la neurodivergenza, così come l’appartenenza a etnie contro cui la storia politica e l’economia dell’ultimo secolo si sono accanite, porta con sé sguardi e storie diversi. Ridurli al silenzio e all’invisibilità menoma il terreno comune, trasforma in pallido archivio dell’identico la materia viva dell’arte e del racconto.
Un esempio per tutti, forse il più clamoroso:
Siamo qui. Siamo ovunque. L'Europa vorrebbe contenerci, controllarci, distruggerci. Eppure sopravviviamo. Sopravviviamo in molteplici atti di resistenza, ci prendiamo cura dei nostri figli e dei nostri anziani; ci prendiamo cura l'uno dell'altro; ci aggrappiamo al nostro amore e alla nostra famiglia. Siamo ancora qui. La lunga storia del popolo rom in Europa è al tempo stesso la longue-durée della storia mondiale. Mentre l'Europa accumulava i suoi Altri attraverso la violenza e il genocidio, mentre si cingeva i fianchi e militarizzava i propri confini, siamo comunque sopravvissuti. Cacciati. Deportati. Asserviti. Espulsi. Deportati. Imprigionati. Espropriati e appropriati. Sterminati. Eppure, siamo sopravvissuti. La nostra sopravvivenza è la nostra resistenza; è la speranza del futuro e la storia del passato. È costante, ed è la nostra costante, la nostra pietra di paragone, la nostra prova vivente. (Ethel Brooks, RomaMoMA Manifesto 2022)
Se alla Biennale di Venezia di quest’anno gli USA hanno scelto di farsi rappresentare dall’artista africana-americana Simone Leigh e la Polonia da Małgorzata Mirga-Tas, un’artista rom autrice di patchwork di tessuto capaci di “reincantare il mondo”, a Kassel la presenza dei ‘neri’ e degli ‘zingari’ propone un diverso quadro teorico. Qui non si tratta di rintracciare un’eccezione e di riportarla a noi, alle nostre contabilità e ai nostri musei-mausoleo, ma di far affiorare una storia collettiva che si incarna via via in scritture individuali, opere collettive, archivi. A Documenta la proposta curatoriale è di scontornare un negativo e di virarlo fotograficamente al positivo per mostrare che l’arte è frutto di un tempo e di uno spazio, ma anche di un ascolto e di uno sguardo. Ciò che non viene guardato non c’è. E tuttavia ciò che c’è non deve confondersi con lo sguardo di chi lo decreta esistente.
Concludo queste mie note con una riflessione sul godibilissimo, rassicurante “Latte dei sogni” veneziano a confronto della fertile osticità del Lumbung di Kassel.
In laguna è stato raccolto, letteralmente mietuto, il grano seminato da decenni di pratiche e teorie femministe, perlopiù occidentali, perlopiù artistiche e accademiche. Da lì la preponderanza di artiste, tante, tutte insieme. L’atto del raccogliere presuppone infatti uno sguardo rivolto al passato: i semi sparsi nel terreno da più di un secolo hanno messo radici, sono germogliati e hanno fruttificato. Venezia ha imbandito una tavola sontuosa, apparecchiandola con intelligenza meticolosa e invitando a gustare, assaporare, consumare il miglior distillato di un’epoca ormai conclusa.
Kassel ha fatto tutt’altro: ha preso atto della fine della modernità, del primato occidentale, dell’illusione del progresso e ha provato a immaginare nuove sementi e nuove prassi, Ha puntato sulla scarsità, sulla fine di un mondo che pochi rimpiangeranno, sul recupero del concetto di commons, sulla frugalità, sull’affrancamento dall’ingannevole convinzione che il bene stia nelle cose. Non ha mostrato, ma invitato a fare, a sbagliare, ad accettare lo scacco, a riprovare. Un formidabile atto di speranza. Il lavoro artistico non è esattamente questo?
Documenta 15, Fridricianum, spazio riservato ai bambini e al futuro_foto MNadotti.