Elena Loewenthal. Contro il giorno della memoria

27 Gennaio 2014

“Io rinnego il GdM: non mi appartiene, non gli appartengo, non riguarda me e la mia, di memoria. La mia memoria non comunica: è soltanto la avvilente consapevolezza di una distanza minima, ma insormontabile. Io che sono nata poco dopo che tutto era finito, che sono vissuta circondata da quel passato, da quei ricordi – per lo più pestati sotto il tallone del silenzio, non per rimuovere quel passato, ma perché per tornare a vivere era fondamentale non lasciarlo parlare, almeno per un po’ di tempo – so per certo un’unica cosa, di quella memoria: che non potrò mai nemmeno lontanamente sentire quello che ha sentito chi è stato dentro quel tempo, quelle cose. Malgrado la mia vicinanza estrema e quotidiana, provo una frustrazione terribile che è la conseguenza di una distanza minima, ma insormontabile” [p. 90].

 

Sono le considerazioni conclusive con cui Elena Loewenthal chiude Contro il giorno della memoria un testo di riflessione sul senso del “Giorno della memoria” (che lei chiama, come un prodotto di consumo, GdM) e sui motivi per cui quel giorno, in quella forma, con quel tipo di cerimoniale, non la riguarda, né desidera essere coinvolta.  

 

 

Il profilo della sua riflessione segue i vari tempi del secondo dopoguerra: prima una lunga pratica di silenzio su un passato, poi la sua l’improvvisa emersione attraverso l’istituzione del “giorno della memoria”, infine la ritualistica di quella giornata in cui la ridondanza della parola consuma il significato di quel passato fino a renderlo di nuovo muto.

 

Il silenzio all’inizio è un patto, tacito ma solido: gli ebrei prima marginalizzati e poi espulsi, ricercati, braccati e poi in parte ritornati, rientrano nel consorzio sociale a patto di non porre problemi alla società, in altre parole di non chiedere della violenza subita. È il passaggio che forse in forma esemplare ha descritto Giorgio Bassani nel suo Una lapide in via Mazzini, terzo tassello delle sue Cinque storie ferraresi (Feltrinelli, pp. 85-123) e che in sede storica è stato ricostruito da Guri Schwarz nel suo Ritrovare se stessi (Laterza).
Poi quel silenzio si fa lentamente storia, anche se con molte contraddizioni e spesso con una narrazione di maniera e reticente (come ricostruiscono ora Mario Avagliano e Marco Palmieri nel loro Di pura razza italiana (Baldini & Castoldi).

 

In seguito, negli anni ’90, complici molte cose, quel passato inizia emergere prepotente nella discussione pubblica in Italia, anche se obbliga a rivedere i modi con cui ci siamo raccontati che cosa sia stato il fascismo, quanto peso abbia avuto nella formazione del cittadino, che cosa sia rimasto dopo,ma anche quante cose prima favorivano quella storia, compresa la svolta verso l’antisemitismo e il razzismo (come ha ampiamente dimostrato Riccardo Bonavita nel suo Spettri dell’altro, il Mulino).
È in questo scenario che fa il suo ingresso nel 2001 il “giorno della memoria”. Una scadenza che negli anni ha significato: proposta editoriale da parte di case editrici, numeri speciali di riviste e quotidiani, attività scolastiche specificamente dedicate, viaggi di memoria... In breve un profluvio di attività che contemporaneamente segnano il ritmo della vita pubblica.  

 

È questa ridondanza a convincere Elena Loewenthal della precarietà, e forse persino della falsità, se non dell’inconsistenza, di questa data memoriale. Perché, si chiede, ogni anno bisogna cercare qualcosa di nuovo?  

 

Per tre motivi sostiene: 1) perché il GdM è diventato il giorno degli ebrei morti, anziché quello in cui al centro stanno i vivi, quelli che allora c’erano e i loro successori. Giorno cioè in cui il soggetto non sono gli ebrei, ma coloro che con gli ebrei si sono relazionati (in termini di persecuzione, di astio, ma anche di soccorso, di aiuto). In altre parole il GdM nato per parlare dei vivi, si è trasformato in una copia del 2 novembre, ossia nella commemorazione dei morti; 2) perché la memoria che deriva da quest’omaggio implica la reiterazione del precedente paradigma che aveva chiesto il silenzio come scambio di reingresso. Se prima era il silenzio ora è l’omaggio, ma lo scambio è identico: ciò che ti chiedo è la normalizzazione, la cessazione della tua identità; 3) perché quella reiterazione e la persistenza a non normalizzarsi da parte degli ebrei sono percepite come “rendita di posizione”, come “industria”, come sfruttamento di un senso di colpa, da cui il GdM vorrebbe essere il ticket.

 

Che cosa rimane dunque alla fine? Il fatto che il 27 gennaio sia un equivoco e che come tale sia più un impedimento che non una “conquista”. Forse non ha torto Elena Loewenthal. Il problema è che le urgenze del tempo presente obbligano a trovare risposte diverse in un contesto in cui sono in rapido aumento la rivendicazione delle appartenenze e le intolleranze.

 

Come si costruisce una coscienza pubblica? È importante dotarsi di un calendario civile? Quali le date per una memoria pubblica? Sono tutte questioni che riguardano il Giorno della memoria e sono la sfida per la costruzione di un’Europa che oggi è di nuovo attratta dai movimenti xenofobi, dal richiamo della “società chiusa”, dalla sensazione di essere vittima, dalle spiegazioni complottistiche.

 

Il “giorno della memoria” è in una fase di crisi. Abbiamo il problema di costruire una coscienza civile. Si è aperta una partita che 15 anni fa non era nelle cose tale costringere a ripensare un contenuto, così come l’idea di Europa deve trovare un nuovo contenuto. Il “Giorno della Memoria” parla a una generazione di ventenni che di fronte hanno la crisi dell’Europa? Se sì, in quale forma, attraverso quali parole, quali immagini? Quell’Europa di cui il “giorno della memoria” era una data significativa ora è in bilico. La crisi dell’uno rinvia alla crisi dell’altra e viceversa. Il silenzio non è una soluzione, ma la conferma di quella crisi. Un suo specchio, più che il suo superamento.

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