Appelfeld / L’immortale Bartfuss

14 Gennaio 2021

“Bartfuss è immortale. Durante la Seconda guerra mondiale fu in uno di quei piccoli campi della morte, noti per la loro ferocia. Adesso a cinquantasette anni, è sposato con una donna che una volta chiamava Rosa, ha due figlie, una maritata”. L’enigma di uno dei personaggi più intensi creati dal grande scrittore israeliano Aharon Appelfeld, scomparso tre anni fa, è tutto qui – nella stringata cronistoria che apre L’immortale Bartfuss (Guanda, 113 pp.) per la prima volta tradotto in italiano da Elena Loewenthal. 

Perché Bartfuss è immortale? In quale campo è stato? Come ha fatto a sopravvivere? Perché ha smesso di chiamare sua moglie per nome? Pagina dopo pagina, incalzati dalle domande, lo seguiamo lungo le vie di Tel Aviv spazzate dal vento e dalla pioggia, dentro i caffè dove incontra altri sopravvissuti, nel minuscolo appartamento che condivide con la moglie e le figlie. 

Mentre il racconto procede, le domande si moltiplicano e le risposte arrivano a frammenti, oblique, rapsodiche. E alla fine poco contano perché il miracolo di questo libro è nel silenzio che lo pervade – nella capacità di Appelfeld di dare vita per sottrazione a un personaggio che resiste a ogni tentativo di afferrarlo ma si stampa nella memoria come certe immagini fuori fuoco che pure risultano precisissime.

 

 

Di Bartfuss si sa che è arrivato in Israele in circostanze avventurose, dopo un periodo trascorso in un campo profughi in Italia. Un tempo che spesso gli torna alla mente come una mitica età dell’oro – “l’incantevole Italia prima di Rosa, prima delle figlie”. Se non fosse per la moglie, per “quell’errore madornale, adesso sarebbe alle isole di San Giorgio, in quelle isole meravigliose, disabitate e infuse giorno e notte di silenzio e di acqua”. Per il resto, la sua storia sfuma nel mito. 

Non gli si conoscono genitori o amici. Nessuno sa sa come si sia salvato dal campo della morte. Si dice che sia immortale. (“Ha cinquanta pallottole nel corpo. Come fa uno a vivere con cinquanta pallottole nel corpo?”. “Fatto sta che è vivo”. “Allora è immortale”). La sua abilità negli affari è leggendaria. Vive poveramente ma è ricchissimo, si dice.

Quanto a lui, tace. Mentre lo accompagniamo nelle sue giornate sempre uguali, lo vediamo erigere intorno a sé un muro che lo isola dalla famiglia e dal resto del mondo. Così protetto, osserva. “Stava ore seduto a scavarli con gli occhi”. A raccontare Bartfuss è l’incessante dialogo che intrattiene con se stesso. Una conversazione secca, ritmata, ipnotica che filtra ricordi, sogni e impulsi come quello che infine lo porta alla ricerca di un contatto. Lì ritroverà “la stessa andatura che aveva ai tempi passati, ai bei tempi dell’Italia, quando tutto era possibile e le persone si comportavano duramente le une con le altre”. È l’andatura del tempo in cui la vita, malgrado tutto, era ancora vita. 

 

 

Quando nel 1983 scrive L’immortale Bartfuss, Appelfeld ha già alle spalle capolavori come Badenheim 1939, un tour de force kafkiano che, senza mai esplicitarla, narra la spirale che condurrà gli ebrei d’Europa allo sterminio e Tsili, tradotto in italiano con il titolo Paesaggio con bambina, dove la protagonista è una bambina abbandonata dalla famiglia che cerca scampo dalla guerra e dalle persecuzioni (nel 2014 il regista israeliano Amos Gitai ne trarrà un film girato in yiddish). 

La vicenda di Bartfuss riprende quel nucleo tematico e lo sviluppa in una nuova direzione. Torna l’esperienza dello stesso Appelfeld che a nove anni, dopo che la madre e la nonna sono state uccise, fugge dal lager della Transnistria dove è stato deportato con il padre e si salva passando tre lunghi anni nascosto nella foresta. Da lì raggiungerà il Sud Italia e, a 13 anni, Israele. (Appelfeld ricostruirà quelle vicissitudini in Storia di una vita che ne farà un personaggio conquistando il pubblico di tutto il mondo).

 

 

Torna il tema della lingua, così centrale nella riflessione dell’autore che in Israele dirà addio alle lingue che hanno segnato la sua infanzia – il tedesco, la lingua di sua madre, che suona alle sue orecchie come la lingua degli assassini; lo yiddish dei nonni; il ruteno e il rumeno del villaggio in cui è nato. Tornano la costante risacca del passato nel presente e l’incanto davanti alla struggente bellezza del mondo.

Lo straniamento dei protagonisti trova però un altro accento, più crudo e diretto, che ha spesso indotto i critici a paragonare Bartfuss a Lo straniero di Camus. E l’ombra della Shoah, si staglia così immensa e inconcepibile da imporre il silenzio. “Ogni espressione, ogni dichiarazione, ogni ‘risposta’ è minuscola, insignificante e talvolta ridicola. Anche la migliore delle risposte sembra meschina”, spiegherà lo stesso Appelfeld a Philip Roth nel 1988 in una lunga intervista sul New York Times). 

 

Da qui, la scelta di un racconto che procede per ellissi. Nelle pagine di L’immortale Bartfuss – come del resto negli altri libri di Appelfeld – non ci sono ghetti, camere a gas, crudeltà. Non ci sono i pugni nello stomaco, i cliché, la retorica e i voyeurismi a cui ci ha abituati certa letteratura sulla Shoah, ormai uno dei filoni in migliore salute nell’editoria internazionale. La narrazione di Aharon Appelfeld vola in direzione opposta: è asciutta, ironica, poetica. La scrittura è sorvegliata e l’ebraico ha una musicalità che la traduzione di Elena Loewenthal riesce a restituire nella sua bellezza.

Ho avuto la fortuna, anni fa, di incontrare Aharon Appelfeld. Di persona, il suo sorriso mite e disarmante – quello di un bambino sopravvissuto alla Shoah senza perdere la sua innocenza – comunicava un senso di speranza e fiducia nell’umanità. Eppure i suoi personaggi trasmettono solitudine, smarrimento e stupore per un mondo che resiste a ogni tentativo di comprensione. 

“Ecco quello che abbiamo fatto noi reduci dalla Shoah, questa grande esperienza non ci ha cambiati?”, chiede Bartfuss. La domanda rimbalza con angoscia di pagina in pagina senza trovare risposta. “Il mio libro non offre al sopravvissuto né la consolazione sionista né la quella religiosa”, spiega Aharon Appelfeld a Roth. Bartfuss ha inghiottito per intero la Shoah ed è destinato a portarsela dentro. “Beve il ‘nero latte’ del poeta Paul Celan al mattino, a mezzogiorno, di notte. Non ha alcun vantaggio su nessuno ma non ha ancora perso il suo volto umano. Non è molto, ma è qualcosa”. Bartfuss è immortale ma non è un eroe. Solo un uomo. 

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