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Elsa Morante: personaggi in coro

23 Ottobre 2024

Corale è probabilmente l’aggettivo più frequentemente associato al romanzo La Storia di Elsa Morante, a indicare la moltitudine di personaggi che popolano le sue pagine e che contribuiscono alla dimensione collettiva che l’autrice conferisce alle vicende narrate. Se non è semplice sistematizzare un insieme così articolato senza cadere in forzature, è tuttavia possibile ricondurre i vari personaggi ad alcune funzioni specifiche, raggruppandoli essenzialmente in tre gruppi principali, che corrispondono al ruolo ricoperto: i protagonisti, che veicolano l’identificazione emotiva del lettore; i comprimari e i personaggi secondari, che contribuiscono all’immissione dei fatti storici dentro il romanzo; e le comparse, che concorrono alla verosimiglianza delle vicende narrate.

Per cogliere le dinamiche relative ai protagonisti del romanzo si rivela utile il riscontro con Senza i conforti della religione, romanzo a cui Morante inizia a lavorare alla fine degli anni Cinquanta e che non porterà mai a termine. Un dato che accomuna i protagonisti della Storia è, infatti, il fatto di essere prelevati dalle carte di questo romanzo incompiuto, come già osservato da Simona Cives (si veda il suo contributo nel catalogo Le stanze di Elsa, 2006) e come ricorda anche Giuliana Zagra nel suo La tela favolosa (Carocci, 2019). In Senza i conforti della religione Morante avrebbe raccontato la storia di due fratelli (Giuseppe e Alfio), figli di una maestra elementare e di due padri diversi e legati da un profondissimo rapporto di affetto. Narrato in prima persona per voce di Giuseppe, il romanzo avrebbe dovuto ruotare attorno al ricordo di una felicità infantile definitivamente perduta, cui il narratore avrebbe guardato da un presente desolato, dominato dallo sconforto originato dalla morte improvvisa del fratello maggiore. Se le vicende centrali sono focalizzate su Alfio e sul mondo cinematografico degli anni Cinquanta, il racconto di Giuseppe avrebbe recuperato anche il periodo bellico, che sarà invece teatro delle vicende narrate nella Storia. Diversi episodi e molti personaggi (cani inclusi) di quel romanzo incompiuto confluiscono, con notevoli rielaborazioni, nella Storia: e proprio le rielaborazioni a cui vengono sottoposti offrono delle preziose chiavi di lettura. 

Uno dei rimaneggiamenti più consistenti riguarda il peso specifico di Ida. In Senza i conforti della religione, dove pure ritroviamo una maestra elementare madre di due figli di padri diversi, si tratta in effetti di un personaggio secondario: non ha un nome, e poco sappiamo della sua vita e del suo mondo interiore. La vediamo durante gli allarmi antiaerei con una valigetta che custodisce gelosamente, e dentro la quale doveva conservare alcuni suoi scritti; dopo il bombardamento di San Lorenzo la troviamo assieme al figlioletto in uno stanzone analogo a quello di Pietralata, insofferente per una forzata condivisione di spazi e poco amata dagli altri sfollati; infine, provata dal lutto per la perdita del figlio maggiore, finisce con lo stordirsi passando il suo tempo davanti al televisore. Quando il personaggio approda a La Storia, perde ogni velleità intellettuale (nessuna valigetta di scritti letterari l’accompagna nei suoi spostamenti) e guadagna in simpatia, catalizzando la solidarietà (e la pietà) dei personaggi con cui interagisce: da Remo, a Mosca alla levatrice “Ezechiele”, fino alla dottoressa che ha in cura Useppe. Ida è, nella Storia, l’unico personaggio presente dal primo all’ultimo capitolo. Abbiamo molte informazioni su di lei e sul suo passato: nel lungo excursus sulla sua infanzia calabrese (che Pasolini considerava la parte più riuscita del romanzo) recuperiamo informazioni sulla sua famiglia, sul suo stato sociale, sull’identità ebraica e sulle crisi epilettiche che l’avevano colpita sino all’adolescenza. Conosciamo i suoi genitori, assistiamo alla sua prima notte di nozze, e condividiamo le sue paure all’emanazione delle leggi razziali: tutto ciò, prima ancora che entrino in scena Nino e Useppe, e prima ancora di vederla aggirarsi per le strade di Roma in quell’arco cronologico (1941-1947) che costituisce le quinte principali della Storia. Eppure, a ben vedere, Ida prende raramente la parola nelle pagine del romanzo, e finisce con il rivestire un ruolo essenzialmente funzionale a mettere in risalto la focalizzazione sul piccolo Useppe. 

Inversa la traiettoria del personaggio di Nino, che nel passaggio da Senza i conforti della religione a La Storia viene, invece, ridimensionato. Nel romanzo incompiuto si sarebbe chiamato Alfio e buona parte della materia narrativa avrebbe ricostruito le sue attività nell’ambiente cinematografico del dopoguerra (molte importanti pagine ha dedicato a questi materiali Marco Bardini nel suo volume Elsa Morante e il cinema, ETS, 2014). In entrambi i romanzi Alfio/Nino si caratterizza per l’indole baldanzosa e intraprendente, per la straordinaria fame di vita e, anche, per l’amore profondissimo che lo lega al fratello minore. Prima avanguardista e poi partigiano, Alfio/Nino è destinato a morire nel fiore degli anni: in Senza i conforti sarebbe morto di malattia (un elemento che confluirà nell’Alfio della Storia, il marito di Ida) mentre nel romanzo del 1974 è vittima di un incidente automobilistico. Ma mentre in Senza i conforti ha un ruolo centralissimo nella narrazione (è principalmente di lui che parla la voce narrante, suo fratello), nella Storia Nino è una presenza intermittente e, così come per Ida, le sue comparse sono quasi sempre funzionali a riportare la focalizzazione su Useppe e, nello specifico, a immettere degli slanci di vitalità: è in spalla a Nino che Useppe vede per la prima volta il mondo esterno; è Nino a “rapirlo” dallo stanzone di Pietralata per portarlo nel covo della Libera, la banda partigiana di cui era il leader; con Nino Useppe sperimenta l’ebbrezza della motocicletta (episodio, questo, già presente in Senza i conforti della religione), ecc. I due fratelli hanno senz’altro un’indole diversa e complementare (estroverso e vitalistico Nino, mistico e riflessivo Useppe), ma condividono entrambi la tendenza a una spontanea e spensierata allegria. La complementarietà tra i due fratelli sarebbe stata ancor più evidente in Senza i conforti della religione, dove la loro indole caratteriale sarebbe stata contrapposta in modo quasi “manicheo”, appiattendo Alfio/Nino su una vivacità quasi priva di ombre (al netto della malattia finale) e caricando sul fratello Giuseppe dei tratti di cupezza che nell’Useppe della Storia appaiono solo per brevi lampi. In Senza i conforti, infatti, la voce narrante è modulata su tonalità cupe, improntate ad una irrimediabile infelicità: Giuseppe muove la sua rimemorazione a partire da un presente vuoto e doloroso, cercando di ripercorrere il ricordo di un’infanzia felice ma ormai definitivamente perduta. 

L’intuizione che sancisce la nascita del personaggio Useppe quale noi lo conosciamo coincide con la decisione, da parte di Morante, di eliminare dal personaggio di Giuseppe tutti gli elementi “saturnini” che confluiscono in un altro personaggio – assente, stavolta, dalle pagine residue di Senza i conforti della religione – ovvero Davide Segre. La triade dei protagonisti maschili (Useppe, Nino e Davide) finisce così con l’articolarsi in un incrocio di doppi complementari: al saturnino Davide fanno da contraltare la baldanza di Nino e l’allegria di Useppe; all’indole mistica di Useppe si contrappongono il tormento intellettuale di Davide e il vitalismo tutto concreto e materiale di Nino; alla seduttività e al carisma di Nino rispondono la simpatia mista a pietà che Useppe induce in chi lo incontra, e l’antipatia suscitata invece – con rare ma significative eccezioni – da Davide. L’antipatia suscitata da Davide non stupisce se consideriamo che su questo personaggio Morante fa confluire tutti i tratti saturnini del Giuseppe di Senza i conforti; il fatto però che Davide e Useppe siano entrambi la filiazione di un medesimo personaggio aiuta a mettere in luce alcuni tratti dell’infelice Davide che nella Storia trapelano con poca evidenza. L’episodio chiave, da questo punto di vista, è l’incontro tra Useppe e Davide nel terraneo dove alloggiava il giovane. In questa occasione i due recitano poesie e Davide – con la sua consueta incapacità di adeguare i contenuti all’uditorio – affronta con il piccolo analfabeta discorsi di tenore filosofico. In primo luogo, esplicita la complementarietà tra Useppe e Nino:

«Tu e tuo fratello», osservò, cambiando posizione, in un respiro, «siete così differenti, che non sembrate nemmeno fratelli. Ma vi rassomigliate per una cosa: la felicità. Sono due felicità differenti: la sua, è la felicità di esistere. E la tua è la felicità... di... di tutto. Tu sei la creatura più felice del mondo. Sempre, ogni volta che ti ho visto, l'ho pensato, fino dai primi giorni che ti ho conosciuto, là nel "cameròn"... Io sempre evitavo di guardarti, per quanta pietà mi facevi! E da allora, ci credi? me ne sono sempre ricordato, di te...»

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Nel riconoscere la spontanea felicità di Useppe, però, avanza anche un’ombra cupa sul suo destino, rivelandogli un’informazione inattesa:

«Io, la felicità l'ho sempre amata!» confessò, «certi giorni, da ragazzo, ne ero invaso a un punto tale, che mi mettevo a correre a braccia aperte, con la voglia di urlare: 'è troppa è troppa! Non posso tenermela tutta per me. Devo darla a qualcun altro'».

Proprio come il Giuseppe di Senza i conforti della religione, Davide Segre è definitivamente estromesso da una felicità che pure ha conosciuto durante l’infanzia (e che dunque sa riconoscere), al punto che sentiamo di poter dire – considerando la genesi condivisa tra i due personaggi – che l’infelice Davide altri non è che un Useppe cresciuto, con l’unica differenza dello stato sociale. Entrambi poeti, entrambi propensi al misticismo, entrambi legatissimi a Nino… Davide e Useppe sono due facce della stessa medaglia. E basterà a suggerirlo il ricordare che le poesie che Davide recita, nel suo terraneo, al piccolo Useppe, sono proprio le poesie che il Giuseppe di Senza i conforti della religione avrebbe pensato e composto in una tenda d’alberi in riva al Tevere in cui (come l’Useppe della Storia) avrebbe trascorso le sue giornate in compagnia di un cane ascoltando la melodia Tutto uno scherzo cinguettata dai lucherini.

 

Il vero discrimine tra Senza i conforti della religione e La Storia consiste però, più che nel riassestamento dei protagonisti, nell’immissione della Storia (maior) del romanzo: e questo avviene non soltanto attraverso le cronistorie che incorniciano i vari capitoli, quanto nell’introduzione di una nutrita schiera di personaggi secondari. A ben vedere, infatti, la maggior parte di questi personaggi secondari ha una funzione sostanzialmente marginale nella definizione della trama del romanzo, che si reggerebbe benissimo anche senza Vilma, la signora Di Segni, Giovannino, Mosca, Mariulina, Carulina… e persino senza offrire troppi dettagli sul soldato Gunther e sui genitori di Ida. Tra le critiche mosse al romanzo una delle più frequenti ha riguardato proprio quel manierismo di stampo ottocentesco con cui Morante si sarebbe compiaciuta nel concludere le traiettorie di tutti i suoi personaggi, inclusi quelli secondari. Eppure, proprio in questo risiede la dimensione corale del romanzo al punto che, volendo provocatoriamente forzare un po’ la lettura, possiamo quasi considerarli i veri protagonisti. In effetti quasi tutti i personaggi secondari altro non sono che trasfigurazioni letterarie di persone reali o, quantomeno, su di loro Morante trasferisce esperienze e vicende storiche che trae dalla poderosa mole di letture storiche che nutrono il romanzo. 

Il caso più celebre è quello di Celeste Di Segni, protagonista di uno degli episodi più commoventi del romanzo, in cui Ida insegue la signora Di Segni per le strade di Roma e approda alla stazione Tiburtina, dove stazionano i treni piombati su cui sono stipati gli ebrei catturati durante il rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943. Come già rilevato dalla critica, un appunto che Morante deposita accanto alla stesura manoscritta di questo passaggio precisa che nell’episodio realmente accaduto la donna si chiamava Sermoneta. Quelle pagine del romanzo sono mutuate, infatti, da Black sabbath di Robert Katz in cui lo storico, ricostruendo la deportazione degli ebrei di Roma, racconta di una donna che, scampata fortuitamente al rastrellamento del 16 ottobre, chiede (e ottiene) di essere caricata sul treno assieme alla propria famiglia. Al riscontro tra la versione di Katz e le pagine della Storia la differenza sostanziale tra la ricostruzione dello storico e la trasfigurazione letteraria di Morante è la presenza di Ida con in braccio il piccolo Useppe, testimoni muti e attoniti; così come si rifà a un dettaglio storicamente attendibile il bigliettino destinato a Efrati Pacifico che Ida riceve da uno dei prigionieri. 

Anche il personaggio di Vilma, la «ragazza invecchiata», gattara del ghetto «trattata, là in giro, per una mentecatta» non è frutto della mera fantasia di Morante: molteplici testimonianze (tra cui il già menzionato Robert Katz, ma anche Giacomo Debenedetti nel suo 16 ottobre 1943) ricordano l’esistenza di tale Celeste che, inascoltata, avrebbe cercato di avvisare gli abitanti del ghetto dell’imminente rastrellamento. In questo caso, però, Morante approfondisce il personaggio, inventandosi un futuro per la sua Vilma, quasi un risarcimento letterario: la narratrice riferirà di averla reincontrata, tempo dopo, trovandola «obliosa e beata», immersa «in una conversazione celeste» con i gatti, divenuti i suoi unici interlocutori. Non è un caso che Morante trasformi la “Cassandra del ghetto” in una gattara, se consideriamo che in un raffinato elzeviro pubblicato su Il Mondo nel dicembre 1950 aveva presentato il gatto come una prova di misericordia del padreterno nei confronti degli umani dopo la cacciata dal paradiso terrestre: messo dell’Eden, il gatto sarebbe per gli umani l’unica consolazione per l’irrimediabile perdita della felicità edenica. Dopo il drammatico 16 ottobre Vilma diviene incapace di articolare un discorso comprensibile agli umani: l’apparente follia in cui scivola altro non è, però, che la benedizione di tornare a una felicità pre-caduta, al di fuori della Storia. 

Compensatorio è anche il trattamento della morte di Giovannino, a cui l’autrice regala lo scivolamento dolce in una dimensione onirica: se quel «Buonanotte, biondino» con cui la narratrice si congeda dal suo personaggio ha suscitato non poche critiche (con le accuse di buonismo consolatorio e di pietismo populistico), anche in questo personaggio possiamo vedere un veicolo per immettere la storia nel romanzo. Sono in questo caso le numerose testimonianze sul fronte orientale raccolte da Nuto Revelli a nutrire il drammatico resoconto delle ultime ore di Giovannino, così come gli sfoghi di Clemente Manonera. Gli esemplari Morantiani di L’ultimo fronte e di La strada del Davai, fittamente annotati dall’autrice, vengono distillati nelle poche (ma incisive) pagine attraverso cui, ripartendole tra i due personaggi di Giovannino e di Clemente, Morante dà voce ai duecentoventimila soldati partiti per il fronte orientale. Non a caso i due libri di Revelli, assieme ai sopracitati volumi di Debenedetti e Robert Katz, sono indicati da Morante nella nota bibliografica che conclude il romanzo, con l’aggiunta di Perché gli altri dimenticano di Bruno Piazza (da cui è prelevata di peso l’esperienza di Davide nei “bunker della morte”) e di Guerriglia nei castelli romani di Pino Levi Cavaglione (da cui nascono molte delle pagine dedicate alla Libera, e da cui è tratto il feroce assassinio del tedesco a colpi di scarponi, eccesso di violenza che tormenterà Davide e sconvolgerà i suoi compagni di lotta).

Si potrebbe continuare ancora a lungo, dicendo di come Mosca e Mariulina diano voce all’esperienza partigiana; di come i genitori di Ida siano funzionali alla ricostruzione della fase tra le due guerre (con l’anarchismo di Giuseppe costretto a clandestinità, e poi progressivamente messo a tacere, o con il riferimento all’epidemia di febbre spagnola e, ancora, alle occupazioni di terreni da parte di contadini e braccianti meridionali); di come Alfio offra un pretesto per evocare il terremoto di Messina (da cui si salva fortuitamente perché arrampicato a una palma) e la guerra in Etiopia, durante la quale si manifesta la sua malattia; ecc. ecc. Ma non è forse necessaria una rassegna esaustiva e completa per cogliere come i personaggi che popolano La Storia siano lì proprio per mostrare l’impatto concreto che la storia maior ha sulle vite dei singoli.

Resta un ultimo “personaggio” su cui vale la pena di spendere qualche parola: la narratrice. Molto si è detto e scritto sulla peculiarissima voce narrante della Storia, ma se vale la pena di considerarla un vero e proprio personaggio è perché la narratrice riferisce di aver sentito o visto o saputo alcune delle cose che racconta, e perché, soprattutto, riferisce in varie occasioni di aver conosciuto e incontrato alcuni dei personaggi del romanzo: abbiamo visto il caso di Vilma; ma ricordiamo anche che il romanzo si chiude con un incontro – a distanza di anni – tra la narratrice e Ida, anch’essa “espulsa” dal consorzio umano e alienata in uno stato catatonico. Proprio la narratrice permette la tenuta complessiva dell’articolato sistema dei personaggi e favorisce la dialettica tra protagonisti, comprimari, personaggi secondari e comparse (utili soprattutto a conferire verosimiglianza e credibilità). La sua funzione principale è quella di porsi come modello di lettore ideale, veicolando un approccio empatico (e non intellettualistico) alle vicende narrate, per favorire negli analfabeti (i destinatari d’elezione del romanzo) la consapevolezza che le vicende – allora recenti – narrate nella Storia non sono il frutto di mera fantasia: «Difatti» - commenta narrando l’incredulità con cui erano accolte le profezie di Vilma - «nessuna immaginazione viva potrebbe, coi propri mezzi, raffigurarsi i mostri aberranti e complicati prodotti dal suo contrario: ossia dalla mancanza totale d'immaginazione, che è propria di certi meccanismi mortuari».

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In occasione dei 50 anni dalla prima pubblicazione del romanzo La Storia di Elsa Morante nel 1974, Biblioteche di Roma e doppiozero propongono dal 24 settembre al 17 dicembre 2024 una nuova rassegna Alfabeto Morante, Lezioni in biblioteca dedicata a una delle autrici più significative del Novecento.

giovedì 24 ottobre ore 11.00 Biblioteca Flaminia
Il sistema dei personaggi  con Monica Zanardo

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