Escher. Nel medioevo senese

2 Febbraio 2015

Maurits Cornelis Escher, maestro di ricerche sulla visione, profondo indagatore sulla ingannevole natura dell’icona, in cui sfondo e figura sono uniti e assai modernamente si confondono in un’unica realtà, come accade nell’èra digitale, giunse in Italia per la prima volta nel 1922. Veniva da Haarlem per il consueto Grand Tour insieme a due amici: Jan van der Does de Willebois e Bas Kist: tutti allievi della rinomata Scuola di Architettura e di Arti Decorative, dove l’artista aveva trovato il suo maestro Samuel Jessurun de Mesquita, docente di grande rigore, che lo aveva introdotto al mondo della xilografia. L’itinerario era soprattutto legato alla visione dei “primitivi”, i maestri antichi dell’arte, che nel suo paese erano stati fortemente riproposti dall’opera notevolissima di Jan Verkade, allievo pupillo di Gauguin, e poi frate, di cui ha lasciato un magnifico ritratto Giovanni Papini. Per questo egli si legò così fortemente a Siena e a San Gimignano, cui dedicò opere che in primo luogo davano conto della sorpresa nei confronti di un paesaggio verticale, contrastato di luci e ombre, rispetto all’uniformità cangiante di terra e mare dei Paesi Bassi.

 

Pur viaggiando ossessivamente su e giù per l’Italia, con una crescente predilezione per il Sud (fu a lungo tra Abruzzo, Campania e Calabria) fu spesso nella città del palio per dodici anni, fino al 1935, quando il regime fascista gli risultò infine intollerabile. Egli viveva in una pensione di via Sallustio Bandini 19, presso la signora Giuseppa Alessandri, che diventò una sua amicizia. Qui, dove per il momento nella strada nessun segno ricorda la sua presenza, incontrò l’amore della sua vita, la svizzera Jetta Umiker, figlia di un industriale,  con cui si sposò a Viareggio, in municipio, nel 1923. A Siena tenne anche la sua prima mostra sotto il titolo Bianco e nero, riproducendo nello stendardo che segnalava la manifestazione, i colori dello stemma, dove presentò i suoi primi paesaggi, soggetto quasi esclusivo del suo interesse in questo momento. Di questo periodo di rigoroso apprendistato restano molte incisioni che ritraggono i tetti di Siena, il mistero di una notte quieta e dolce nelle stradette della città. Altrettanto forti sono le immagini dedicate a San Gimignano: in una specialmente egli rende omaggio allo stile dei maestri giapponesi, come se incidesse nello spirito di Hokusai. Raffigura infatti la città turrita, in mezzo a una collina incisa a onde, con al centro un albero ritorto. Gli artisti in cui si identifica in questo periodo sono Duccio da Buoninsegna, Ambrogio Lorenzetti, ma anche il sorprendente Sano Di Pietro, che lo seduce per le sue metafisiche divisioni della rappresentazione, come è evidente nelle due magnifiche Prediche di San Bernardino, conservate al Museo dell’Opera del Duomo, che hanno l’inquietudine metafisica di certe Piazze d’Italia dechirichiane.

 

Il diario pubblicato da Giandomenico Semeraro nel volume Bianco e nero. Maurits Cornelis Escher a Siena (Pacini Fazzi, 1996), spiega un intensissimo percorso di visione, da cui traggono ispirazione varie opere. Nella pagina dedicata al 7 maggio 1922 Siena offre la possibilità di un’immersione improvvisa nel passato. «La mattina ho seguito un’allegra sfilata, composta da una banda musicale seguita da un gran numero di giovani in costume medievale, ciascuno dei quali faceva sventolare un vessillo i cui colori corrispondevano a quelli del loro costume. Questo variopinto e festante corteo era diretto verso una chiesina in via Romana, vicino all’omonima porta San Galgano. […] Dopo di che ho visitato Santa Maria dei Servi, ricca di diversi dipinti molto belli: una vergine del fiorentino Coppo di Marcovaldo, con forti influenze bizantine, poi una Strage degli Innocenti di Matteo di Giovanni, che presenta molte analogie con il suo dipinto in Sant’Agostino, da lui eseguita sullo stesso tema, nove anni più tardi di quella di Sant’Agostino; inoltre una stupenda Madonna con bambino di Lippo Memmi, un dipinto di piccole dimensioni  del ‘300: adorazione dei pastori e dei re magi, molto ‘naif’, con due magnifici uccellini in primo piano».

 

Il gusto del dettaglio fiammingo-olandese è nel suo DNA ed è un punto di riferimento per tutta la sua esistenza. Dopo il ritorno al nord, tra Svizzera, Belgio, e infine Olanda, a Baarn, dove si trova la Fondazione che gli è dedicata, Escher scrisse che aveva dovuto inventare un proprio mondo immaginario, perché i paesaggi in cui si trovava non lo seducevano quanto quelli italiani. I personaggi misteriosi che abitano le sue raffigurazioni spesso hanno indosso costumi vagamente medievali; le cronache vogliono che prendesse in prestito gli abiti dalle contrade per vestire figure che provenivano da un mondo antico rivisitato dalla sua immaginazione. Lo stile che ha reso Escher famoso nel mondo per le sue opere che sono a metà tra matematica e poesia, nasce da una riflessione sulla relazione tra natura e cultura nel paesaggio senese: dal mondo antico nasce una visione modernissima, che oggi nell’epoca digitale svela una continua, pungente attualità.

 

Luca Scarlini ha dedicato a M.C. Escher un racconto scenico intitolato Il moderno nell’antico, realizzato nell’estate 2014 a San Gimignano in collaborazione con la compagnia “Giardino Chiuso” all’interno del Festival Orizzoni Verticali e ripreso ora, in versione teatrale, sempre con le immagini firmate da Andrea Montagnani. A Roma, presso il Chiostro del Bramante, è in corso una mostra di 150 opere dell’incisore e artista, Escher, a cura di Marco Bussagli (dal 20 settembre 2014 al 22 febbraio 2015).

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