Va’ pensiero. Storie ambulanti
Girato tra Milano e Firenze, è uscito in varie città italiane Va’ pensiero-Storie ambulanti, l’ultimo documentario del regista Dagmawi Yimer, nel quale i tre protagonisti raccontano le loro esperienze di vita e le aggressioni razziste subite nelle due città, dove da anni risiedono.
A Milano seguiamo Mohamed Ba, 50 anni, griot, attore e educatore, residente in Italia da 14 anni, che fu accoltellato il 31 maggio del 2009 in pieno giorno, nel centro della città. A Firenze invece scopriamo le storie di Mor Sougou e Cheikh Mbengue, gravemente feriti nella strage del mercato di San Lorenzo, avvenuta 13 dicembre 2011, dove morirono i loro connazionali Samb Modou e Diop Mor. All’interno del panorama giornalistico italiano (e in alcuni casi del cinema che parla di immigrazione), le storie come quelle dei tre protagonisti di Va’ pensiero si collocano molto spesso in secondo piano, rivelando una totale assenza del punto di vista di chi è coinvolto in prima persona e delle scelte lessicali che pongono l’immigrato quasi esclusivamente nel ruolo del povero immigrato.
I media e il cinema italiani sono forse responsabili della formazione dei pregiudizi e di uno sguardo discriminante nei confronti degli stranieri? Costruendo uno stereotipo unitario intorno ad alcune aree principali (mancato punto di vista dei protagonisti, racconto esclusivo degli episodi legati alla cronaca nera e agli sbarchi nel Mediterraneo, riferimento ossessivo alla nazionalità dei protagonisti) sicuramente contribuiscono a crearne un’immagine negativa, esercitando un’influenza nociva sulla percezione che degli immigrati ha la società italiana.
Il documentario di Dagmawi Yimer dimostra invece che per parlare di una storia sull’immigrazione è necessario porre maggiore attenzione al come si delinea il racconto e riflettere a quale impatto si produce sul pubblico. Il film, prodotto da AMM-Archivio delle Memorie Migranti, con il sostegno di OSF - Open Society Foundations e lettera27, è stato presentato in anteprima nazionale a Roma il 9 dicembre 2013 e sta toccando diverse città italiane.
Tra le prossime date quella di Milano, dove è in programma una proiezione per mercoledì 26 febbraio presso il cinema Anteo, con interventi di Dagmawi Yimer, Mohamed Ba, Mor Sogou, Sandro Triulzi, Giulio Cederna (qui il calendario aggiornato).
V.L.: Raccontaci come è nata l’idea per questo progetto, dove metti in relazione due storie e eventi diversi, la storia di Mohamed Ba a Milano e di Mor e Cheikh a Firenze.
D. Y.: Inizialmente il progetto era di raccontare Milano e i suoi angoli, oscuri o nascosti, attraverso la storie di Mohamed Ba. Mentre ero già partito con le riprese a Milano è avvenuta la strage di Firenze che ha scioccato me come tanti altri e ho sentito la necessità di includerla nel mio progetto, perché come spesso accade la cronaca si è limitata a non dare una giusta copertura alle vittime di piazza Dalmazia e S. Lorenzo.
V.L.: Hai spesso dichiarato, parlando di Va’ pensiero e delle tue opere precedenti, che è importante raccontare le storie degli immigrati in Italia, cambiando la prospettiva e il punto di vista. Secondo te, cambiare il punto di vista e raccontare in prima persona le proprie storie in che modo contribuisce a cambiare l'immaginario sull'Africa in Europa?
D. Y.: Cambiare il punto di vista vuol dire uscire dall’essere l’oggetto della narrazione e diventare ‘proprietario’ della propria storia. Vuol dire anche non aspettare la ‘traduzione’ della storia. Infatti, nel processo di ‘traduzione’ attraverso cinema, scrittura, teatro e altre forme artistiche si tende a non dare un racconto fedele. Raccontare l’immigrazione degli africani in Europa credo aiuti a costruire/decostruire l’immaginario africano dell’Europa, più che cambiare l’immaginario sull’Africa in Europa. Se si vuole cambiare l’immaginario sull’Africa in Europa non c’è bisogno necessariamente di raccontare l’immigrazione, bisogna piuttosto raccontare l’Africa in Africa. Perché dico questo? L’immigrato africano che vive qui certamente fa parte di una cultura altrui ma è per lo più uno specchio della società in cui vive (l’Europa) e non di quell’Africa che ha lasciato. Questo perché il suo essere è modellato dalle leggi, dal modo di vivere, dalla cultura e la mentalità della società in cui si trova.
V.L.: Negli ultimi anni, sono aumentate le produzioni di film che parlano di immigrazione in Italia. Cosa pensi dell’approccio dei registi italiani che trattano di questo tema?
D. Y.: Secondo me ‘lo sguardo’ si riferisce sulla sensibilità dell’approccio del documentarista verso una storia che non necessariamente ha vissuto di persona, ma riesce a co-raccontare attraverso un mezzo che è il cinema, a restituire con dignità, in primis nei confronti del protagonista della storia. Un regista che ha un’esperienza migratoria non deve necessariamente raccontare l’immigrazione, così come il tema dell’immigrazione può essere affrontato da un regista italiano. La differenza non dipende solo da chi sta raccontando ma da come sta raccontando. Se, come si vede nel cinema italiano, l’immigrato rimane etichettato in base all’immaginario di un italiano medio, il regista ha fallito perché non ha raccontato qualcosa di nuovo ma una stessa minestra in forma diversa. Non è per niente scontato raccontare l’immigrazione. Ben venga che l’immigrazione attiri di più il mondo del cinema. Ho molto timore però che il cinema possa rafforzare ancora di più i pregiudizi e gli stereotipi. Insomma, bisogna raccontare le persone e non solo la loro provenienza da una ‘cultura’ altra, un aspetto che deve essere (se c’è bisogno) secondario. Non esiste un film sull’immigrazione, se non come un raccontare le persone che magari appartengono a quella categoria che viene chiamata ‘immigrati’. Allo stesso tempo però possono appartenere anche ad un'altra categoria. Ad esempio: giovane, atleta, attore, regista, medico, operaio, genitore, imprenditore…
V.L.: Che cosa ti lascia perplesso invece rispetto alla comunicazione che riguarda gli stranieri e gli immigrati ad opera dei media italiani?
D. Y.: I termini e le associazioni che si usano per descrivere l’immigrato spesso sono dispregiativi. La presenza dell’immigrato risalta solo e spesso negli aspetti negativi legati al reato, al numero di arrivi di Lampedusa... tutto questo rivela l’incompetenza dei giornalisti sull’immigrazione. Rivela anche il degrado etico del mestiere che si chiama giornalismo.
V.L.: Hai dichiarato che per te sarebbe importante riuscire a diffondere le tue opere in vari paesi africani e in particolar modo in Etiopia. Quali sono le cose che vorresti raccontare e trasmettere rispetto al falso mito dell'Eldorado in Occidente, che continua ad alimentare la sofferenza di molti migranti africani, una volta arrivati in Europa?
D. Y.: I miei lavori non devono essere una pura propaganda per chi decide di partire da ogni angolo del mondo ma semplicemente una decostruzione dell’immaginario africano nei confronti dell’Europa: raccontare anche ‘l’Europa dei migranti’, cioè rendere l’africano più informato e pronto se è forzato o ha scelto di lasciare l’Africa.
V.L.: Perché la scelta di un titolo così importante come Va’ pensiero, uno dei brani più famosi tra le opere di Giuseppe Verdi? Il brano tratto dal Nabucco è stato successivamente letto come una metafora della condizione dell'Italia, assoggettata all'epoca al dominio austriaco. Ci sono ulteriori collegamenti con il tuo film?
D. Y.: Apprezzo molto il brano, anche se non sono una persona che ascolta quel genere di musica. L’ho sentito per la prima volta in una delle cerimonie di partito, mi sono messo a cercare sul web per sapere chi avesse scritto quel brano. Con stupore ho scoperto che è tutta un’altra cosa. Soprattutto è un patrimonio. Malgrado sia considerato una metafora della dominazione austriaca, si prestava ad essere accostato ad una comunità assoggettata, in questo caso i senegalesi che lavorano sodo per strada correndo di qua e di la sognando di tornare prima o poi nel paese d’origine, liberi dallo spirito di Nabucodonosor, che può simboleggiare l’ingiustizia sociale mondiale che spinge l’essere umano a spostarsi in un altro paese. Per questo il film inizia con il racconto di un’Africa precoloniale, attraverso la schiavitù e la post colonizzazione, cui ha fatto seguito l’immigrazione. Per secoli è stato distrutto il ‘Tempio’ degli africani, la loro tradizione, sono stati sradicati dalla loro terra. Tutto ciò per dire il brano ha senso per questo film ma si presta anche ad altre interpretazioni.
Dagmawi Yimer, nato e cresciuto ad Addis Abeba, lascia il suo paese dopo i gravi disordini post-elettorali del 2005 che portarono all’uccisione e al ferimento di centinaia di giovani. Dopo un lungo viaggio attraverso il deserto libico e il Mediterraneo, sbarca insieme ad altri giovani a Lampedusa il 30 luglio 2006. A Roma, dopo aver partecipato a un laboratorio di video partecipato nel 2007, realizza insieme ad altri 5 migranti il film Il deserto e il mare. Successivamente è co-regista del film documentario Come un uomo sulla terra (2008) con Andrea Segre e Riccardo Biadene. Ha realizzato i documentari C.A.R.A. ITALIA (2009) e Soltanto il mare (2011). Nel 2011 ha coordinato il progetto di film collettivo Benvenuti in Italia (2012) curandone uno degli episodi. Da alcuni anni vive a Verona insieme a Chiara e alla loro figlia Ester.
AMM - Archivio delle memorie migranti è nato all’interno del progetto Confini sostenuto da lettera27 presso l’Associazione Asinitas a partire dal 2008. Nel gennaio 2012 si è costituito in associazione di promozione sociale. L'AMM raccoglie un gruppo di autori, ricercatori, registi, operatori di terreno, migranti e non, impegnati nel tentativo di dare vita a un nuovo modo di comunicare, partecipato e interattivo, che lasci traccia dei processi migratori in corso e allo stesso tempo permetta l'inserimento di memorie 'altre' nel patrimonio collettivo della memoria nazionale e transnazionale.