Arte contemporanea, ricerca, sfera pubblica: una connessione necessaria
La chiusura di un museo procura sconcerto: un luogo di cura e relazione cessa di esistere e recare beneficio alla comunità. Il rogo di un quadro, sia pure modesto, ci colpisce: vanno in fumo tempo, dedizione, mitezza, pazienza, meticolosità. Ci troviamo come dilacerati alla successione di notizia: il MADRE, il Riso, il MAXXI, perfino il MART. Non possiamo che deplorare l’incuria pubblica, l’analfabetismo contemporaneistico dei decisori, la mancanza di investimenti qualificati. La sollecitudine con cui si impone agonia a un’istituzione culturale è infinitamente maggiore di quella con cui ci si adopera a contrastare la corruzione, l’evasione, il nepotismo; o a ridurre prebende, consulenze, incarichi.
Al tempo stesso dobbiamo riconoscere che lo stato italiano manca da sempre, non da oggi, di una politica seria di tutela e promozione del contemporaneo. Non sono seri i musei o le collezioni che si improvvisano tali per iniziativa personalistica, in assenza di un progetto di ricerca; non sono seri, o sono progettati in modo colpevolmente improvvisato e casuale, i musei il cui budget è tutto o quasi impegnato dalle spese di gestione.
Dobbiamo ancora iniziare, in Italia, a immaginare politiche culturali che non siano neoliberisticamente protese a profitto, da un lato; generate da vanità, vicinato o contiguità politici dall’altro. Il museo è un “comune”: contribuisce al benessere comunitario se consolida pratiche di rigore e trasparenza, distribuisce lavoro qualificato e patrocina modelli di equità. La sua esistenza è benefica e per più versi necessaria se l’istituzione è virtuosa: ma solo a questa condizione.
Lagnanza e battage di quanti hanno potuto prosperare nell’approssimazione o nel più opaco commercio in nome dell’“arte contemporanea” è riprovevole tanto quanto l’ideologica indifferenza alle ragioni della sperimentazione, della complessità, della ricerca. Che senso ha, ci chiediamo, disseminare musei di arte contemporanea lontano dalle grandi città, per iniziative assessoriali o curatoriali assistite e dequalificate? Oppure. Un centro di arte contemporanea esiste se avvia iniziative scientifiche e di trasmissione della cultura: attraverso servizi didattici, esposizioni, rassegne, archivi, editoria, borse di studio, cantieri storiografici, critici, curatoriali etc. A che cosa serve istituire centri e “musei” lontani dalle grandi città, privi di una qualsiasi connessione organica ai luoghi e alle comunità, sprovvisti di collezione e nell’impossibilità economico-finanziaria di farsela, che impongano logori blockbuster dove mancano infrastrutture, lavoro, legalità? Non è meglio avviare processi di bonifica sociale e culturale, dedicarsi all’accudimento della sfera pubblica laddove questa sia più fragile?
Forse dovremmo intenderci su che cosa sia “arte contemporanea”, perché e a quali condizioni qualcosa del genere debba necessariamente trovare cittadinanza nel contesto di una democrazia partecipata. Che cosa individua un “museo” o “centro” di arte contemporanea in un contesto periferico o semiperiferico quale, in larga parte, l’Italia? Mostre di seconda o terza mano di logori blockbuster metropolitani con opere provenienti dal mercato secondario; oppure l’instaurazione di “buone pratiche” culturali che possano eventualmente prescindere in parte o del tutto dalla “mostra” intesa come esposizione di autografi e “evento”?
L’auspicio dei rivali del contemporaneo si compie oggi in Italia per la colpevole depoliticizzazione e distanza del discorso artistico da istanze civili; e le rozze, aggressive attitudini neocoloniali di larga parte di ciò che si dice “mercato”.
Taluni avevano sostenuto, non molto tempo fa, che l’arte contemporanea doveva esistere in assenza di finanziamenti pubblici, per solo sostegno dei privati (tra questi il curatore del Padiglione italiano all’ultima Biennale di Venezia). Adesso accadrà.
Per una trattazione più ampia delle fragilità del “modello Italia” nell’arte contemporanea vd. Michele Dantini, Artisti e critici sospesi tra memorie disperse, in: il Manifesto, 10.4.2012, pp. 10-11.