I colori di Alberto Savinio / La metafisica del colore
Cento anni fa usciva presso Vallecchi, per le Edizioni della Libreria della Voce, Hermaphrodito, libro di esordio di Alberto Savinio, pseudonimo di Andrea De Chirico, fratello del forse più famoso Giorgio. È un libro sperimentale, colto, con accenti futuristi ed espressionisti, ironico, satirico e sarcastico, ibrido nello stile, sostanzialmente unico e isolato nel clima culturale italiano di quegli anni, legato piuttosto alle esperienze artistiche di Monaco e Parigi a cui i due fratelli avevano partecipato negli anni precedenti la guerra. Si può certo definirlo un libro "metafisico" nel senso che Savinio darà a questo termine nei suoi scritti di poetica: non ricerca di un aldilà delle cose, di un mondo dietro il mondo, ma penetrazione nella loro essenza, capacità di coglierle con uno sguardo inedito. «Parole variopinte», ha scritto Ardengo Soffici per descriverne la scrittura; «parole usate come suoni-colori» ha ribadito Alfredo Giuliani nell'introduzione alla ristampa per Adelphi del 1995. Sappiamo che Savinio era stato musicista e lo sarà di nuovo, che aveva iniziato a dipingere e che diventerà pittore; non dovrebbe dunque sembrare strana la capacità di rendere pittorica e musicale la sua scrittura. Eppure è proprio il senso di questa indicazione che vorrei indagare.
Nell'introduzione a Capitano Ulisse – testo scritto nel 1925 per il Teatro dell'arte di Pirandello, edito nel 1934 e rappresentato solo nel 1938 – Savinio conduce Ulisse per mano sul palcoscenico e dietro le quinte del teatro romano dell'Odescalchi, secondo la sua abitudine di far camminare nel presente dei ed eroi del mito antico, e lo introduce all'Avventura Colorata: questa la sua definizione del teatro che – scrive – gli è venuta da sé, senza che egli si sognasse di cercarla. Nell'Avventura Colorata l'attore «riesce a mutare con lievissima contrazione dei muscoli il colore della pelle. Passa a scelta da uomo rosso a uomo turchino, giallo, verde e così via. Peli e unghie se li fa spuntare a vista d'occhio. Da uomo diventa donna e reciprocamente». La forza del teatro sta nei colori che devono essere «vivi, orgogliosi, mordenti» e agire come il blu di mitilene sui microbi sotto la lente del microscopio. Il progetto di Savinio di rinnovare il teatro si è però rivelato un'illusione: il teatro italiano per il momento non accoglie Savinio, l'Odescalchi fallisce, il teatro si trasforma in una recita tetra in bianco e nero e lo stesso Pirandello nella sua serietà e gravità è diventato nero (La verità sull'ultimo viaggio, in Capitano Ulisse, Adelphi, Milano 1995).
Non è però la prima volta che Savinio immagina sul palcoscenico uomini colorati, anzi si potrebbe affermare che questi caratterizzano la sua prima produzione letteraria. Torniamo indietro di una decina d'anni: nell'agosto del 1914, proprio all'inizio della guerra, a Parigi, sulla rivista di Apollinaire "Les Soirées de Paris" venne pubblicato il testo – o parte del testo – dei Chants de la mi-mort; nel maggio precedente Savinio aveva eseguito una suite per pianoforte che forse avrebbe dovuto accompagnarne l'allestimento scenico. In un'atmosfera surreale e sinistra, con scenografia e costumi disegnati dall'autore e poi perduti, agiscono un uomo calvo, «uomo senza voce, senza occhi e senza volto» – primo modello del manichino di De Chirico –, una giovane Deisyssina, oggetto del desiderio, ma anche degradata nel ricordo a cosa o a macchina, un re pazzo, un uomo giallo e la madre di questo, i quali recitano una tragica parodia del nostro Risorgimento, che è insieme celebrazione della morte di Dio sul modello dello Zarathustra di Nietzsche. Nella scena della torre, colorata da un tappeto scarlatto e da una tenda nera, l'uomo-giallo giace con Deisyssina in un letto-catafalco, calamitato nella spirale del desiderio che ha il centro di colore rosso. La madre di pietra, con una scarica elettrica dalla luce verdastra, uccide per gelosia la giovane Deisyssina e viene uccisa a sua volta dall'uomo giallo: mazzi di girasoli accompagnano con significati diversi e dissonanti le scene (cfr. Marco Sabbatini, L'argonauta, L'anatomico, il funambolo. Alberto Savinio dai Chants de la mi-mort a Hermaphrodito, Salerno Editrice, Roma 1997). I colori sono netti, si stagliano sul fondo scuro, addirittura individuano la personalità dell'uomo-giallo, ambiguo personaggio che sembra aver tradito il padre e la patria e che tratta nella sua follia l'amante morta come se ancora vivesse e gioca pentito con il cadavere della madre ridotta a una bambola; anche a lui tocca di morire nel momento stesso in cui Vittorio Emanuele viene proclamato re d'Italia.
Anche in Hermaphrodito tornano i colori: segnano i momenti principali del capitolo dal titolo Drame de la ville méridiane, una scena teatrale, quasi proseguimento dei Chants – scritta in francese e in italiano – che si apre a mezzogiorno, nell'ora dei fantasmi e del sole nero, su un palco occupato per tre quarti da una lastra di marmo eccessivamente bianca, venata di linee sottili color carminio od opale; sullo sfondo compaiono soldati di latta, scatole policrome, palme di ferro, alberi esotici, un cielo verde di sinopia antica, navigato da cicogne bianche che si muovono in lunghe spirali. In questo quadro si susseguono le visioni: un ministro in redingote, senza testa e con tre gambe rigide su rotelle, che appende il suo cuore rosso come bersaglio; una donna calva che sale come lucertola di latta sulla statua di Emanuele Filiberto per pugnalarlo; la casa – tema caro allo scrittore; un'altra donna che racconta di un enorme pesce di zinco con quattro zampe, immobile in una piazza parigina; una danza macabra; uno scambio di battute tra due soldati. I critici hanno interpretato queste visioni enigmatiche scoprendo nelle immagini criptiche la rivolta dell'artista rivoluzionario, che si ispira all'oltreuomo di Nietzsche, contro i residui dell'autorità politica, accademica e forse anche futurista. Di contro Savinio proclama la poetica della leggerezza, delle nuove idee che – come scrive nel precedente capitolo – corrono al galoppo, caracollano, in una corsa a ostacoli, in un carosello felice, nella sua testa «trasparente» (Hermaphrodito e altri romanzi, a cura di Alessandro Tinterri, Introduzione di Alfredo Giuliani, Adelphi, Milano 1995, p. 5).
I colori segnano anche il lungo racconto La partenza dell'Argonauta, sempre in Hermaphrodito, narrazione autobiografica della partenza dell'autore da Ferrara vista di lontano «su dall'orizzonte giallo di canapa» in cui si distinguono «il campanilone erculeo e i torrioni quadri del suo castello rosso» (p. 107). Savinio parte per il fronte orientale, per Salonicco, e sul treno appunta: «io scrivo – cioè stendo i cadaverini neri delle parole sopra il sudario immacolato della carta» (p. 116). L'ombra della guerra è già nella descrizione del mare nemico, blu di Prussia, mare di pece (per la ricostruzione del lavoro letterario che si intreccia con la pubblicazione di Hermaphrodito, cfr. Paola Italia, Il pellegrino appassionato. Savinio scrittore. 1915-1925, Sellerio, Palermo 2004).
Prima però leggiamo di un incontro fortuito, occasione di un'invettiva contro le idiozie sulla pittura: arrivato a Taranto, al tavolo del ristorante Dandolo, prende posto di fronte a lui un soldato destinato a Valona, che è pittore italiano reduce da Parigi: «Costui si siede accanto a me e attacca le chiacchiere. Ha gli occhi malati di stanchezza: "è lo studio, sono i colori" dice lui, ma io non gli credo e ne accuso il verde assenzio». Racconta il pittore che si sveglia di notte e nella cornice della finestra vede già il bozzetto e l'acquaforte, usa termini francesi o meglio: «sbava francioserie», «parla, e il suo pollice ritorto indietro, lotta nell'aria come se schiacciasse le biacche e i carmini sopra una tavolozza ideale» (pp. 146-147). Di nuovo, nella Casa ispirata, nel 1920, racconterà della visita a un altro pittore, il russo signor Marionov, definito «il sincromista», la cui moglie Tangarova funge da traduttrice. Si tratta di una divertente parodia che fonde insieme diverse idiosincrasie saviniane: secondo Silvia Pegoraro nasconde i nomi dei pittori Michail Larionov e Natalia Gontčharova, giunti a Parigi dalla Russia in quegli anni, che vengono però accostati al movimento d'avanguardia americano del sincromismo (cfr. La metamorfosi e l'ironia. Saggio su Alberto Savinio, Printer, Bologna 1991, pp. 313ss.). Il pittore parla di luce e di colori come di volumi tangibili, solidi, sodi, compatti, li vede nell'insalata dell'antipasto che immagina rovesciata su una tela come opera d'arte. Savinio, piuttosto preoccupato di doverla ingoiare e ancor più disgustato dalle orecchie di maiale servite come piatto forte, conclude la serata con un giudizio perentorio sulla teoria del colore del pittore cromofotocinetico: «fesserie», ma spiega alla signora Tangarova che fesseria è parola napoletana intraducibile che significa: sovranamente bello! (per l'ironia in Savinio mi permetto di rimandare a "Fillide" n. 16, fillide.it)
Il colore è per Savinio un argomento importante che percorre tutta la sua produzione artistica, fa parte della sua «fenomenologia dello sguardo, del vedere o non vedere le cose e la loro metamorfosi» (Alfredo Giuliani), della creazione del suo mondo poetico. Forse è questa la ragione che conduce Savinio, dalla metà degli anni Venti, a dedicarsi intensamente all'esercizio della pittura, attività che manterrà parallela al lavoro di scrittore e alla ripresa del teatro e della musica nel dopoguerra. Un mezzo e non un fine – dice Savinio a proposito della pittura –, un'operazione conoscitiva, dunque, che conferisce al colore una funzione precisa. I colori devono prendere forma, non esistono senza una forma, non servono a suggerire un'atmosfera, non sono impressionistici; la visione metafisica del mondo richiede che la cosa debba essere colta in sé, staccarsi dallo sfondo, stagliarsi su di esso. Savinio, come gli altri pittori italiani che in quegli anni vivono a Parigi, ammira la pittura pompeiana: negli antichi dipinti conservati al Museo Nazionale di Napoli «il colore – scrive – è così schietto, brillante, trasparente, profondo». Questa la ragione dell'esaltazione dell'affresco e, ancor più, della pittura a tempera di contro alla pittura a olio: la tempera non consentirebbe il lavoro "a pasta", ma sarebbe caratterizzata dalle velature che fanno sì che nessuna pennellata vada perduta, ma che si vedano tutte nella trasparenza (La nuova teoria sulle pitture pompeiane – Tempera e affresco, "La Stampa", 21 luglio 1934). Queste osservazioni – che mi paiono paradossali nel caso delle velature che sono usate proprio nella pittura a olio – risalgono agli anni Trenta e sono mescolate ad affermazioni scioviniste sulla superiorità della pittura italiana rispetto a quella nordica. Negli anni Quaranta e nel dopoguerra persisterà l'ammirazione verso le pitture di Pompei, ma l'impostazione nazionalistica verrà completamente abbandonata a favore di una nuova concezione dell'unità europea.
Nell'Autopresentazione a una mostra alla Galleria Il Milione a Milano nel 1940 Savinio descrive il suo lavoro di pittore. Afferma di voler dipingere sempre meglio, ma non per descrivere in modo più aderente la realtà fenomenica, «anzi per sempre più staccare la "cosa" dipinta dalla cosa reale, per implicarla in sé, per isolarla», vuole «dipingere sempre più forte», «portare con ogni mezzo la "cosa" dipinta al suo massimo di intensità», «far "cantare" la parola pittorica». Di tale impostazione teorica antinaturalistica fanno dunque parte gli uomini con teste di animali, ispirati alla metafisica ironica di Weininger, e la possibilità di dipingere una natura morta blu. Il fondo dei quadri deve essere per lo più nero, e il nero ha, secondo Savinio, la stessa funzione dell'oro nei quadri medievali: nel bellissimo Objets dans la forêt dipinto nel 1927-28 gli oggetti colorati si stagliavano sullo sfondo inquietante di una foresta grigia.
La brillantezza del colore servirà allora a fissare lo sguardo dentro l'oggetto, a coglierne l'anatomia interna, a rendere questa natura misteriosa con sottile ironia.