Da museo a moschea / Istanbul: Ayasofya

20 Agosto 2020

Riprendo in mano un vecchio libro illustrato, di una cinquantina d’anni fa, dedicato a Santa Sofia (a c. di Lord Kinross, Mondadori, 1992), la basilica prima cristiana, poi cattedrale ortodossa, poi moschea, e ancora dopo museo, ora ridiventata moschea per consolidare le mire nazionalistiche del nuovo “Sultano” Erdogan. Sfoglio il libro e ritrovo il fascino delle pubblicazioni di quegli anni: ricchissima ricerca iconografica, ma senza le alte definizioni ormai in uso; una piccola antologia critica che forse oggi potrebbe essere più esauriente; una ricostruzione storica accurata, ma che tradisce una predilezione spiccata – e dunque perciò stesso datata – per il significato che quel tempio ha rappresentato per la cristianità, a partire dal titolo stesso del libro: Santa Sofia, come se si trattasse di una santa di nome Sofia, e non dello “Spirito di Sapienza” cui la basilica fu dedicata fin dalle sue origini. 

Il fascino, per me, è dovuto anche alle reminiscenze di un viaggio, compiuto in Turchia, verso la metà degli anni Ottanta, un viaggio povero e avventuroso, pieno di pensieri, di sguardo, di bellezza, di conoscenza. Entrammo ad Ayasofya (il nome turco sul calco di quello greco, Aghia Sophia) con un sentimento di ammirazione, quasi di orgoglio, al pensiero che in quel paese – in cui vedevamo convivere un’anima laica e una musulmana – esistesse un luogo così, un po’ come una casa di preghiera e di pensiero per tutti i popoli. 

 

Due architetti svizzeri, Gaspare e Giuseppe Fossati, ricevettero nel 1846 l’incarico dal sultano Abdul Megid di restaurare la moschea. I due fratelli dovettero demolire gli edifici all’esterno per puntellarne le mura.


Ma oggi a riguardare quel libro subisco anche la fascinazione della onesta e minuziosa ricostruzione storica, attraverso riproduzioni di disegni, fotografie, mappe, ingrandimenti, suggestioni diverse di un monumento che ha subito nei secoli devastazioni, saccheggi, incendi, terremoti, crolli, e poi ricostruzioni, ristrutturazioni, reinvestendolo ogni volta di un nuovo significato simbolico. Prima di essere costruito, era già nella mente di Costantino, che vagheggiava per Costantinopoli, la “Seconda Roma”, una “grande chiesa” che fosse vero santuario per tutta la cristianità e dunque per tutto l’impero. La basilica, che fu inaugurata nel 360 dall’imperatore Costanzo II, attingendo alle tecniche della grande architettura imperiale, poco dopo fu distrutta da un incendio; di nuovo ricostruita, di nuovo incendiata, fu poi inaugurata di nuovo nel 537 dall’imperatore Giustiniano. Legni pregiati, marmi, quintali d’oro, il lavoro di migliaia di operai: nulla fu risparmiato per dare grandiosità a quel tempio, che fu però sempre mira di sogni impropri. All’avvento dello scisma tra Oriente e Occidente la chiesa fu convertita in cattedrale ortodossa, sede del Patriarcato di Costantinopoli, poi riconvertita dai soldati della IV crociata in cattedrale cattolica di rito romano, poi ancora sede della Chiesa ortodossa, che ritrovò in quello splendore, in quelle cupole, in quei mosaici, in quelle luci (l’immensa cupola appare leggera per le quaranta finestre di luce che la circondano), l’intelaiatura della sua “teologia della bellezza”. 

 

Ma ecco, la storia di nuovo si accanisce a distruggere, a trasformare, a ricostruire. Alla caduta di Costantinopoli, nel 1453, con l’avvento dell’impero ottomano, il grande baluardo della cristianità si trasforma in moschea. La croce viene sostituita da una mezzaluna, gli splendidi mosaici cristiani vengono oscurati, versetti e scritture coraniche vengono incorniciati ai pilastri e ai fusti delle colonne, i minareti si innalzano a dare una nuova e diversa armonia alla basilica preesistente. Il nome, però, rimane lo stesso: troppo grande era il prestigio che aveva acquistato nei secoli, e in ogni caso la santità della sapienza è un arco di luce dentro il quale ogni religione può risplendere. Ayasofya diventa il simbolo dell’impero ottomano. Fino alla sua disfatta e al suo smembramento, alla sua trasformazione in Repubblica di Turchia, il 24 luglio 1923. Fu il primo presidente, Mustafa Kemal, chiamato poi Atatürk, il “padre dei turchi”, che volle dare al paese un’impronta di laicità, scommise su un suo avvicinamento all’Occidente, ne modificò i costumi, ridimensionò il ruolo delle istituzioni religiose. E trasformò la moschea di Ayasofya in Museo, ripristinando anche i simboli cristiani, in nome di una possibile convivenza tra fedi e culture. Era il primo febbraio 1935.

 

Urna di alabastro per le abluzioni dei fedeli risalente all’epoca di Giustiniano.


Oggi, di nuovo, la storia impone una svolta. Il 24 luglio – si noti la coincidenza della data, come a voler ricostituire una continuità con il disfatto impero ottomano – il presidente Erdogan, con una manifestazione imponente per numero di partecipanti e per l’ostentata ritualità (Erdogan stesso ha voluto aprire la preghiera leggendo versetti del Corano) il museo cessa di essere tale e diventa luogo di culto islamico.

Certo, le riconversioni dei luoghi di culto sono sempre accadute. Dobbiamo sapere però che sempre sono state accompagnate da gesti violenti, soprusi, espressioni di volontà di potenza. Del resto il nuovo sultano Erdogan, sottraendo la “nuova” moschea al Ministero della cultura e affidandola alla Presidenza degli affari religiosi, si allea ancora più saldamente con l’ala conservatrice e estremista del paese, dando speranza ai sogni di una nuova espansione e un nuovo impero. Inserendosi come un cuneo fastidioso e minaccioso nelle tensioni tra Stati Uniti e Russia, tra Siria e Libia, rivaleggiando con l’Egitto, rialzando la testa sulle coste dell’Egeo, incurante di quello che può scatenare un passo troppo azzardato. È una parte di mondo già in fiamme. Basta un nulla a scatenare la fatidica “seconda” esplosione. E serve a poco affermare, anche se con dolore, che le religioni sono sovente “strumentalizzate” dai poteri politici. Forse occorre cominciare a rendersi conto che le religioni, in quanto fattori di aggregazione, e dunque fortemente identitari, non sono mai state separate da un ruolo anche politico nella storia delle nazioni. A meno che non siano state ridotte a piccoli “resti”, minoranze in grado di custodire le poche parole di sapienza (di “aghia sophia”) consegnate loro dalle lunghe tradizioni. 

 

C’è stato chi ha detto che non c’è niente di male a riconsegnare a luoghi di culto i patrimoni religiosi. Anzi, le opere d’arte è meglio vederle nei luoghi che le hanno per primi ospitate piuttosto che in un museo. Ma non è questo che è in gioco. È in gioco quella che era stata una grande conquista della Turchia di cento anni fa: la possibilità di prescindere da un rispecchiamento identitario per allargare i confini culturali delle patrie. 

Per questo il gesto di laicità di Atatürk era un momento di respiro nella lunga catena delle distruzioni. Non perché avesse spento il valore e il senso di quelle eredità. Ma perché le metteva a disposizione del mondo. 

E ora? Che cosa resta da fare nei giochi internazionali che si fanno sempre più sinistri e intimidatori? Riuscirà la forza mite della sapienza che unisce i popoli a far fronte allo spirito di sopraffazione? 

C’è da dubitarne, ovviamente. Ma esiste un’altra strada?

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