Tra architettura, religione, psicologia / Roberto Orefice, entronauta
Mente brillante, dotato di una intelligenza superiore alla media, colto, sagace e appassionato in ogni cosa che faceva, ancora giovanissimo ha scritto brani di critica all’architettura italiana del dopoguerra, le cui somme acuzie e lungimiranza sono ancora ineguagliate. Nell’età di mezzo è stato un insegnante di progettazione architettonica innovativo e maieutico, capace di stimolare al massimo grado la creatività dei suoi allievi e di indurli ad esprimere il proprio talento, perfino quello più recondito. Infine, nell’età matura, ha agito come terapeuta sensibile e profondo.
Curioso e appassionato di tutte le culture, soprattutto delle più insondate, e di tutte le religioni (suoi saggi sono apparsi persino sul quotidiano israeliano Haaretz), ha condotto su di esse ricerche in forte anticipo sui tempi. Ma le cose più sorprendenti che lo hanno contraddistinto sono state la sua inesausta curiosità e la sua eterna giovinezza interiore. Infatti, nonostante il passare degli anni, egli non è mai invecchiato. Perenne enfant terrible, anarchico, libertario, anticonformista e bizzarro, con la sua spregiudicatezza (spesso addirittura sfrontatezza) ha saputo cogliere con folgorante anticipo le contraddizioni della realtà che lo circondava, colpendo sempre nel segno ogniqualvolta la prendeva di mira. Lontano dai clangori della cronaca mondana, dalla patinatura delle riviste e dai palcoscenici delle archistar, ha preferito scrivere la propria storia nelle anime delle persone con cui ha avuto a che fare nel suo lavoro professionale, lasciando in ognuna di esse una traccia del suo messaggio di libertà e un tocco della sua poesia.
Architetto, designer e critico dell’architettura
Roberto Orefice, il cui padre era un ingegnere piuttosto importante (ha lavorato nelle Officine Sperimentali della Breda, dove, all’inizio degli anni cinquanta, ha addirittura collaborato al progetto del treno Settebello), mentre sua madre era un’insigne matematica, si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano nel 1959. Gli anni in cui ha frequentato la Facoltà erano quelli gloriosi della direzione di Piero Portaluppi, quando ad insegnarvi c'erano intellettuali del calibro di Ernesto Nathan Rogers e di Gio Ponti. Suoi compagni di corso, e poi amici per sempre, sono stati Mario Bellini, Guido Canali, Oscar Cagna, Italo Lupi e Carlo Segre. Come ha ricordato Italo Lupi in una nostra recente conversazione telefonica, si ritrovavano tutti insieme a studiare proprio a casa di Roberto, prima in Via Amedei e poi in quella di Via Eleuterio Pagliano. Subito dopo la laurea, tre di loro, e precisamente Bellini, Lupi e lo stesso Orefice, sono stati chiamati a lavorare all’Ufficio Sviluppo di La Rinascente.
Ecco un ricordo di Mario Bellini:
“A pochi giorni dalla laurea, saputo di un’opportunità di lavoro, Italo, Roberto Orefice ed io ci presentiamo da Augusto Morello [un fine intellettuale che poi inventò il Compasso d’Oro], mitico direttore dell’Ufficio Sviluppo de la Rinascente. Ufficio dove erano passati e passavano giovani talenti in erba assieme ad affermate personalità della cultura. Un ufficio che si rivelerà una straordinaria fucina di talent scouting e formazione, dove si respirava l’aria – allora piena di entusiasmi e speranze – della nuova stagione del Design italiano. Stagione destinata a divenire, attraendo le migliori energie creative da tutto il mondo, un grande fenomeno planetario che manterrà il suo epicentro a Milano. Morello cercava una persona: noi eravamo tre. Abbiamo concluso con un accordo “paghi uno, prendi tre”. E non ce ne siamo mai pentiti. Messi alla prova, abbiamo subito cominciato, come se fosse la cosa più naturale del mondo, a fare l’architetto-progettista grafico (Italo) e l’architetto-designer (io e Roberto).
Quando dopo due anni di esperienze da Alice nel Paese delle Meraviglie, in una sede da non crederci, affacciata sulle guglie del Duomo che sembrava di toccarle, l’Ufficio Sviluppo de la Rinascente chiude, i giochi e i nostri destini erano segnati” (Mario Bellini in Italo Lupi, Autobiografia grafica, Corraini Edizioni, Mantova 2014, pag. 16).
Il Centro Sviluppo de La Rinascente, in quegli anni è stata una fucina creativa, alla quale hanno collaborato, tra gli altri Giulio Carlo Argan, Gae Aulenti, Aldo e Marirosa Ballo, Mario Bellini, Silvana Biasutti, Joe Colombo, Jonathan De Pas, Donato D’Urbino, Paolo Lomazzi, Serge Libiszewski, Italo Lupi, Franco Menna, Cecilia Mora, Bruno Munari, Bob e Ornella Noorda, Roberto Orefice, Richard Sapper, Ettore Sottsass, Oliviero Toscani, Akioshi Yabuki, Kazuko Watanabe, Marco Zanuso, Mali Zuppinger.
Mario Bellini e Roberto Orefice vi lavoravano progettando arredi e complementi di design, mentre Italo Lupi curava l’aspetto grafico delle pubblicazioni de La Rinascente. Bellini e Orefice, nel 1960 (avevano 26 anni!) hanno creato una serie di lampade dal design moderno e funzionale e, ancora insieme, nel 1961, con la collaborazione di Mario Cristiani Orefici, hanno dato vita alla serie di arredi da living Ammiraglia, realizzati nel prezioso legno di palissandro, allora molto in voga, con dettagli di alta ebanisteria, come si può vedere dalle fotografie.
Roberto Orefice, in Rinascente, non si limitava, però, al solo lavoro progettuale; come racconta Italo Lupi, era anche solito svolgere una zelante opera di propaganda interna. Infatti, dall’ultimo piano, dove avevano sede i loro uffici (“dalle cui finestre pareva di poter toccare con mano le guglie del duomo: un luogo la cui bellezza mi è rimasta scolpita negli occhi”: Italo Lupi usa parole molto simili a quelle di Mario Bellini, a significare che l'emozione condivisa deve essere stata intensissima) scendeva quotidianamente al piano di vendita degli arredi a compiere (con la sua dolce veemenza) una ‘meritoria’ opera di convincimento dei commessi, affinché cessassero di proporre alla clientela le vetuste abat-jour dai paralumi plissettati e ornati di passamanerie, per indurla invece ad acquistare le moderne lampade di design progettate nell'Ufficio Sviluppo della Rinascente medesima. Racconta Lupi di come l'oratoria di Roberto fosse talmente subissante e la sua presenza così insistente e assidua da indurre i commessi all'esasperazione. Ma forse era proprio ciò che Orefice voleva, in fondo: repetita iuvant.
Già da studente e, a maggior ragione, da laureato – ricorda ancora Italo Lupi – Roberto Orefice aveva una penna felice, oltre ad essere coltissimo. Tra i numerosi articoli da lui scritti “tre in particolare sono stati eccellenti. Si intitolavano I baroni rampanti dell’architettura moderna, tre generazioni di architetti del dopoguerra italiana, ed erano dedicati all’architettura italiana nuova, quella nello spirito di continuità con la tradizione, proprio della lezione di Ernesto Nathan Rogers, apparsi sul numero zero (1960) della rivista SUPERFICI, fondata e diretta da Leonardo Fiori. In essi Orefice difendeva l’esperienza rogersiana entrando in polemica con un grande teorico dell’architettura, il britannico Reyner Banham (famosa firma dell'Architectural Review). Questi, piccato, volle subito pubblicare sul numero successivo di SUPERFICI la propria opinione avversa a quella di Orefice, da lui giudicata un ‘tradimento’ delle tesi del Movimento Moderno.”
A Fiori si deve, continua ancora Lupi in un suo scritto: "una brillante esperienza: l’invenzione e la direzione della rivista SUPERFICI, oggi dimenticata, ma interprete assoluta del dibattito di quegli anni. Con la grafica di Remo Muratore, con Emilio Tadini libero e colto critico dell’arte e con Roberto Orefice, allora giovanissimo neo laureato, i cui articoli sui Baroni Rampanti dell’Architettura Italiana avevano innescato un dibattito di profonda eco internazionale.
L’originalità di questo bimestrale di architettura nasceva dalla frequentazione del cenacolo, allora vivacissimo, degli “artisti” di Brera per i quali Fiori aveva progettato il Bar Giamaica e il Ristorante Fiori Oscuri, due interventi esemplari per semplicità e anticonformismo. Leonardo scompariva, poi riappariva, ma sapevi sempre che c’era, sapevi che la sua eterogenea leggerezza poteva aiutarti.”
È ancora Italo Lupi a riferire che il gruppo di amici composto da lui stesso, da Bellini, e da Orefice aveva fondato nel 1969 la rivista Shop, autoprodotta e stampata dal Tipografo milanese Cordani. Si trattava di un periodico innovativo che dava spazio all’architettura dei Centri Commerciali, di cui allora non parlava ancora nessuno e poi all’architettura d’avanguardia, oltre che ad argomenti a quei tempi ancora tangenziali alla cultura ufficiale, come la Grafica e la Fotografia. E anche su questa rivista gli articoli più colti e lungimiranti erano a firma di Roberto Orefice.
Tra il 1962 e il 1964, Orefice ha insegnato Metodologia della ricerca progettuale nei corsi superiori di Disegno industriale allo IUAV, con Giuseppe Ciribini e, dal 1964 al 1966 è stato assistente di Vittorio Gregotti alla cattedra di Composizione architettonica alla Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.
Molteplici le sue realizzazioni progettuali (edifici scolastici e residenziali) e altrettanti i suoi interventi di urbanistica e paesistici per l'Alta Valtellina e per l'Alto Varesotto (1968-1969), realizzati su incarico del Ministero del Bilancio e della Programmazione economica (cfr. AAVV, Una scuola per il domani: dall'ISA di Monza al Liceo artistico Nanni Valentini, 1967-2017, Mondadori, pp. 232, 233. € 25.00).
L’esperienza didattica all’ISA di Monza
Nel 1970, Orefice approda all’ISA (Istituto Statale d’Arte Sperimentale) di Monza, erede dell’ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) da cui erano nate le Biennali di Arte Decorativa, divenute Triennali nel 1930, che, lasciato il capoluogo brianteo nel 1933, si trasferirono a Milano nel Palazzo dell’Arte appositamente progettato da Giovanni Muzio, dove continuano ancora oggi a scrivere pagine importanti della storia del design e dell'architettura internazionali.
Fino al 1994, Roberto Orefice vi insegnerà Progettazione.
Quando penso alla sua azione didattica, mi vengono in mente quattro grandi figure di riferimento, ciascuna associabile a uno degli aspetti implicati nel suo modo di insegnare: Paul Klee, Socrate, Leonardo da Vinci e John Ruskin.
Come già Paul Klee, che al Bauhaus predilesse e praticò l’insegnamento nel Vorkurs (il corso preliminare), anche Orefice scelse di dedicarsi al biennio propedeutico, in quella scuola che era scandita, appunto, in un biennio comune e in un successivo triennio di specializzazione (Graphic design e Industrial design). Era lì, infatti, con gli allievi più giovani che la sua azione di far tabula rasa delle convenzioni e dei luoghi comuni si espletava con esiti sorprendenti.
Il richiamo a Socrate lo lego all'abile esercizio della maieutica che Orefice sapeva applicare con i suoi allievi, inducendo anche il più riottoso di essi a esprimere la propria creatività, ritrovandola in se stesso e facendola riemergere dalla propria anima. Certo queste operazioni erano molto affini anche all’operato di terapeuta che Orefice iniziava a praticare e che costituirà il suo impegno principale nella terza parte della sua vita. Inoltre, essa atteneva anche alla lezione di Rudolf Steiner sull’Antroposofia, che Orefice conosceva molto bene e che studiava e applicava con grande interesse, ma anche con la dovuta distanza critica. Ricordo, in particolare, un viaggio d’istruzione al Goetheanum di Dornach in Svizzera, definito da Steiner "un edificio vivente posto all'interno di un corpo plastico". Lì tra le possenti membrature di quell’architettura incredibilmente espressiva e magniloquente, le parole appassionate di Orefice furono illuminanti anche per noi, suoi colleghi, non soltanto per gli studenti, e tutti pendevamo dalle sue labbra.
Uno dei temi prediletti da Orefice nel suo lavoro didattico è stato per anni quello del volo ed ecco entrare in gioco la memoria degli studi di Leonardo. Con lui i ragazzi progettavano anche magnifici e coloratissimi aquiloni, che facevano poi volare con magica destrezza.
John Ruskin amava Venezia e l’ha amata anche Orefice, al punto da incentrare su questa città fiabesca molte delle sue azioni didattiche.
Libertà e fantasia sono stati i termini essenziali del binomio educativo di Roberto Orefice, il quale, rompendo ogni schema precostituito, guidava i suoi allievi in campi di ricerca progettuale insondati e avvincenti. E così, sul tema dello spazio, li induceva a indagare, non già quello angusto e asfittico delle metropoli, ma quello libero dei tratturi su cui pascolano le greggi; o, ancora, quello delle praterie o delle pianure dell'Africa, dove galoppano, libere, le mandrie. Al centro del suo interesse c’erano anche le architetture spontanee del Mediterraneo, in modo particolare lo avvincevano i trulli, le cui cupole, era solito raccontare, sono fatte da 12 file di pietre, perché 12 sono i mesi e 12 i segni zodiacali. Inoltre, le esercitazioni iniziali del biennio esordivano spesso con il gioco visivo-fonetico di Maluma e Takete.
Qui di seguito, sono raccolti alcuni pensieri e ricordi dei suoi allievi, talmente numerosi nel rispondere alla richiesta di affidarli a queste righe, che sarebbe impossibile pubblicarli tutti. Essi sono riportati volutamente anonimi, non soltanto per il rispetto della privacy dei loro autori, ma soprattutto perché assurgono a valore collettivo.
"Per me, poco più che quattordicenne, Roberto Orefice è stato un maestro di vita, forse colui che più mi ha 'insegnato' a buttare i pregiudizi, i luoghi comuni, la cultura 'pattumiera' , ad avere uno sguardo 'lungo', a guardare altrove. Lui ci stupiva, ci scandalizzava, ci sorprendeva continuamente, non capivamo tanto cosa avessero a che fare tutte le cose che ci raccontava con la progettazione. L'ho capito nel tempo, ho capito che il progetto è 'pensiero', è cercare sempre altrove, oltre le convenzioni, è mettere alla prova l'intelligenza più che i virtuosismi."
"Di Roberto Orefice io conservo ancora tracce immateriali dentro di me, anzi molto più che tracce: il suo insegnamento è alla base della costruzione della mia personalità. Il mio approccio alla creatività è fondamentalmente basato sul lavoro di liberazione dagli stereotipi e dalle soluzioni scontate che Roberto Orefice ci ha regalato."
"Anch'io mi ricordo bene del prof. Orefice, anche se, a quel tempo, gli davo del matto, ma lui è sempre stato più avanti di tanti altri.
Mi ricordo ancora dei suoi schemi per contare le mandrie della tribù dei Bororo (ho disegnato una donna a puntini "bellissima"). Lui in qualche modo è riuscito ad aprire la mente a tutti noi. Gli auguro che voli in cielo come i suoi aquiloni che ci faceva progettare, realizzare e volare nel cortile dell'ISA."
“Lui sapeva farci sognare e sostenere la nostra adolescenza.”
Il terapeuta
Orefice ha conseguito una seconda laurea in Psicologia, con Gino (Luigi) Pagliarani, padre fondatore della psicosocioanalisi (PSOA). Nell'ultima parte della sua ricca e poliedrica esistenza, conclusa la carriera di insegnante, ha esercitato la professione di terapeuta, con lo stesso, umanissimo amore per le persone con cui ha avuto a che fare, con analoga competenza, gentilezza e generosità che hanno caratterizzato tutta la sua vita.
Vorrei concludere questo omaggio a un maestro, a un amico, a una guida spirituale, quale è stato Roberto Orefice per me e per molti di noi, suoi colleghi all’ISA di Monza, con il curriculum che lui stesso si era redatto circa una decina di anni fa:
Roberto Orefice, studioso di dinamiche entronautiche artistiche e religiose
È stato successivamente:
bambino perseguitato, in fuga,
innamorato più volte e lungamente;
designer, architetto, socio-urbanista, docente di progettazione e di comunicazioni visive, art-therapist; psicoterapeuta, studioso e docente di strutture e storie religiose
(specie ebraiche) sperimentatore di esami astro-grafologici sintetici e sinergici e di altri test diagnostici e attivatori;
conduttore, da oltre 30 anni, di una particolare forma di training autogeno meditativa, fondata su un'esperienza dei chakra restaurata, ma non bigotta né burocratica.
Ha pubblicato strani saggi su tutto ciò.
È corresponsabile di tre figli variegati, ed è risvegliato da un piccolo
nipote magico
Vive (o sopravvive) a Milano