Sul filo sottile della legge

1 Maggio 2015

Nascere sulle ceneri della serie più acclamata di sempre, un capolavoro indiscusso celebrato da un’infilata di Emmy e dalla devozione del pubblico di tutto il mondo, può anche non essere un vantaggio. Si rischia di portarsi dietro il fardello dell’eterno confronto con il nobile predecessore, un continuo paragone da cui si esce in difetto, sconfitti. E se la serie Better Call Saul fosse, in fondo, nata solo per colmare un vuoto, per fare sentire meno la mancanza di un mondo narrativo che i fan rimpiangono con nostalgia?

 

Dal momento in cui sono iniziate a circolare le prime voci su un possibile spin-off di Breaking Bad, è stato tutto un fiorire di scetticismo misto ad aspettative elevatissime, soprattutto perché il progetto portava la firma di Vince Gilligan, l’inventore della saga dell’impacciato professore di chimica del New Mexico che abbraccia il lato oscuro e diventa uno spietato commerciante di droga, trasformandosi da Mr. Chips (il protagonista del film di Sam Wood) a un implacabile Scarface. La genesi di Better Call Saul, in onda per dieci episodi sul canale via cavo AMC, non è stata del tutto lineare. Gilligan ha raccontato che l’idea di esplorare meglio la storia di Saul Goodman (interpretato da Bob Odenkirk), l’avvocato faccendiere a cui Jesse Pinkman e Mr. White si rivolgono per ricevere assistenza legale mano a mano che il loro commercio di metanfetamina cresce di scala, è arrivata quasi subito, all’altezza della terza stagione, quando Goodman fa per la prima volta il suo ingresso in scena inventato dalla penna di Peter Gould, che di Better Call Saul è l’executive producer insieme a Gilligan.

 

 

In Breaking Bad, Saul Goodman fa quello che fanno i personaggi secondari più riusciti: compare (relativamente) poco, ma nelle sequenze in cui entra in scena gli bastano poche battute per ritagliarsi uno spazio autonomo e lasciarsi dietro il desiderio di vederlo sempre più presente nel procedere del racconto. Gilligan ha spiegato che, mentre erano al lavoro sugli otto episodi conclusivi della serie, impegnati nella resa dei conti sui destini dei personaggi, gli sceneggiatori hanno deciso deliberatamente di mantenere Saul in vita, proprio per lasciare aperto il suo fato in vista dello spin-off.

 

Pensata inizialmente come una comedy sul classico formato da 20 minuti (un modello inedito per AMC), la serie è stata in corso d’opera ripensata come un drama più esteso. Un’indecisione che si riflette anche nella struttura della serie, che dà spesso l’impressione di non saper scegliere se cavalcare i molti lati grotteschi di Saul o spingere sull’action e il dramma psicologico.

 

Ma chi è esattamente Saul Goodman? Lontano dai tratti mefistofelici che caratterizzano molti avvocati raccontati dal cinema e dalla televisione americana, il legale di Mr. White già in Breaking Bad ha la caratura di un personaggio tragicomico e grottesco, con i suoi dozzinali completi color cammello (una sorta di stile Matlock rivisitato), le camicie bordeaux e le cravatte pacchiane, il suo studio ricolmo di ninnoli di cattivo gusto, il cassetto della scrivania pieno di cellulari per confondere le tracce, la sua parlantina sciolta. In diverse occasioni toglie dai guai l’improbabile coppia di spacciatori: si rende presto molto simpatico per un’innata capacità creativa di destreggiarsi sempre sul filo sottile che separa rispetto della legge e imbroglio.

 

 

Mentre Mr. White compie la sua discesa agli inferi, episodio dopo episodio, della storia di Saul Goodman viene rivelato poco o niente. Si capisce solo che non ha la natura violenta dei criminali che assiste, che è facile da intimorire e che gli interessa soprattutto salvarsi la pelle nelle acque agitate della vasca di squali in cui si ritrova a nuotare. Saul è, in fondo, solo un impenitente azzeccagarbugli, sempre a caccia di cavilli per sfruttare a proprio vantaggio l’imperfezione e l’indefinitezza che accompagna ogni impianto giuridico.

 

Come Breaking Bad, anche Better Call Saul è una di quelle serie che si definiscono character-based, incentrate sul personaggio. Se la storia del professore di chimica è stata un viaggio dell’eroe alla rovescia, che ha disegnato in cinque stagioni un arco di trasformazione, un’inarrestabile deriva morale parallela alla malattia fisica (Walt arrivava a manipolare, uccidere, ingannare, tradire senza remore anche chi gli era più vicino), anche Better Call Saul è, al suo cuore, il racconto della formazione di un carattere, della costruzione della personalità di un uomo. Lo spin-off riavvolge la linea del tempo e riporta l’azione a un periodo precedente rispetto alle vicende della serie «maggiore», raccontando di quando Saul non era ancora Saul Goodman, avvocato di poveri cristi e pericolosi criminali, ma semplicemente Jimmy McGill, anzi «Slippin’ Jimmyı», il pasticcione, come lo definivano gli amici.

 

Si capisce subito che Jimmy ha un animo buono e un carattere gentile, ma non riesce proprio a stare lontano dai guai: esercita con profitto l’arte della truffa di bassa lega con il socio Marco, si barcamena tra un lavoretto e l’altro. Si capisce presto che ha dei grossi problemi di autostima, dovuti soprattutto al confronto con il fratello Chuck, un avvocato di grido che non fa altro che sminuirlo, farlo sentire un perdente. Jimmy vorrebbe solo compiacerlo, renderlo orgoglioso, ma tutti i suoi tentativi si rivelano maldestri: il passo dalla pratica della truffa all’esercizio dei sofismi legali per uscirne impuniti è breve, e così via con la scuola di legge delle isole Samoa (fatta per corrispondenza), via con l’esame di abilitazione, via con la pratica legale nelle lande desolate e polverose di Albuquerque, New Mexico, con il desiderio di affiancare, prima o poi, proprio il fratello Chuck nel suo prestigioso studio legale. Con un continuo sfalsamento di piani temporali, gli episodi si snodano lungo gli anni «di formazione» di Jimmy, che lentamente inizia a fare tesoro della sua dote principale, la retorica istrionica a servizio di una vita fatta di espedienti («You got a mouth on you!»). Come Jimmy diventerà Saul, è ancora tutto da vedere e dimostrare.

 

È inutile negarlo: su Better Call Saul pesa come un macigno il confronto con Breaking Bad, che ha condizionato molto anche il dibattito critico seguito alla messa in onda della serie su AMC. Vero è che questi primi dieci episodi non hanno convinto del tutto. Ci sono molti aspetti (soprattutto visivi) eccellenti, valorizzati magistralmente da fotografia e regia: i fan di Breaking Bad ritroveranno molte delle trovate estetiche della serie. Ci sono invenzioni narrative molto brillanti: l’abitazione di Jimmy dentro il salone di bellezza asiatico, le pedicure notturne con l’amica Kim e alcuni personaggi secondari che si stagliano dallo sfondo per il loro carisma. Per esempio la straordinaria Betsy Kettleman, tutta ordine, determinazione criminale e camicette floreali.

 

Ma un limite abbastanza chiaro della serie è la sua irresolutezza di fondo: è come se, in questa prima stagione, gli autori non avessero voluto «direzionare» troppo il racconto in un senso o nell’altro, per lasciarlo aperto a sviluppi futuri che potrebbero virare il tono narrativo verso diverse tonalità e registri. Better Call Saul non è un legal drama, anche se alcuni casi legali, anche avvincenti, ci sono: nonostante in pochi confidino nelle sue capacità da avvocato («Sei il peggiore avvocato di sempre», si fa apostrofare a un tratto), Jimmy ha in realtà un talento nel campo, che emerge in alcune situazioni da cui però esce sempre perdente. La serie non sfrutta neanche al massimo il potenziale comico e grottesco del personaggio, che fa capolino in modo dirompente solo in alcune occasioni, come alcune sequenze dei dibattimenti in tribunale, come il negoziato nel deserto sul destino di due skaters assoldati da Jimmy come complici in una truffa, di cui però finiscono per rimanere vittime. In fondo, non è neanche il prequel di Breaking Bad, fatta eccezione per la linea narrativa dedicata a Mike Ehrmantraut, l’ex poliziotto diventato «risolutore», di cui scopriamo alcuni squarci di storia passata. Forse, anche per Better Call Saul si tratta solo di una partenza lenta, come è stata quella della saga di Mr. White, che è cresciuta, nel ritmo come nella potenza narrativa, con lo scorrere delle stagioni.

 

Better call Saul, by Charles Schultz

 

D’altronde, ogni paragone sarebbe insensato e forse i creatori di Better Call Saul hanno fatto bene a limitare al minimo i riferimenti alla serie maggiore, a costruirla come un prodotto seriale autonomo, aperto all’ingresso nel suo mondo narrativo anche di spettatori non fedeli di Breaking Bad. Jimmy, per il momento, non ha la statura di un eroe tragico, com’era invece Walt: «I am no hero», ammette candidamente a un certo punto. Anche i criminali che in Breaking Bad giganteggiavano vengono in qualche modo ridicolizzati: il temibile Tuco diventa un lamentoso gangster che se la prende per le offese alla sua anziana abuelita.

 

Le ultime stagioni della serialità americana dei canali via cavo, come AMC che trasmette la storia di Saul, mostrano che si rischia una fase di relativo stallo entro i confini dell’ambiente tv, quello dei canali via cavo appunto, che ha segnato l’inizio di una grande età dell’oro di questo genere di racconto. Si gioca sugli spin-off, si traducono per la tv titoli cinematografici (vedi Fargo su FX), si fa affidamento alle nuove stagioni di serie ormai in onda da diversi anni (vedi il successo di The Walking Dead o del Trono di spade). Si dice addio a titoli che hanno fatto la storia del genere negli anni recenti, come nel caso di Mad Man o Breaking Bad, e trovare idee all’altezza di quei capolavori non è facile. Cose molto interessanti e fresche sono uscite dai canali network (più simili alle nostre tv generaliste), come dimostra il caso di Empire. Oppure dalle produzioni di nuovi operatori come Netflix e Amazon (con Transparent su tutto). Che il vento stia cambiando?

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