L’assalto a Capitol Hill e la didattica a distanza
Le immagini dell’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio scorso, hanno fatto il giro del mondo. E hanno inquietato un po’ tutti, in Europa. Quel che succede negli Stati Uniti riguarda da vicino il cosiddetto mondo occidentale, il quale resta legato da tanti fili, militari, economici e culturali alle sorti di quella che è, per ora, l’unica potenza egemone. Quelle immagini ci hanno ricordato quanto può essere fragile la democrazia. Nei volti dei manifestanti americani, ultimi difensori del Presidente sconfitto, si è visto il riflesso di quello spettro che agita tutte le democrazie occidentali: il populismo. Espressione vaga, quest’ultima, ma altamente evocativa, con cui il discorso politico e mediatico mainstream indica la galassia composta da tutte quelle voci che protestano contro la globalizzazione, alla quale vorrebbero contrapporre un rinnovato ruolo del locale, del comunitario, del nazionale.
Per articolare un discorso sensato sulla questione della crisi della democrazia, tuttavia, vorrei qui prendere in considerazione un altro aspetto, comunque legato alla situazione presente che stiamo affrontando ovunque nel mondo. Si tratta dello stato dei sistemi educativi. La crisi pandemica ha sconsigliato di far funzionare la trasmissione scolastica del sapere secondo i canali tradizionali – un’aula in cui son fisicamente presenti i docenti e i loro allievi. È parso ovvio che, per contenere la diffusione del virus, si dovessero tenere studenti e allievi a casa.
Non si è discusso molto del fatto che sarebbe stato meglio implementare i servizi di trasporto pubblico usati da chi deve recarsi un edificio scolastico per evitare l’aumento dei contagi: è parso più semplice chiudere le aule. Men che meno si è discusso del fatto che, usando per fare lezione Zoom o Webex, ovvero piattaforme private, con sedi negli Stati Uniti, si sarebbero violate elementari forme di tutela della privacy. Infine: della possibilità di sanificare le aule con l’ozono, che garantisce la totale igienizzazione in quanto uccide ogni virus possibile e immaginabile (metodo usato con successo sin dai primi periodi di lockdown in molte aziende) non mi risulta abbia parlato proprio nessuno. Ma tant’è: di fronte all’emergenza, si devono per forza di cose prendere decisioni atte a semplificare le procedure, minimizzando i costi complessivi. In un modo o nell’altro, la didattica a distanza è risultata essere il male minore: là dove ha potuto funzionare, ha funzionato. I docenti si son sentiti gravare di un surplus di fatica, ma hanno fatto ovunque il loro dovere, come c’era da aspettarsi.
Colpisce tuttavia il fatto che ci sia chi vede di buon occhio l’intera faccenda, e sostiene che si potrà continuare così – cioè a fare lezione in via telematica – anche dopo, nell’età postpandemica prossima ventura (nella quale, come ci viene ripetuto da tempo, nulla sarà – o addirittura dovrà essere – più come prima). Chiedersi però come fare per garantire a tutti l’accesso alla rete, in modo che non vi siano diseguaglianze tra chi vive in famiglie che possono permettersi un buon accesso alla rete e chi non può fare lo stesso, significa porre un’altra di quelle domande che riceveranno una risposta appunto solo nell’età postpandemica. Nel frattempo, gioverebbe però ricordare ai fautori delle lezioni telematiche un fatto che sta emergendo dalle prime raccolte di dati svolte in Francia o nei Paesi Bassi a un anno di distanza dallo scoppio della pandemia: nel periodo d’insegnamento in cui si è dovuto fare lezione in via telematica il tasso di apprendimento è calato, a seconda delle situazioni, della tipologia di scuola e simili, di percentuali comprese tra il 30 e il 50 per cento. Non mi pare poco. Personalmente, scommetterei sul fatto che tale risultato non sia da attribuire alla scarsa capacità didattica degli insegnanti.
Un’ultima considerazione, a proposito della didattica a distanza, che molti vorrebbero mantenere anche nell’era postpandemica: in molti paesi si sta cercando di tornare il più in fretta possibile alla didattica in presenza, anche in contesti in cui i contagi da Covid19 restano considerevoli, a causa dell’aumento delle depressioni e del numero di suicidi tra adolescenti. Come dire: a scuola ci si va non solo per imparare questa o quella materia, ma anche per socializzare. Giuste le ipotesi di Robin Dunbar sul fatto che per gli umani socializzare, anche nella forma della chiacchiera informale, ha la stessa importanza che ha il grooming per i primati che non parlano, è chiaro che impedire agli adolescenti l’accesso alle aule scolastiche possa avere conseguenze disastrose sulla loro vita psichica e affettiva presente, come pure sul futuro delle loro capacità di intrattenere relazioni soddisfacenti e appaganti con i propri conspecifici.
La domanda che più di tutte attende di essere discussa però risulta un’altra – e colpisce che invece rimanga assente dai dibattiti sulla questione. Si tratta della domanda su cosa si debba insegnare a scuola per formare cittadini capaci di contribuire, in futuro, all’edificazione di una città democratica. Partiamo dai dati sulle competenze di base riferiti al nostro paese (qui uso come fonte IlSole24Ore). Vi sono quasi 13 milioni di adulti con un livello di istruzione basso (equivalente grosso modo alla terza media); più di un adulto su due (la stima oscilla tra il 53-59% dei 25-64enni) è potenzialmente bisognoso di riqualificazione per via di competenze “obsolete”, o che a breve lo diventeranno, a causa dell’innovazione e del cambiamento tecnologico in atto nel mondo del lavoro, oppure perché, nonostante la laurea, possiede scarse capacità digitali, di alfabetizzazione e di calcolo.
Ma il punto chiave, per dare l’idea di come si colloca il nostro paese entro una cornice più ampia, è che i circa 13 milioni di italiani con basso livello di istruzione rappresentano circa il 20% della popolazione adulta europea con un basso livello di istruzione (circa 66 milioni di individui totali). Si tenga presente cosa si intende, concretamente, quando si parla di un livello di istruzione basso: stiamo parlando di individui che riescono con grande difficoltà a leggere testi brevi su argomenti famigliari e a individuare informazioni specifiche e che, soprattutto, non sono in grado di associare testo e informazioni. È vero che il dato riguarda una popolazione per lo più adulta (di età compresa, cioè, tra i 55 e i 65 anni), rispetto alla quale si applica la categoria “analfabetismo di ritorno”. Se non si vuole che ad ingrossare questa massa di ignoranti si collochino i giovani che son stati costretti a seguire lezioni a distanza, è ragionevole supporre che forse varrebbe la pena tornare al più presto in aula, garantendo a tutti (docenti e studenti) che le possibilità di contagio vengano ridotte a zero.
Ed è a questo punto che è quanto mai urgente chiedersi di quali competenze debbano essere dotati coloro che vanno a scuola. In primo luogo, sono necessarie competenze in campo informatico. Ciò aiuterebbe non solo a trovar lavoro, ma anche a capire qual è la posta in gioco politica della rivoluzione digitale in corso ormai da decenni. Come ha mostrato Jamie Susskind in un libro dedicato a questo tema (Future Politics. Living together in a world transformed by tech, Oxford University Press), uscito nel 2018, le nuove tecnologie – di cui tutti facciamo uso, non solo per la didattica a distanza – hanno acquisito un potere su di noi che è divenuto ormai tale da mettere in pericolo il funzionamento della vita democratica. Oltreoceano se ne sono accorti bene. Lì non solo desta preoccupazione il populismo dei sostenitori di Trump, con i suoi strascichi sessisti e razzisti, ma anche il peso che hanno le corporation che gestiscono – appropriandosene – i dati della rete. Investigation on Copetition in Digital Markets è il titolo di un report, frutto di un paio d’anni di lavoro di ricerca e pubblicato alla fine del 2020, steso dalla sottocommissione per l’antitrust della Camera dei Rappresentanti, presieduta dal deputato del Rhode Island David N. Cicilline. In questo documento di più di quattrocento pagine si legge a chiare lettere che o si impongono severe misure antitrust al mercato del digitale, o la stessa democrazia del paese è in pericolo. Il mercato in cui operano i GAFAM non è infatti un mercato qualunque, nel senso che il potere che viene gestito dai GAFAM non tocca solo la sfera economica. Gestire quantità enormi di dati e poterli poi incrociare significa infatti poter istruire quelle architetture di scelta che predeterminano lo spazio di manovra dei singoli individui.
Tuttavia, è ragionevole supporre che implementare, attraverso opportuni aggiustamenti nei programmi scolastici, una maggiore consapevolezza di ciò che è in gioco quando si diventa fruitori della rete non sia affatto sufficiente per garantire che la formazione delle giovani menti vada nella direzione che qui si auspica. È molto più probabile che, oggi come in passato, al fine di costituire le basi di una coscienza democratica matura, adulta e consapevole siano indispensabili soprattutto le care vecchie scienze umane. Il che comporta questo: garantire la presenza di concetti, contenuti e narrazioni che possano aiutare gli individui a dotarsi, in maniera autonoma e responsabile, di quelle attitudini che stanno alla base – a livello esistenziale prima ancora che cognitivo – di una mentalità democratica. Molto banalmente, si tratta di rendere comprensibile che la democrazia è un bene non negoziabile (che va cioè difeso anche a costo della vita), che si è affermata nel mondo (là dove si è affermata) al prezzo di lotte e guerre, che la si può perdere in un istante, che essa non consiste solo nel rispetto formale di alcune regole, ma tocca la natura profonda del vivere associato. Un cittadino è democratico non solo se ha appreso a rispettare sistemi di credenze e modi di agire diversi dai propri, ma anche se ammette serenamente e con piena cognizione di causa che la prassi ordinaria di una polis democratica consiste nella negoziazione permanente di punti di vista differenti su ciò che definisce i contorni del bene comune.
Provo a essere ancora più concreto – forse brutale – per chiarire il punto. Se un individuo non sa bene chi comanda e perché, se non sa trovare argomenti plausibili per dire cosa i membri di un collettivo devono gli uni agli altri al fine di garantire a tutti la possibilità di condurre un’esistenza decente, se non sa definire i limiti al di là dei quali è opportuno che la libertà di alcuni venga limitata, e non sa quindi individuare quel nocciolo di diritti che nessuno (nemmeno lo Stato) può violare, pena lo sprofondare nell’insensatezza della stessa nozione di libertà, e se infine non sa indicare quali vie dovrebbero essere rese accessibili a tutti per poter esercitare la propria sovranità in quanto cittadini, allora vuol dire che l’individuo in questione non dispone delle facoltà necessarie per esercitare pienamente la propria cittadinanza attiva.
E cosa c’entra con questo, si dirà, l’insegnamento delle scienze umane? C’entra in maniera ineludibile. Se un individuo, che poi nella vita andrà a fare il medico o l’ingegnere informatico, o il commercialista, o il commesso, o il commerciante, o quel che si vuole, non ha mai acquisito una qualche dimestichezza con il sapere che viene veicolato dalle scienze umane, difficilmente potrà cavarsela con i ferri del mestiere richiesti per l’esercizio della cittadinanza democratica. Lo sguardo sulla storia della propria tradizione culturale e la conoscenza (almeno per sommi capi) dell’archivio che contiene i testi e i discorsi fondatori che formano l’identità del collettivo a cui si appartiene sono due elementi portanti di ciò che viene trasmesso da un lato dalla filosofia, dall’altro dall’insieme delle scienze storico-sociali. Ora, a partire da questi due elementi portanti si forma quell’attitudine critica che permette di diventare cittadini democratici e che riassumerei come segue. In primo luogo, si tratta di capire (nel senso profondo del termine) che tutte le tradizioni culturali, in quanto tradizioni culturali, hanno pari dignità. Ciò significa fare un buon uso di quel relativismo metodologico che ti viene da tutte le discipline storico-culturali e ti permette di guardare alla tradizione alla quale tu stesso appartieni come si guarda a un prodotto storico-culturale tra altri, che cambia nel tempo ed è frutto di ibridazioni, incroci, percorsi accidentati e a volte casuali. Da qui sorge il riconoscimento dell’altro, che viene da altrove, che ha letto altri libri, o che non ne ha letto nessuno, che vive in modo diverso, mangia cose diverse, ha gusti diversi, e così via.
Avendo appreso a cogliere la contingenza dei fenomeni culturali che caratterizzano la tradizione a cui si appartiene, si diventa insomma ospitali nei confronti dei sistemi di credenze diversi dal proprio. In secondo luogo, si tratta di cogliere come il relativismo metodologico che si genera da uno sguardo storico rivolto ai fenomeni umani non sia assolutamente in contraddizione con la difesa dei valori che stanno a fondamento di un paese democratico. Anche questi valori sono contingenti, nel senso che sono il precipitato di un ben preciso decorso storico, ma sono quei valori senza i quali non starebbe in piedi una nazione democratica. Per poter vivere in una società democratica, e per poterla sostenere nel tempo, è necessario che la maggioranza di coloro che aderiscono al progetto democratico siano convinti del fatto che è un bene non negoziabile vivere in una società democratica piuttosto che in una non democratica (altrimenti si verifica appunto quella caduta dei regimi democratici ben descritta a suo tempo da Juan J. Linz). Se dico che una cosa è per me un bene non negoziabile, vuol dire che io, dopo aver spiegato con argomenti ragionevoli perché ritengo quella cosa un bene a chi vorrebbe togliermela, sono disposto a difenderla anche a costo della vita, nel caso che il contenzioso basato su argomenti non abbia successo e l’altro persista nel mettere in discussione, al limite con l’uso della forza, il valore in cui credo. Valori come la libertà e la giustizia – nel loro impossibile bilanciamento – sono valori non negoziabili per chiunque creda che l’assetto democratico della società sia un bene non negoziabile.
Tali valori non negoziabili devono però, come appena detto, essere argomentati. Almeno in forma embrionale. E questo ben prima di concepire anche solo l’eventualità di doverli difendere da possibili attacchi interni o esterni (per inciso: quando mi riferisco a questi ultimi, non intendo nemmeno lontanamente suggerire che la democrazia vada esportata con la forza; non occorre essere esperti di relazioni internazionali, o aver letto autori come Mearsheimer, per capire che se uno stato democratico si imbarca nell’impresa di imporre la democrazia a un altro paese, non democratico, finisce sia con l’indebolire la propria posizione a livello geopolitico, sia con il mettere in pericolo l’assetto democratico al proprio interno).
Dal confronto con ciò che si apprende dallo studio delle scienze umane si forma, si plasma, si sviluppa la soggettività democratica (ed è questo, in fondo, il senso della parola tedesca Bildung, intesa, humboldtianamente, come formazione di cittadini e non di sudditi). Da questo confronto, infatti, scaturisce – in termini sia cognitivi che affettivi – la cassetta degli attrezzi da cui provengono argomenti a favore della laicità, della tolleranza, della libertà individuale intesa come potere sovrano che l’individuo ha su di sé quale autore di scelte che riguardano la sfera intima e privata, come pure a favore dello sviluppo di quei sentimenti di simpatia e partecipazione al dolore altrui che rendono un individuo capace di comportarsi in modo solidale con chi è stato meno fortunato di lui.
Concludo con un esempio, che riguarda l’uso dei classici (un tema questo, su cui ha scritto, in vari luoghi della sua opera, pagine decisive la filosofa Martha Nussbaum). Studiando i classici, si modula narrativamente la propria identità in modo tale da allargare il proprio orizzonte esperienziale. Leggendo Tucidide si impara che la guerra è la madre di tutte le violenze. Se alla Guerra del Peloponneso si aggiunge la lettura di Guerra e pace, si diventa (forse) più propensi ad amare la pace come un bene prezioso. Leggendo Catullo, Ovidio o il quarto libro del De rerum natura ci si avvicina alle complicatezze della via amorosa. E se nel nome della political correctness si dicesse che Omero e Tucidide incitano alla violenza, o che la letteratura erotica greca e romana è matrice di pregiudizi di genere, non solo ci si dimostrerebbe incapaci di fornire agli studenti quegli strumenti critici che servono a decostruire un corpus testuale, ma si farebbe il gioco di chi vorrebbe sottrarre a coloro che abitano (indipendentemente dalla loro provenienza) il mondo euroamericano le chiavi di accesso a quella semiosfera che, in questa parte del mondo, costituisce il terreno di coltura di immaginari collettivi ancora vive e operanti.
Il discorso che sto facendo qui non vale, ovviamente, solo per il continente nordamericano e quella penisola asiatica chiamata Europa.
Ogni tradizione ha i suoi classici. Ed è in relazione a questi che vengono costruite le identità collettive, modulandole di volta in volta vuoi per forgiare strutture del sentire condivise. Lo sapeva bene Goethe, chiamato, nel 1808, dal funzionario Niethammer a redigere uno Schulbuch per le scuole bavaresi. Niethammer auspicava che in esso non fossero presenti solo autori di lingua tedesca. Consapevole del fatto che il valore dei classici sta nella loro capacità (potenziale) di favorire un atteggiamento cosmopolita, Goethe avrebbe voluto inserire, in tale testo scolastico, anche classici delle letterature asiatiche e dell’oriente antico. Insomma: è indifferente da quale tradizione si parta, l’importante è veicolare, attraverso una sapiente modulazione dei canoni e una analisi critica della loro provenienza, una concezione cosmopolita del mondo. Il senso del progetto goethiano non credo abbia perso di attualità, dal momento che nell’età presente è quanto mai necessario saper coniugare democrazia e cosmopolitismo. Altrimenti può accadere, come è già accaduto (o sta in parte accadendo in India, la più grande democrazia del mondo), che “ideologie del classicismo” di matrice non democratica si pongano alla base di progetti politici di natura totalitaria. Un rischio, questo, che le mitologie veicolate dalla rete sta rendendo molto concreto. Per scongiurarlo, è quanto mai opportuno chiedersi, in fretta, cosa insegnare a scuola quando si sarà tornati in classe.