Milano / Paesi e città

26 Aprile 2011

Attraversata piazza Tricolore, a Milano si entra nel Risorgimento. No, non sta risorgendo niente: in corso Concordia, davanti all’Opera di San Francesco, la fila di chi va a mangiare un pasto caldo continua ad allungarsi (ormai si sfiorano i duemilacinquecento pasti al giorno), e non solo di extracomunitari, mentre qualche metro più in là, nella piazza che al Risorgimento è dedicata, si sono aperti gli ombrelloni neri di un ristorante che, indifferente alla crisi e alla storia, inneggia all’oro. In mezzo alla piazza la statua del santo di Assisi svetta con le mani alzate (per paura?), cinque dita che benedicono a destra e tre a sinistra, “cinque e tre otto” l’avevano ribattezzata i milanesi quando ai monumenti di strada facevano ancora attenzione.

 

No, non pare che stia risorgendo qualcosa, ma i nomi delle vie, e i personaggi che richiamano, in questo angolo di città – la piazza vicina è intitolata alle Cinque Giornate – sono Unità d’Italia che avanza. Carlo Poerio, napoletano, famiglia liberale, condannato a trent’anni di carcere dalla restaurata autorità borbonica per essere stato, nel 1848, ministro dell’istruzione del governo costituzionale della sua città, è parallelo a un altro Carlo e altro napoletano, Pisacane, nobile, storico, patriota, esule in Francia, Inghilterra e Svizzera dove conobbe e frequentò Mazzini, suicida dopo il fallimento della spedizione di Sapri. Ciro Menotti è il primo a destra di corso Indipendenza. Modenese, imprenditore, organizzatore di comitati antiaustriaci con l’appoggio di Francesco IV, alla vigilia dell’insurrezione fu arrestato e impiccato, conclusione tragica dei moti del 1831, nei quali erano apparsi i limiti di un movimento fiducioso nell’accordo con i principi e invischiato in un tortuoso possibilismo (la storia è sempre stata poco maestra, ma sarà un monito da non trascurare?).

 

Dall’altro lato del corso c’è Goffredo Mameli, il poeta dei Fratelli d’Italia che la maggior parte non riesce a imparare a memoria. Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta… Desta, parola desueta, fuori uso, ma, se anche la si sapesse decifrare, l’Italia risvegliata avrebbe qualche riscontro nello specchio della realtà? (Beh, a pensarci bene, forse in quel milione di donne che in questi giorni, in piazza, ha sventolato non bandiera bianca, ma sciarpe di lutto e di riscossa…). Proseguendo dallo stesso lato si incontrano i Fratelli Bronzetti, trentini, garibaldini, Narciso, Pilade e Oreste, l’unico dei tre sopravvissuto al 1861, e dall’altra parte (lungo una ideale e mai veramente attuata direttrice Nord-Sud?) Castel Morrone, il paese in provincia di Caserta dove si svolse, nel 1860, una vittoriosa battaglia di Garibaldi contro le truppe borboniche. No, non si direbbe proprio che stiamo risorgendo, eppure, saranno i nomi delle vie, saranno i personaggi eroici, saranno i tamburi delle celebrazioni dell’Unità che ormai rintronano, sarà l’illusorietà del tempo che assottiglia e persino annulla le distanze, camminando in questo angolo di città a volte mi viene come una speranza.

 

Gli uomini che hanno assunto le iniziative da cui è nata l’Unità, Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele II, costretti a prendere decisioni convulse senza poterne prevedere del tutto le conseguenze, si odiavano, anzi si disprezzavano, ma si sono sostenuti a vicenda e hanno evitato di bloccare un movimento cresciuto nonostante le sconfitte, le delusioni e le difficoltà. Cavour, il calcolatore, era pronto ad applaudire Garibaldi ma anche, nel caso fosse servito, a farlo arrestare. Nei rapporti con il re esercitava la pazienza, ma testimoni raccontano che lo chiamò traditore, prese a calci le sedie della reggia e gli ricordò che i re, quando fanno troppe stupidaggini, sono poi obbligati ad abdicare. Garibaldi, il repubblicano, si rassegnò a un'Italia monarchica, per quanto il re, che lord Clarendon, il ministro degli esteri inglese, aveva definito “un imbecille” e “un disonesto”, continuasse a considerare “canaglie” lui e i suoi. Cavour però non gli era mai piaciuto e dopo l’Unità lo accusò, alla Camera, di avere progettato “una guerra fratricida”. Il conte levò presto il disturbo: si ammalò all’improvviso e morì. In ogni caso tutti e tre, per ragioni diverse e più o meno nobili, si sono giocati la battaglia fino in fondo, perché capivano che non farlo avrebbe portato dritto nel baratro.

 

I valori di quel Risorgimento, sangue, suolo, esaltazione dell'eroismo sacrificale, barriere di censo e di genere, non credo siano una tradizione da riprendere, l’antifascismo avrebbe interpretato le spinte risorgimentali di libertà in un modo più generosamente inclusivo, fino a incorporarle nella Costituzione repubblicana. Però quell’aria, quel vento forte, quella volontà di combattere e di risorgere, nelle vie e nelle piazze dove abito ho sempre più spesso l’impressione di sentirla. Vorrei che non fosse solo suggestione.

 

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